India: nuove violenze

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Sono trascorse appena 24 ore dalla notizia degli arresti durante un matrimonio cristiano ad opera delle forze governative e senza reali motivazioni ed ecco un altro fatto di cronaca che va a colpire la comunità cristiana indiana sempre più martoriata e bisognosa di essere tutelata.

Dunque i cristiani dell’Andhra Pradesh sono di nuovo sotto attacco. In queste ore, ad essere colpito è stato uno dei vertici della Chiesa locale, monsignor Gallela Prasad, vescovo della diocesi di Cuddapah, aggredito da ignoti mentre ritornava da Karunagari (nel distretto di Kadapa), dove aveva celebrato una funzione religiosa.

L’arcivescovo ha raccontato che monsignor Prasad è stato aggredito mentre si trovava in macchina, di ritorno da Kadapa, a circa 425 km a sud di Hyderabad (la capitale del Telangana). L’automobile che trasportava il vescovo è stata fermata da ignoti, che hanno bendato il religioso e il suo autista e poi li hanno rinchiusi in un luogo sconosciuto. Qui sono stati malmenati per ore durante tutta la notte.

Immediato e forte il richiamo alla tutela ed alla giustizia della Federazione delle Chiese telegu (Ftc), organo al vertice delle varie denominazioni cristiane presenti negli Stati dell’Andhra Pradesh e del Telangana, ha condannato con forza “la crudele aggressione” contro il vescovo cattolico.

Monsignor Bala ha sottolineato come sia “incredibile che tale violenta atrocità sia stata perpetrata contro un alto esponente della comunità di minoranza”. Il presidente della Ftc ha condannato “le modalità impietose dell’attacco contro una persona che ha dedicato tutta la sua vita a Dio e al servizio dei bisognosi e degli emarginati”. L’arcivescovo ha poi chiesto alla polizia e alle autorità di registrare il caso e arrestare i responsabili di “questo crimine efferato, in modo da assicurare giustizia e sicurezza per le minoranze e proteggere le vite dei leader delle comunità religiose”.

Chhe siano in aumentano le tensioni e le violenze sulle minoranze religiose nel paese lo sostiene anche il nuovo rapporto pubblicato dall’Ong “Christian Solidarity Worldwide” dal titolo “India: Communalism in an Election Year”.

Il testo rimarca forti preoccupazioni soprattutto per gli stati di Orissa, Karnataka e Rajasthan. In questi stati esiste, nota il Rapporto, una diffusa pratica di violenza sulle comunità religiose di minoranza, accanto a un robusto sistema di impunità. Per questo l’Ong sostiene la necessità di vigilare per evitare eventuali “epidemie di violenza”, soprattutto nelle zone dove gruppi estremisti indù fomentano tensioni tra le comunità tribali. Il Rapporto evidenzia anche la “discriminazione legalizzata” contro i dalit cristiani e musulmani, la legislazione anti-conversione, e la censura imposta dalle leggi sulla blasfemia.

CSW esprime preoccupazione per la crescente pressione sui difensori dei diritti umani, comprese molestie e minacce da parte di organizzazioni estremiste indù. “Proteggere e rafforzare la difesa dei diritti umani in India è un imperativo irresistibile” .

Nel dibattito sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.

Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della fraternità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.

Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.

Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty International, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Così dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».

In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.

Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi.

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.

Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.

La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».

Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili




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