Montagna – La prima cosa che ha fatto Riccardo Bergamini lassù, completata l’ascesa di quell’inespugnata piramide di roccia e neve incastonata tra cime di oltre seimila metri sull’Himalaya, è stato sventolare il tricolore, appoggiare con garbo e mani tremanti la Madonnina di Lourdes e, accanto a lei, la foto di Chiara. Aveva raggiunto la vetta insieme a Matteo (Stella, l’amico con il quale nel 2019 aveva conquistato il Denali, in Alaska, la cima più alta del Nord America e la più fredda del mondo con i suoi oltre -40 gradi), la cattedrale di ghiaccio era finalmente pronta a svelargli i suoi più potenti e gelosi segreti, ma questa volta Riccardo non avrebbe trattenuto per sé l’indicibile nel petto. Ha schiacciato il tasto della fotocamera, voleva che la famiglia di Chiara, i suoi figli, partecipassero all’ora memorabile data in grazia a pochi fuorilegge della montagna quando, mossi a vita da una domanda – cosa c’è lassù, dall’altra parte? –, si trovano faccia a faccia con il sublime, ciò che immaginano come il paradiso o la prima alba della storia. Voleva mostrare loro cosa c’era lassù, dove non era mai salita nessuna creatura della terra, quella cima inviolata in Nepal che ora aveva un nome: santa Barbara e santa Chiara.
Riccardo Bergamini sul tetto del mondo senza ossigeno
Normalmente si inizia a raccontare l’ultima impresa di Riccardo Bergamini con i numeri, ricordando cioè subito il suo arrivo, senza ossigeno, sul Manaslu, ottava cima più alta del mondo sulla catena dell’Himalaya, il secondo “ottomila”, conquistato nel 2017, dallo scalatore di Lucca, classe 1976 e una casa a 19 metri sul livello del mare. Senza ossigeno – ci aveva raccontato al ritorno -, la salita dal campo 4 (situato a 7.400 metri) alla vetta “appena” 800 metri più in alto (una distanza che sulle Alpi avrebbe coperto in 40 minuti), era durata otto ore. Partito a mezzanotte dalla “zona della morte”, quell’altitudine in cui «il corpo non recupera energia, il fisico non produce più nulla e grida solo che è umano scendere, non salire», rimediato un congelamento a un dito nei pochi secondi serviti a togliere il moffolone per riaccendere la lampada frontale, per otto lunghe ore lo scalatore toscano aveva lottato con le allucinazioni, i colli di ghiaccio che lasciavano il posto a boschi verdi, un latrare di cani lontano, le luci degli altri scalatori che salivano con l’ossigeno scomparse nella notte e il sorgere di un sole accecante che aveva arso ogni suo altro pensiero, ogni cognizione del tempo. Solo allora, quando il confine dell’umana fatica era stato superato e dell’uomo non era rimasto che un filo di fiato, l’immensa cattedrale del Manaslu gli aveva rivelato cosa c’era in cima, dall’altra parte, sul tetto del mondo.
Va poi segnalata l’apertura di una via italiana su una montagna inviolata a partire dalla conquista del Manaslu e quella, nel 2013, in Tibet, dell’Cho Oyu, 8.201 metri, il Pik Lenin in Kirghizistan (7.134 metri), le cime nepalesi dell’Himlung (7.126 metri), le varie vette di oltre seimila metri scalate, tra queste il Pachermo (6.274 metri), l’Island Peak (6.189 metri), e, in Perù, l’Alpamayo (5.947). E naturalmente il Denali (6.194 metri), la tomba di ghiaccio dell’Alaska.
Invece Bergamin ha tenuto a raccontare chi era Chiara, amica di una vita ed esperta scalatrice precipitata in un canalone sulle Alpi Apuane questa estate, per ricordare il senso stesso della sua impresa, di chi sa che lassù nulla è perduto, neanche le croci di cui è disseminata la montagna, quelle che lo scalatore bacia arrivato in vetta ma anche quelle degli amici persi durante le discese o sotto le valanghe. Anche la conquista della piramide inviolata in Nepal, lo scorso 21 novembre, è in un certo senso figlia di imprevisti, frane, valanghe, quelle che Bergamini sapeva li avrebbero travolti se avessero proseguito con l’idea di scalare il Cholatse (6.440 metri).
Un’inviolata piramide di ghiaccio
L’alternativa era una montagna che a memoria di sherpa, mappe e storia delle scalate in Himalaya non era mai stata conquistata dagli uomini. I due scalatori si erano guardati come solo chi condivide le notti su terrazzini di ghiaccio sospesi sull’abisso e sotto un procedere in branchi di stelle può guardarsi: sarebbero stati i primi, come uomini sulla luna tra quelle montagne conosciute a tutti come il tetto del mondo?
Bergamini era abituato a salire senza ossigeno né sherpa, l’amicizia con Stella era stata collaudata dal Monte Bianco alle Apuane fino all’Alaska, «abbiamo sorvolato insieme e in silenzio tutta la Groenlandia e con un piccolo aereo a bassa quota un grande ghiacciaio prima di iniziare l’avvicinamento al Denali, trainando le slitte dei materiali fino ai 4mila metri e poi caricandoceli in spalla. Ricordo la barba completamente gelata quando il 21 giugno a mezzogiorno raggiungemmo la vetta, oltre seimila metri a -43 gradi, il vento che falciava l’immensa distesa ghiacciata. Per tutta la prima fase della pandemia ci siamo promessi che avremmo scalato ancora insieme in Nepal». Perché in Nepal c’è qualcuno che aspetta Bergamini e in Nepal Bergamini ha sempre qualcosa da portare: orfani e biscotti dei carcerati.
Orfani della montagna e biscotti dei carcerati
«C’è un orfanotrofio, ci sono “inciampato” qualche anno fa, a Katmandu. Nulla, nemmeno l’epoca dei disordini armati che ho vissuto in Kirghistan, mi aveva preparato alle storie di questi figli del Nepal. Io di figli ne ho otto e mi aspettano a casa: non posso rispondere al bisogno di questi piccoli, all’attesa di qualcuno che colmi il loro crepaccio umano, ma posso fare il possibile per portare loro la compagnia dei miei figli e dei loro compagni di classe. La loro scuola elementare ha iniziato uno “scambio culturale” per inviare loro lettere, disegni, materiali. Compagnia, insomma. E poi ci sono i carcerati della pasticceria Giotto di Padova: preparano i biscotti anche per loro, gli orfani dell’Himalaya».
Il delirio di un malato, il pollo sull’Himlung
La piramide li tratteneva tra cielo e ghiaccio lucente, e lassù Bergamini pensava a tutte queste cose: ai crepacci dei detenuti del Due Palazzi e quelli degli orfani del tetto del mondo, ai suoi otto ragazzi e alla mamma che non sentiva da giorni (ne sarebbero trascorsi quasi dieci prima di riuscire a contattarla), alla paura, quando la neve aveva ceduto risucchiandogli una gamba, e a quella provata fuori da un ospedale molti mesi e pochi metri sul livello del mare prima, quando sua madre aveva avuto un ictus e a lui chiusero le porte del pronto soccorso in faccia, «lei non può entrare». Aveva ripensato a quella notte al campo base, a 4.700 metri, al delirio febbricitante di un portatore mentre nella stufa veniva bruciata merda di yak e lui e Matteo si avvicendavano a quel corpo scosso dalle convulsioni: si era sentito a casa, racconta Bergamini, accudendo un malato che poteva essere sua madre, un figlio, un amico: non aveva pensato neanche per un secondo al Covid.
Un fuorilegge in ginocchio nel blu
Quelli bravi raccontano di Riccardo Bergamini con i numeri, lui si racconta parlando sempre di un altro, l’amicizia con Matteo, gli orfani del Nepal, il portatore incendiato dalla febbre sull’Himalaya, i figli che lo aspettano a casa. E narrando di una cima non più inviolata sul tetto del mondo che oggi porta il nome della martire del fuoco, che protegge i bravi ragazzi, e il nome della santa di Assisi, lo stesso nome di un’amica ricordata lassù, dove nessuno applaude o comprende il devoto corpo a corpo degli scalatori con la montagna perché sveli loro i suoi più potenti e gelosi segreti. Solo allora tutto si colma di blu e il fuorilegge della montagna cade in ginocchio, rendendo grazie per tutto ciò che di bello e buono vive a valle.