Storia e geopolitica – Ecco perché gli Usa detestano Putin

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“Mosca è da sempre dalla parte sbagliata della storia” disse Barack Obama in occasione dell’occupazione militare del Donbass da parte delle milizie filo-russe. Un’uscita, quella del presidente americano, che non si limita a giudicare le attuali controversie tra Mosca e Washington, ma che evidenzia come la conflittualità tra le due parti non sia superficiale e momentanea, bensì storica, radicata e profonda. E soprattutto più attuale che mai. Quello tra Stati Uniti e Russia è un rapporto altalenante, complesso e complicato, fatto di momenti di intesa controbilanciati da profondissime crisi diplomatiche e militari. Le modalità con cui venivano bilanciati i rapporti tra le due superpotenze in tempo di guerra fredda non sono cambiati. Finiti gli anni 90, dominati dagli americani, gli equilibri sono tornati ad essere incredibilmente simili a prima della caduta del Muro di Berlino. E ad essere uno scontro non solo diplomatico, ma soprattutto valoriale.

Com’è possibile che l’implosione del blocco comunista abbia avuto conseguenze così limitate? Com’è possibile che dalle ceneri di un impero caduto come quello sovietico sia rinato uno dei nemici più temibili dell’Occidente? Terminato il bipolarismo, infatti, l’amministrazione americana si diceva sicura di essere diventata l’unico polo in grado di gestire la politica internazionale. Nei primi anni 90 era maggioritaria all’interno del Congresso la corrente che si identificava nella teoria della Fine della Storia: teorizzata dal politologo Francis Fukuyama, essa teorizzava il dominio americano su tutto il globo e l’impossibilità della sopravvivenza di culture altre rispetto a quella liberale e capitalista di stampo yankee. In effetti quegli anni furono caratterizzati dall’occidentalizzazione dell’Europa centro-orientale e dal progressivo ingresso dei Paesi dell’ex blocco sovietico nella Nato. Un percorso, questo, che venne vissuto tanto dai vertici quanto dall’opinione pubblica americana come la vittoria dei valori liberaldemocratici e dell’universalità della propria missione di esportazione della democrazia.

Fin dall’inizio la Russia diede un’interpretazione opposta. Non una “sconfitta del blocco sovietico” ma una decisione autonoma di porre fine al comunismo e iniziare una nuova fase. Anche se debole sia militarmente che economicamente nella nuova Federazione si diffuse un fortissimo desiderio di rivalsa e di recupero del proprio prestigio, di ricostruzione di una propria immagine e della riscoperta di una nuova identità.

La genesi delle discrepanze tra russi e americani ha origine in questa diversa interpretazione della fine dell’Unione Sovietica. Da allora i rapporti sono sempre stati ciclici, alternando momenti di apertura ad allontanamenti totali. La prima fase della nuova Russia post-sovietica fu caratterizzata dalla collaborazione di Boris Eltsin all’integrazione nel mondo occidentale, seguendo le linee guida americane. Si trattò di una fase di totale apertura che corrispose alle privatizzazioni di massa di interi settori dell’economia e dall’esplosione della disoccupazione e della povertà della popolazione a favore dell’arricchimento fuori misura di un piccolo numero di oligarchi. Questo viene ricordato come il periodo “dell’umiliazione”, dell’allargamento ad Est della Nato e della guerra nei Balcani. Il suo apice fu nel 1998, quando il Cremlino dichiarò il default.

Tutto cambiò quando nel 2000 salì al potere Vladimir Putin. Politico di ispirazione europea, iniziò a misurare gli standard russi con quelli europei e non più con quelli americani. Incrementò l’esportazione verso l’Europa di idrocarburi, rendendoli il principale strumento di realizzazione delle proprie strategie geopolitiche. La sua fortuna fu che, in quegli anni, il loro prezzo salì alle stelle, mettendolo nelle condizioni di risanare i bilanci statali e raggiungere picchi di popolarità molto alti. E di dialogare alla pari con gli Stati Uniti.

Ciò nonostante i primi anni dell’amministrazione Putin furono caratterizzati da una notevole apertura a Washington. Appoggiò le guerre americane contro il terrorismo di matrice islamica (guerra in Afghanistan nel 2011) eppure il suo tentativo di dialogo non venne corrisposto. L’amministrazione di George W. Bush, infatti, gli criticò il deficit democratico, gli respinse l’ingresso della Russia all’Organizzazione Mondiale del Commercio e condannò il suo concetto di “democrazia sovrana” che non accetta ingerenze esterne nelle questioni nazionali.

Al tentativo di apertura seguì una fase di aperto scontro. Nel 2007, in occasione di un congresso sulla sicurezza a Monaco, Putin per la prima volta criticò apertamente la Nato, i “metodi coloniali” degli Stati Uniti e il mondo unipolare. Manifestò una grande volontà di rivalsa e ricordò ai propri partner come nei primi anni 90 la Nato, per bocca dell’allora segretario Manfred Woerner, avesse mentito promettendo di non allargarsi verso Est. Gli Stati Uniti risposero inaugurando uno scudo anti-missilistico su Polonia e Repubblica Ceca, violando unilateralmente il trattato antibalistico e proposero a Ucraina e Georgia l’ingresso nella Nato.

Le posizioni americane si ammorbidirono momentaneamente in corrispondenza dell’avvento dell’amministrazione Obama. Riconoscendosi come una “potenza in declino” e in difficoltà, l’amministrazione americana cercò la collaborazione con la Russia perché strumentale al raggiungimento dei propri interessi imminenti, come il ritiro delle truppe da Afghanistan e Iraq. Lo scontro venne messo in secondo piano, ma non risolto. I problemi, infatti, riaffiorarono presto. Nel 2011, terminati i ritiri americani, tornarono ad essere insistenti le critiche valoriali alla Russia e alla sua “democrazia sovrana”.

Putin rispose con un nuovo approccio, inaugurando una nuova era. Iniziò a mostrare pubblicamente un proprio volto emotivo, un lato umano e sentimentale mai emerso prima, rompendo i vecchi stereotipi che descrivevano i russi come senza sentimenti. Questa nuova umanità aumentò la diffidenza americana, i cui vertici dichiararono di considerare come pericolosa la nuova soft power russa. E, per questo, inaugurarono una serie di liste nere che diffidavano le personalità accademiche vicine al leader russo di circolare sui propri statunitensi.

Tutte le questioni irrisolte esplosero in occasione della crisi ucraina. Quello che iniziò come un conflitto regionale attirò su di sé le attenzioni di tutto il pianeta, ricreando equilibri simili a quelli della guerra fredda ed evidenziando i punti ancora molto lontani dall’essere risolti: l’espansionismo geopolitico americane ad Est, la volontà russa di mantenere il controllo de facto di alcuni degli ex satelliti sovietici, la volontà degli Stati Uniti di utilizzare la Russia come strumento di propaganda mediatica e ideologia (“Mosca è da sempre dalla parte sbagliata della storia”).

La più grande questione irrisolta rimane però quella identitaria. La volontà americana di inglobare la Russia nell’Occidente cozza con la visione del mondo che Putin, strategicamente, sta proponendo al mondo: promuovendo un conservatorismo storico e valoriale, il leader del Cremlino attribuisce  maggiore attenzione al patriottismo russo, alimentando il mito della propria persona in quanto salvatore dei russi e difensore della nazione. Non curandosi dei giudizi americani circa le sue alleanze con alcuni stati canaglia – come l’Iran, la Siria e la Corea del Nord – sta sviluppando l’idea di Eurasia, cioè di un progetto di unione economica tra i due continenti che riponga la Russia al centro di una nuova entità. All’interno della quale la tutela della sovranità nazionale sia il principio fondante dell’integrazione reciproca. E al cui interno non importa se uno Stato sia democratico o meno, purché venga rispettato il principio di non ingerenza.

I valori proposti da Putin e le strategie geopolitiche ad esso connesse sono state identificate dall’amministrazione americana come uno dei principali nemici dell’Occidente. Nell’Eurasia non ci sarebbe spazio per i valori liberali, per la supremazia della dimensione economica su quella politica e sociale, per l’esportazione della democrazia. E per questo, nonostante le aperture russe, la rottura tra Mosca e Washington è  più profonda che mai.

@luca_steinmann1




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