Ossigeno firma biologica inesatta

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Ossigeno – Per anni si è ritenuto che ossigeno significasse prova di vita, che fosse una concreta possibilità di trovare forme viventi anche in altri pianeti, ma, come ben sappiamo, la scienza è inesatta e le correzioni sono all’ordine del giorno.
Da tale premessa eccomi a narrarvi come in queste ore sia rilanciata la notizia che la presenza di ossigeno nell’atmosfera di un esopianeta potrebbe essere una firma biologica inesatta o quantomeno poco affidabile. La fonte di questa novità è un nuovo studio condotto da team di ricercatori guidati dall’Università della California di Santa Cruz (Ucsc).
Infatti i ricercatori hanno basato la loro scoperta su un modello computazionale termo-geochimico-climatico che ha permesso di studiare l’evoluzione dell’atmosfera di pianeti terrestri variando l’inventario iniziale dei composti chimici volatili in essa presenti. I risultati ottenuti, pubblicati sulla rivista Agu Advances, mostrano tre diversi scenari in cui un pianeta roccioso attorno a una stella simile al Sole – dopo 4.5 miliardi di anni di evoluzione, corrispondenti all’età stabilita per la Terra – può sviluppare atmosfere ricche di ossigeno di origine abiotica, cioè proveniente da attività non biologica, il che renderebbe l’eventuale rilevazione della firma spettrale della molecola – se interpretata come biosignature – un falso positivo.
La ricerca, spiega Joshua Krissansen-Totton, ricercatore della Università di Santa Cruz e primo autore della pubblicazione, “mostra che ci sono diversi modi per produrre ossigeno nell’atmosfera senza che questo indichi la presenza di vita, ma ci sono altre osservazioni che si possono fare per aiutare a distinguere questi falsi positivi dal vero segnale”.
Nei prossimi decenni, forse già entro la fine degli anni ’30, gli astronomi avranno a disposizione telescopi in grado di acquisire immagini e spettri di assorbimento di molecole in pianeti potenzialmente simili alla Terra attorno a stelle simili al Sole. L’idea, spiegano i ricercatori, è quella di puntare telescopi verso questi mondi in cui potrebbe essere emersa la vita e caratterizzare le loro atmosfere. Ma le rilevazioni di falsi positivi costituiscono, appunto, un problema.
“Si è discusso molto sul fatto di considerare il rilevamento dell’ossigeno “sufficiente” come segno di vita”, osserva Jonathan Fortney, anch’egli dell’Università di Santa Cruz e coautore dello studio. “Questo lavoro evidenzia la necessità di conoscere il contesto delle rilevazioni. Quali molecole si trovano oltre all’ossigeno e cosa ci dice questo sull’evoluzione del pianeta?”.
L’ossigeno può essere prodotto nell’atmosfera superiore di un pianeta dalla luce ultravioletta ad alta energia che scinde le molecole d’acqua nei suoi componenti: idrogeno e, appunto, ossigeno, dicono i ricercatori. L’idrogeno, più leggero, viene perso nello spazio, lasciandosi dietro l’ossigeno, che così si accumula.
Ma ci sono anche processi che possono rimuovere l’ossigeno dall’atmosfera: il monossido di carbonio e l’idrogeno rilasciati dal degassamento dalla roccia fusa, ad esempio, reagiscono con l’ossigeno riducendone le quantità. E anche gli agenti atmosferici che erodono la roccia assorbono la molecola. Questi sono alcuni dei processi che i ricercatori hanno incorporato nel loro modello per studiare l’evoluzione di un pianeta roccioso.
Gli scenari che questi modelli evolutivi hanno restituito, in cui le atmosfere contenevano ossigeno di origine abiotica, sono tre, dicevamo. Un quarto scenario, in cui la zuppa di gas volatili inserita è quella che si pensa costituisse la Terra primordiale, non ha mai prodotto ossigeno di una simile origine.
“Se esegui il modello per la Terra, inserendo quello che pensiamo sia l’inventario iniziale di composti volatili, ottieni ogni volta lo stesso risultato: senza vita non si produce ossigeno nell’atmosfera”, sottolinea a tal proposito Krissansen-Totton. ”Ma abbiamo anche trovato diversi scenari in cui è possibile ottenere ossigeno senza la presenza di vita”.
Il primo scenario che gli autori descrivono nella pubblicazione è quello in cui le condizioni iniziali di formazione planetaria sono simili a quelle della Terra ma con una quantità di anidride carbonica maggiore rispetto all’acqua (rapporto CO2/H2O maggiore di 1). Questo si traduce in un costante ed elevato effetto serra che, rendendo il pianeta molto caldo, impedisce al vapor d’acqua di condensarsi sulla superficie del pianeta. Il risultato è la costante presenza atmosferica di acqua allo stato gassoso disponibile all’azione della luce Uv che, come detto, la scinde in idrogeno e ossigeno.
“In questo scenario, simile a quello di Venere, tutte le molecole volatili sono nell’atmosfera”, chiarisce Krissansen-Totton. “Poche rimangono nel mantello per essere degassate e impedire la formazione di ossigeno”. Ma le novità non finiscono qui. Infatti anche il secondo e il terzo scenario partono da condizioni simili a quelle della Terra, ma mentre nel primo caso l’input è una quantità di acqua da 10 a 230 volte maggiore di quella presente sul nostro pianeta, nel secondo è 0.3 volte la quantità di acqua del nostro bellissimo pianeta blu. Per mondi ricchi d’acqua, spiegano i ricercatori, gli oceani profondi esercitano un’enorme pressione sulla crosta planetaria. Ciò interrompe efficacemente l’attività geologica, inclusi alcuni processi come la fusione o l’erosione delle rocce che rimuoverebbero l’ossigeno dall’atmosfera.
Nel caso di mondi desertici, invece, il magma superficiale del pianeta inizialmente fuso può congelare rapidamente, mentre l’acqua, seppur poca, rimane nell’atmosfera, consentendo, man mano che viene scissa, l’accumulo di ossigeno e la fuga di idrogeno. “La sequenza tipica è che la solidificazione del magma superficiale si verifichi simultaneamente alla condensazione dell’acqua negli oceani superficiali”, aggiunge Krissansen-Totton. “Sulla Terra, una volta che l’acqua si è condensata sulla superficie, i tassi di fuga erano bassi. Ma se rimane ancora vapore d’acqua in atmosfera dopo che la superficie fusa si è solidificata, c’è una finestra di circa un milione di anni in cui l’ossigeno può accumularsi, perché nessuna superficie fusa può consumare l’ossigeno prodotto dalla fuga di idrogeno”.
In conclusione gli scenari delineati in questo studio sottolineano che nessuna singola osservazione, inclusa la rilevazione di ossigeno su pianeti presenti in zone abitabili attorno a stelle simili al Sole, può essere un segno inequivocabile della presenza di vita, concludono i ricercatori.




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