Giornata contro le schiavitù, 20-30 milioni le vittime oggi

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Giornata contro le schiavitù, 20-30 milioni le vittime oggi

La Giornata internazionale per la Commemorazione della Tratta degli schiavi e della sua abolizione, voluta dall’Assemblea generale dell’Onu, che si celebra il 23 agosto, ha l’obiettivo di imprimere nella memoria di tutti i popoli il ricordo della tragedia del commercio degli schiavi e ricorda la rivolta avvenuta sull’Isola di Santo Domingo la notte tra il 22 e il 23 agosto 1791. Guidata da Toussaint Louvertoure, primo generale maggiore di colore, la sommossa del 23 agosto diede infatti il via alla ribellione che avrebbe portato all’abolizione della tratta transatlantica degli schiavi. Ecco l’intervista rilasciata a Radio Vaticana da Giuseppe Marcocci, professore associato di Storia moderna all’Università degli Studi della Tuscia:

R. – La Giornata dell’Unesco, fondata nel 1997, nasce proprio dalla riflessione sull’opportunità di collegare una serie di denunce legate al presente, a situazioni tutt’oggi vigenti di tratta degli schiavi, di riduzione in schiavitù nel mondo. Si calcolano fra i 20 e i 30 milioni di esseri umani che ancora oggi vivono in condizione di schiavitù con una vicenda che ha segnato la storia dei secoli dell’età moderna, in particolare in Occidente e nel mondo atlantico, una storia che ha inizio alla metà del ‘400. Le esplorazioni lungo le coste africane portano anzitutto i portoghesi ad accedere ad aree a sud dell’odierno Senegal, dove ci sono le prime catture, e poi si entra in contatto con i mercati locali di schiavi, la gran parte gestiti dai mercanti carovanieri del Sahara, che portavano schiavi dalle regioni interne dell’Africa. Da lì si avvia, soprattutto nel secolo successivo, dalla metà del ‘500 in poi, una tratta atlantica che attraversa l’oceano insieme ai conquistatori, ai coloni iberici, perché gli schiavi africani diventano una forza lavoro, le braccia della coltivazione delle piantagioni del Nuovo Mondo, dopo che inizialmente c’era stata una prima riduzione in schiavitù delle popolazioni locali, degli indios. Questa campagna sfocerà poi all’inizio dell’’800 nei primi faticosi, complessi, controversi provvedimenti di abolizione prima della tratta, quindi prima del commercio vero e proprio attraverso l’Atlantico e poi della vera e propria schiavitù.

D. – Lo sfruttamento dell’uomo avveniva soprattutto per quella che era la forza lavoro. Ma quando e perché nacque il commercio che vide coinvolti donne e bambini?

R. – La tratta degli schiavi è antica quanto la storia dell’umanità e dai secoli dell’età moderna sappiamo la dimensione planetaria della tratta degli schiavi, non soltanto gestita da iberici e occidentali. Le donne e i bambini non fanno parte dall’inizio della tratta, che inizialmente è un fenomeno che riguarda gli uomini, gli uomini in forze. Le donne e i bambini inizieranno a far parte, comunque in numero ridotto, della tratta quando questa esploderà, quando la domanda di forza lavoro dai Paesi della regione dell’Africa occidentale crescerà esponenzialmente nel corso del ‘700. A quel punto, l’offerta non sarà più sufficiente e si inizierà a ricorrere anche ai bambini, si inizierà a ricorrere anche alle donne.

D. – Quali sono le forme di schiavitù presenti oggi e come si differenziano dal passato?

R. – C’è da dire che la schiavitù ha dei tratti di lunga durata. Alcune delle forme tutt’oggi vigenti ci rinviano alla storia immemoriale di questa pratica. Penso in particolare alla schiavitù per debito. C’è anche una schiavitù legata ai prigionieri di guerra, che oggi ha assunto la variante particolarmente spregevole della schiavitù sessuale, cui assistiamo purtroppo con una certa frequenza oggi nel mondo del Medio Oriente. Tuttavia, ci sono anche delle caratteristiche che sono proprie del nostro tempo, in particolare il lavoro minorile in condizioni spesso di vera e propria privazione assoluta di libertà. La vendita di manodopera dei bambini è spesso un fenomeno presente soprattutto oggi nel mondo dell’Asia meridionale e dell’Asia sudorientale. La grande differenza rispetto alle società di antico regime, ai modelli di società schiavile che hanno conosciuto la loro interruzione durante l’’800, è che allora la schiavitù era legale. Naturalmente, un occhio attento vede che in alcuni casi ci sono persone ancora oggi ridotte in condizioni di schiavitù, anche in Occidente.

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Vertice di Ventotene: dopo la Brexit l’Europa non è finita


Crescita, difesa e migrazioni al centro del vertice di ieri tra Germania-Francia-Italia convocato sulla portaerei “Garibaldi” a largo dell’isola di Ventotene, laddove nel 1941 fu compilato il “Manifesto per l’Europa”, un sogno federalista a cui i leader intendono ispirarsi per rilanciare l’Unione sul piano economico, della sicurezza e della cooperazione. Il servizio di Gabriella Ceraso:

L’arrivo dei leader a Capodichino intono alle 16, il trasferimento sull’isola pontina, l’omaggio alla tomba di uno degli europeisti più convinti come Altiero Spinelli qui confinato dal fascismo, quindi il vertice per il rilancio dell’Europa, a cui ciascuno dei tre leader punta. Il senso dell’incontro è qui, ha detto Renzi, stare nei luoghi in cui l’Europa è stata pensata non in palazzi istituzionali e fare come dissero i profeti del 1941: “gettar via vecchi fardelli e tenersi pronti al nuovo”. Dopo la Brexit l’Europa non è finita, avverte Renzi: rispettiamo la scelta fatta, ma vogliamo scrivere il futuro. Poi le priorità: sicurezza interna ed esterna, misure forti per la crescita e la disoccupazione e investimenti di qualità. Hollande sottolinea la necessità di una Europa più sicura da garantire con più mezzi e più risorse, del rafforzamento di frontiere e coste, della crescita nel coordinamento per la lotta al terrorismo. Anche la cancelliera Merkel insiste sulla necessità di condivisione di dati e sulla maggiore comunicazione tra intelligence. Bene l’accoglienza, afferma, ma la sicurezza così come la libera circolazione non devono essere messe a rischio. E per la sicurezza è importante anche lo sviluppo, aggiunge il presidente francese Hollande. E lo sguardo, anche tedesco, va all’Africa verso la quale, dicono i leader, abbiamo delle responsabilità: l’Ue deve essere più presente attraverso meccanismi di finanziamento e politiche favorevoli per lo sviluppo specie nel Sahel. Capitolo a parte, a cui i leader tengono molto, sono i giovani. Le proposte comuni che emergono parlano di più formazione e incremento di progetti di studio e lavoro. Da Renzi anche l’annuncio che sull’isola di S. Stefano, lo storico carcere diventerà sede di una scuola di formazione per giovani europei e mediterranei.

Un vertice che ha toccato temi alti, che ora però dovranno essere tradotti in provvedimenti concreti. Gabriella Ceraso ha sentito Eleonora Poli, esperta di questioni europee dell’Istituto affari internazionali:

R. – Questo appuntamento ha avuto un’importanza di carattere simbolico. Di fatto, non poteva avere un carattere decisorio perché appunto era un meeting tra tre Paesi membri, anche se importanti. In un momento di forti crisi e di forti connessioni interne fare un meeting decisivo non era la strategia migliore. Lo definirei più un meeting interlocutorio di definizione di quale debba essere la linea da portata avanti a Bratislava. Questo infatti è un primo meeting, per esempio, per la cancelliera Merkel che ne avrà altrettanti negli altri Paesi europei.

D. – Vengono fuori delle linee di pensiero comuni: qual è il rilievo di queste?

R. – È stata ribadita l’importanza di una maggiore cooperazione sia nell’ambito della sicurezza interna sia nell’ambito del problema della migrazione. Nulla di nuovo sotto il sole, diciamo. Dal punto di vista economico Renzi ha ribadito la necessità di essere sognatori ma anche realisti; questo significa un po’ più flessibilità di rilancio, ma allo stesso tempo portare avanti degli investimenti concreti per il Paese. Renzi è stato molto vago su questo punto, però sembra che ci possa essere un po’ più di flessibilità, anche se la Germania all’inizio sembrava abbastanza rigida su questo tema; forse grazie all’aiuto della Francia ci potrà essere maggiore flessibilità sul tema degli investimenti.

D. – E il parlare di Brexit come si è fatto, come qualcosa che non scoraggia effettivamente è possibile?

R. – Prima di tutto si deve parlare di Brexit come un elemento che non può portare alla fine dell’Unione Europea. Questo è fondamentale perché con l’aumento dei partititi euroscettici e una forte diffidenza verso l’Unione Europea parlare di Brexit come la fine dell’Unione Europea è un po’ come darsi la zappa sui piedi. Quindi, ci deve essere una visione propositiva. Dal punto di vista realistico, molto dipenderà da quando la Gran Bretagna deciderà appunto di adottare l’Articolo 50 e dal successivo processo di negoziazione, perché ovviamente c’è una visione abbastanza divisa: se da un lato alcuni Paesi preferiscono che la negoziazione sia lunga in maniera tale da cercare di trovare un accordo ottimale sia per la Gran Bretagna che per i Paesi membri, altri Paesi invece spingerebbero verso un’uscita più veloce della Gran Bretagna quasi per punirla per questo referendum. Quindi, diciamo che c’è una divisone politica interna tra i Paesi membri: anche all’interno degli stessi Stati non c’è una visione chiara, perché entrambe le opzioni avrebbero conseguenze negative per l’Unione Europea stessa.

D. – A Bratislava, dopo oggi (ieri – ndr), da cosa si partirà e con quali prospettive secondo lei?

R. – È veramente necessario che gli Stati membri mettano in atto una strategia europea concreta, che si parli di un piano effettivo futuro per lo sviluppo dell’Unione Europea – se ci deve essere uno sviluppo dell’Unione – perché la situazione di empasse attuale ha solamente effetti negativi.

D. – In termini concreti, questo che cosa potrà significare? Che decisioni devono essere prese?

R. – Una decisione più concreta sul problema dei migranti, su come ripartirli e su come fare investimenti nei Paesi da dove queste persone provengono. Ci deve essere inoltre una condivisione maggiore di sicurezza interna. Dal punto di vista economico, non si può chiedere ai cittadini europei di credere nell’Unione Europea che al momento sembra portare solamente maggior disagio economico: servono degli incentivi concreti.




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