Cinema – Film: E' solo la fine del mondo

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Cinema – Film: E’ solo la fine del mondo

I film della commedia franco-canadese sono spesso dei piccoli capolavori ed anche questa volta con “E’ solo la fine del mondo” hanno fatto centro. Certo la malinconia, la pietà ed anche qualche lacrimuccia cadranno agli spettatori più sensibili ma credetemi ne varrà la pena. In uscita in Italia dal prossimo 4 Dicembre con un cast stellare che si avvale di
Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Léa Seydoux, Vincent Cassel e Marion Cotillard, sapientemente guidati dalla regia di Xavier Dolan.

Louis, giovane scrittore di successo che da tempo ha lasciato la sua casa origine per vivere a pieno la propria vita, torna a torna a trovare la sua famiglia per comunicar are una notizia importante. Ad accoglierlo il grande .Ad accoglierlo il grande amore di sua madre e dei suoi fratelli, ma anche le dinamiche nevrotiche che lo avevano allontanato dodici anni prima. Un crescendo di emozioni raccontate da un cast che ha ottenuto il gran premio della Giuria al Festival di Cannes.

Ma come è nata l’idea del film? Ce lo racconta il regista: “Eravamo nel 2010 o nel 2011, non ricordo. Qualche tempo dopo
ero andato a trovare Anne Dorval ed ero seduto nella sua cucina, dove ci ritrovavamo sempre per parlare, raccontare, guardare delle foto o anche, spesso, per stare in silenzio. Quella volta mi aveva parlato di una pièce straordinaria che aveva avuto il piacere di interpretare intorno al 2000. Mai, mi raccontava, le era capitato di dire o di interpretare delle cose scritte e pensate in quel modo, espresse in una lingua così fortemente particolare. Era convinta che dovessi leggere assolutamente quel testo, conservato nel suo ufficio, con tutte le annotazioni da lei scritte dieci anni prima: annotazioni sull’interpretazione, sulle posizioni in scena e altri dettagli scritti al margine dei fogli.
Così mi sono portato a casa quel fascicolo imponente, stampato su fogli A2. La lettura si annunciava faticosa. E purtroppo non ne sono rimasto affascinato, come Anne immaginava. Ad essere sincero, avevo provato al contrario una sorta di disinteresse, e forse anche di antipatia per il modo in cui era scritto. Nei confronti della storia e dei personaggi avvertivo un blocco intellettuale che mi impediva di apprezzare la pièce tanto elogiata dalla mia amica. Ero sicuramente troppo preso dall’impazienza di lavorare ad un nuovo progetto o di immaginare il mio prossimo taglio di capelli per comprenderne la profondità dopo quella prima lettura superficiale. Così ho messo Juste la fin du monde da parte, e con Anne non ne abbiamo più parlato.
Quattro anni dopo, finito Mommy, mi è tornato in mente quel testo con la copertina blu, allineato nella libreria del salone, sullo scaffale più alto. Il formato era così grande che superava di molto gli altri libri e documenti tra i quali era infilato, alzava la testa, come se sapesse di non poter essere dimenticato a lungo.
Quell’estate ho riletto o, per meglio dire, ho letto davvero Juste la fin du monde. Più o meno a pagina 6 ho capito che sarebbe stato il mio prossimo film. Il mio primo in età adulta.
Finalmente ne capivo il testo, le emozioni, i silenzi, le esitazioni, l’irrequietezza, le inquietanti imperfezioni dei personaggi descritti da Jean-Luc Lagarce. A discolpa della pièce, non credo che all’epoca mi fossi impegnato a leggerla seriamente. A mia discolpa, credo che se anche ci avessi provato, non sarei riuscito a capirla.
Il tempo sistema le cose. Anne, come sempre o quasi, aveva ragione ha dichiarato Xavier Dolan parlando dei retroscena del film.
Quando ho cominciato a dire che “E’ solo la fine del mondo” sarebbe stato il mio prossimo film, il progetto è stato accolto da una specie di benevolo scetticismo misto a preoccupazione. I dubbi erano espressi soprattutto dai miei amici.
Anne, in particolare, Serge Denoncourt, o Pierre Bernard, che erano stati entrambi nella pièce messa in scena a Montréal nel 2001. Anne mi aveva spinto a leggere quel testo che secondo lei era scritto su misura per me, ma si chiedeva se un adattamento sarebbe stato possibile…
“Come farai a rispettare la lingua usata da Lagarce?” mi chiedeva. “E’ proprio la lingua a rendere questo testo qualcosa di notevole e di unico. E non è affatto cinematografica… E se rinunci al modo che ha Lagarce di usare il linguaggio, che interesse c’è a farne un adattamento?”. Ma io non volevo rinunciarci. Al contrario, la sfida per me consisteva nel rispettare quanto possibile il testo.
I temi affrontati da Lagarce, le emozioni dei personaggi, urlate o soffocate, le loro imperfezioni, la loro solitudine, i loro tormenti, i loro complessi di inferiorità in Lagarce tutto mi era familiare, e lo è senz’altro per la maggior parte di noi. Ma la lingua, quella non la conoscevo. Era una cosa nuova. Intessuta di goffaggini, di ripetizioni, di esitazioni, d
i errori di grammatica… Laddove un autore contemporaneo avrebbe depennato automaticamente tutti gli elementi superflui e ridondanti, Lagarce li manteneva, li celebrava. I personaggi, nervosi e intimoriti, nuotavano in un mare di
parole talmente agitato che ogni sguardo, ogni sospiro tra le righe diventava o sarebbe potuto diventare l’equivalente di un momento di bonaccia in cui gli attori avrebbero fermato il tempo. Volevo che le parole di Lagarce fossero dette così come erano state scritte. Senza compromessi. E’ in quella lingua che risiede la sua ricchezza, ed è attraverso quella lingua che la sua opera si è affermata nel tempo. Edulcorarla avrebbe significato banalizzare l’autore . Non mi importa che si
“senta” il teatro in un film. Che il teatro nutra il cinema… non è forse vero che teatro e cinema hanno bisogno uno dell’altro?
Ma come ritrovare Gabriel Yared? Dietro ogni grande compositore c’è evidentemente una bottiglia di profumo che aspetta di essere rubata. Ora spiego perché… All’epoca in cui aveva composto le musiche per Tom à la ferme, Gabriel Yared lavorava da Parigi, mentre dall’altra parte dell’oceano io recitavo in un film e mi apprestavo a scrivere la sceneggiatura di Mommy.
Quell’esperienza è stata fondamentale ma anche completamente virtuale; per quella collaborazione non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo di persona. L’avventura di “E’ solo la fine del mondo”,lo sapevamo, avrebbe dovuto essere più… fisica.
Qualche settimana prima delle riprese, ho spedito a Gabriel un brano strumentale di riferimento, solo per dargli un’idea di quello che avrei voluto. Come risposta mi ha mandato un valzer sconvolgente che mi ha colpito dritto al cuore. Non appena l’ho sentito, ho capito che sarebbe stato perfetto per la scena drammatica del finale del film ; tutta l’incomprensione, l’impotenza di persone che non sono in grado di vedere, che non si rendono conto di quello che sta per accadere, e sprofondano sentendosi mancare la terra sotto i piedi… Mi sembrava già di sentire il balbettio confuso della madre:
“Ma abbiamo comunque il tempo di salutarci?”.
Lo scorso dicembre ho invitato Gabriel a raggiungermi a Los Angeles, dove stavo finendo il montaggio del film. Avevo bisogno di cambiare aria. Avevo undici giorni per consegnare il film, del quale mancavano ancora alcune sequenze importanti, in particolare il finale. Gabriel è rimasto lì solo sei giorni. La produzione aveva trovato una casa molto bella e avevamo messo le apparecchiature per il montaggio in cucina, mentre Gabriel e David, il suo assistente, erano in fondo alla casa, nella camera dei bambini, con la loro tastiera, i loro computer e tutto il resto. Io facevo la spola tra le due stanze, scoprendo mano a mano quello che Gabriel aveva appena composto e consegnandogli la dose quotidiana di scene da musicare. E’ stato uno dei momenti più bizzarri nella storia della realizzazione di questo film.
Abbiamo passato ore a parlare, a urlare, ad emozionarci, ad eccitarci e anche, ovviamente, a sentirci bloccati perché non riuscivamo ad andare avanti. Mangiavamo la stessa pasta alla bolognese di un piccolo ristorante vicino alla Paramount,
facevamo delle lunghe passeggiate a Larchmont, giocavamo a Scarabeo nel salone. Senza saperlo, avevamo affittato la casa di Robert Schwartzman, che è il cantante dei Rooney (I’m Shakin’) ma, soprattutto, per me è l’attore che ha interpretato Michael in Pretty Princess.
Robert era, a nostra insaputa, chiuso nel capanno del giardiniere, nel cortile della casa che ci aveva affittato. Aveva trasformato quel grande capanno in un lussuoso studio di registrazione, mentre noi avevamo trasformato la sua casa in uno studio di post produzione improvvisato. Sei giorni dopo Gabriel è ripartito portandosi dietro 45 minuti di musica.
Ma la storia dimostra che non è stato quello il momento culminante della nostra permanenza in quel posto.
Robert ed io non avevamo potuto fare a meno di notare il profumo inebriante di Gabriel, e di chiedergli cosa fosse. Égoïste di Chanel, naturalmente. Impaziente di entrare in possesso di quel profumo, Robert ne ha ordinato una confezione da 100ml che è arrivata immediatamente via posta, in una scatola bianca con un impeccabile nastro di seta rossa. Ha scippato così a Gabriel il suo odore. E io, una sera, ubriaco insieme al mio amico, l’ho a mia volta rubato a Robert. Chiaramente Gabriel non sa niente di questa storia” ha concluso Xavier Dolan
Regista, attore e sceneggiatore, Xavier Dolan è considerato oggi il prodigio del cinema canadese.
Nato nel 1989 a Montréal, Dolan è entrato giovanissimo nel mondo dello spettacolo, recitando a soli quattro anni in numerosi spot pubblicitari e a cinque in Miséricorde , film per la televisione diretto da Jean Beaudin.
Il debutto alla regia arriva nel 2009: a soli vent’anni Dolan scrive, dirige, produce e recita in “J’ai tué ma mère” storia di un giovane omosessuale e del difficile rapporto con sua madre. Il film viene scelto per rappresentare il Canada nella categoria Miglior Film Straniero agli Oscar 2010.
Soltanto un anno dopo è di nuovo al Festival di Cannes, stavolta nella sezione Un Certain Regard, con Les Amours Imaginaires,
in cui oltre a firmare la regia, Dolan è coinvolto anche in veste di attore, produttore, costumista e direttore artistico.

“E’solo la fine del mondo” ci fa vivere l’approssimarsi di rimorsi e rimpianti di un giovane scrittore, che ritrova la famiglia dopo anni di lontananza. Si allontana perché sente una distanza incolmabile e quindi decide di rendere quella distanza tangibile, concreta, sancendo la sua lontananza anche da un punto di vista fisico. Poi però decide di ritornare, fosse solo per una semplice cena ma soprattutto per comunicare che lui ha ormai poco tempo.
Già il tempo: come lo usiamo? Troppo spesso in modo lascivo, egoista, andando a cercare false gioie oppure scappando dalla realtà invece che affrontarla.
Una storia triste ma fantastica, un dialogo tra madre e figlio che si vorrebbe riascoltare tante, tantissime volte, una famiglia che si ama ma dove i problemi, gli egoismi, il non accettarsi, il pensare a se stessi prevale.
Tutti sanno che “Louis” è da loro per un motivo ma non desiderano sentirselo dire perchè fa paura e porta dolore.
Già quel momento che temiamo tutti ma che tutti dovremo affrontare con la speranza per alcuni e la certezza per altri che il buon Dio ed i nostri cari siano lassù pronti ad abbracciarci.

Raffaele Dicembrino




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