L’Ungheria in aiuto dei cristiani. Ma non era cattiva per l’Europa?

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Ungheria – In Europa sono in pochissimi a saperlo, ma dal 2017 esiste un programma di assistenza umanitaria a cui le comunità cristiane di Africa, Asia e Medioriente devono molto. Si chiama “Hungary Helps” ed è stato istituito dal Governo ungherese appositamente per fornire aiuti alle Chiese e alle comunità cristiane perseguitate. Il sostegno ai cristiani che soffrono nel mondo è una priorità per il Governo di Orban come ha spiegato in un’intervista il responsabile del programma Tristan Azbej, Segretario di Stato per l’Aiuto ai Cristiani Perseguitati: “Negli ultimi cinque anni, il numero di beneficiari diretti si avvicina a mezzo milione di persone. Ci siamo focalizzati sui cristiani, ma non in via esclusiva. Infatti, abbiamo aiutato anche persone di altre fedi o che non hanno fedi e lo abbiamo fatto proprio in nome dei valori di solidarietà che provengono dalla cristianità”.

Perché questo focus sui cristiani?
Perché i cristiani sono il gruppo più perseguitato al mondo. Lo dicono i numeri, ad esempio quelli forniti da un’agenzia indipendente come Open Doors secondo cui i cristiani discriminati sono quasi 300 milioni. Siamo di fronte ad una delle più grandi crisi umanitarie del nostro tempo ma non se ne parla molto. Soprattutto, non ne parlano molto le organizzazioni internazionali nate per tutelare i diritti umani. Ne parlano solo le Chiese, le strutture caritative ed il Governo ungherese.

Perché, secondo lei, se ne parla così poco?
Ci sono ragioni politiche ed ideologiche a determinare ciò: le statistiche dicono che i cristiani sono il gruppo religioso maggioritario in molti Paesi. Quindi non è politicamente corretto denunciare questa situazione. Ci sono, poi, politici che attribuiscono alla cristianità la responsabilità di persecuzioni e vedono i cristiani come degli oppressori anziché degli oppressi. Ma sono i fatti a smentirli e a dire che milioni di cristiani sono discriminati nel mondo solo in virtù della loro fede. Noi dobbiamo provare a rompere questo muro di silenzio e d’indifferenza sulla persecuzione che subiscono.

Secondo lei, può influire anche il giudizio internazionale sulla linea del Governo ungherese in materia di immigrazione?
Noi in Ungheria pensiamo che l’immigrazione di massa non sia la soluzione ad alcuna crisi umanitaria. Ci opponiamo duramente all’immigrazione illegale. Non abbiamo mai detto che tutti i migranti sono terroristi, ma abbiamo visto che c’è un legame tra terrorismo e migrazioni. Inoltre, siamo convinti che l’immigrazione di massa provochi tensioni sociali. Una volta un leader della Chiesa siriana mi ha detto che non bisogna supportare l’immigrazione perché rischia di avvantaggiarsene l’Isis. L’Isis, infatti, vuole distruggere la cristianità e le comunità cristiane in Siria ed in Iraq. Dunque, ha tutto l’interesse affinché i giovani del posto vadano via dalla loro terra. Per questo motivo, noi diciamo stop all’immigrazione illegale e al tempo stesso offriamo una risposta all’insegna della solidarietà per aiutare le comunità dei Paesi da cui partono i flussi.

Li aiutate a casa loro?
È un principio fondamentale del programma Hungary Helps che l’aiuto dovrebbe essere fornito nel luogo in cui è necessario, invece di importare problemi qui. Quello ungherese è un modello di successo perché frena i flussi migratori ai confini ungheresi ed europei e, al tempo stesso, consente a milioni di persone di rimanere nella loro terra in sicurezza e a molti altri di tornare da dove erano partiti. Sono molti i casi di famiglie tornate in patria grazie ai frutti dell’assistenza umanitaria offerta dal nostro programma. Tuttavia, nonostante il nostro sia un modello di successo rispetto all’idea pericolosa di promuovere in maniera indiscriminata l’immigrazione, questo ci è costato numerosi attacchi. Ma per noi è più importante il parere dei leader delle Chiese africane che le critiche della comunità internazionale.

Polonia e Croazia hanno recentemente lanciato programmi simili al vostro per aiutare i cristiani perseguitati in Medio Oriente. Ma questo non avviene nei Paesi dell’Europa occidentale…
Voglio fare una precisazione: non siamo stati i primi in assoluto ad iniziare un programma del genere perché le Chiese lo portavano avanti già da anni. Siamo stati, invece, precursori a livello di Governi ed ora siamo felici di vedere che l’esempio viene seguito da Polonia, Croazia, ma anche Estonia e Brasile, spesso in cooperazione con noi. Anche gli Stati Uniti, al tempo dell’amministrazione Trump, avevano avviato un programma simile in Iraq. Ma purtroppo è vero che, in linea generale, i governi occidentali non condividono l’approccio da noi adottato.

Che motivazioni si è dato?
In alcuni casi, si preferisce promuovere le migrazioni; in altri, invece, è da attribuire ad un erroneo concetto di neutralità. O, per meglio dire, al politicamente corretto. C’è chi non vuole supportare le comunità cristiane perché pensa che, così facendo, apparirà imparziale. Ma attraverso il sostegno ai cristiani in Medioriente o in Africa, si sostengono anche quelle comunità che vivono accanto ai cristiani. Mi consenta di fare un esempio pratico. Noi stiamo aiutiamo tre ospedali cattolici in Siria. Altri governi, invece, hanno preferito non farlo perché non era politicamente corretto. In questi tre ospedali, però, la maggior parte dei pazienti sono islamici perché i dottori e gli infermieri cattolici hanno scelto di curare tutti, a prescindere dalla fede d’appartenenza. Questo progetto da noi finanziato ha aiutato non solo i siriani cristiani ma, in generale, ha promosso la coesistenza pacifica tra cristiani e islamici. Dove c’è questo clima, non c’è estremismo. Gli islamici guariti in questi ospedali diventano testimoni del fatto che, a differenza di quanto dicono gli estremisti, i cattolici non sono dei loro competitors. Progetti come questo, che prevedono il coinvolgimento anche di Chiese locali, non limitano l’internazionalità di un intervento umanitario ma la allargano. Mi auguro che un domani sempre più governi che si oppongono al nostro tipo di approccio possano unire le loro forze alle nostre per preservare la coesistenza pacifica di comunità nel Medioriente e in Africa.

A proposito di lotta al fondamentalismo: ci può parlare dei vostri sforzi per la riabilitazione delle donne yazide liberate dall’ISIS?
L’Isis ha commesso molti crimini, uno dei peggiori ai danni di queste donne che sono state rapite, ridotte per anni in cattività, costrette a subire abusi sessuali. Anche dopo la liberazione, molte di loro continuano a soffrire per anni di sindromi post-traumatiche. Hungary Helps ha sostenuto la creazione di una panetteria vicino al campo profughi della città di Khanke, nella regione del Kurdistan. Ho visitato personalmente questo posto e devo dire che è meraviglioso vedere come queste donne, sopravvissute alle violenze dei terroristi, trovino nel forno la possibilità di formarsi professionalmente e cominciare poi un lavoro. Grazie a questo progetto non imparano soltanto un mestiere ma ritrovano quella dignità che pensavano di aver perso a causa dei soprusi vissuti.




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