Dio salvi Paolo Crepet!

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Il noto psichiatra e sociologo, ospite del programma “Sunday Tabloid” del 16 ottobre, risponde a tono parlando di sexing, dopo una raccapricciante introduzione della conduttrice Annalisa Bruschi, che descrive il fenomeno come se fosse la cosa più normale del mondo (“La rete ha cambiato i rapporti con le persone e ha cambiato anche il modo di fare sesso. Il sesso ormai è alla portata di un touch; se ne parla e si fa anche presto, dice con un mezzo sorriso).

Anche il Presidente della Cooperativa Pepita Onlus, Ivan Zotti non è da meno e consiglia: “State attenti a quello che condividete e condividete con responsabilità”. Ora, se l’argomento è il sexting, cioè la diffusione a terzi di immagini o video di sé, senza abiti addosso o in pose sessualmente provocanti, andrebbe capito come si debba intendere la “condivisione responsabile” e come sia possibile. Ma non stavamo parlando peraltro di minorenni? Arriva Crepet, che senza mezzi termini, sotto lo sguardo perplesso della conduttrice, tuona che “la rete non perdona l’ingenuità; tra la rete, il digitale, l’ingenuità c’è un’incompatibilità totale; il consiglio è non farlo mai”.

Secondo le statistiche – probabilmente per difetto, considerata la tendenza a nascondere il fenomeno – 4 ragazzi su 10, tra i 12 e i 17 anni, hanno fatto almeno una volta sexing, cioè si sono filmati o fotografati senza vestiti per poi concedere queste immagini a terzi. Dal sexing al revenge porn (la divulgazione a scopo di vendetta) il passo è breve. In pratica è stata “legalizzata” la pornografia fai-da-te.

Chiunque abbia voglia di lambire, per conoscere, il mondo della pornografia, si scontra con una realtà che, poi, è sotto gli occhi di tutti: nei grandi mezzi di comunicazione e nel sentire comune, il sesso è oggi del tutto dissociato dall’affettività, dalla persona, dalla dimensione etica. È bene di consumo. È come un panino al Mac Donald’s o una serata in discoteca: soddisfa un bisogno immediato, senza spazio alle domande. I dati descrivono una società in cui la pornografia è alla portata di tutti, sia in termini di costi sia di facilità d’accesso e i consumatori crescono negli anni in modo esponenziale.

Da una veloce ricerca emerge che a “You Porn” accedono ogni mese 2,2 miliardi di utenti (giusto per intenderci, Google ne fa 65 milioni) e un terzo dell’intero traffico internet riguarda siti pornografici. Ogni giorno aprono 266 nuovi siti porno e si calcola che ogni secondo si spendono 89 dollari in relativo materiale. Il volume d’affari del settore è stato di 145 miliardi di dollari nel 2010, cioè quasi il triplo della Goldman Sachs.

È stimato che in media la permanenza sui siti hot sia di 15 minuti contro i 4,8 dei siti d’informazione. Circa un minore su 3 ha visto pornografia intenzionalmente e 7 su 10 si sono imbattuti nella pornografia senza averla cercata . Tra gli adulti, 9 giovani maschi su 10 e una giovane donna su 3 riferiscono di usare pornografia regolarmente. Tra i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 19 anni, il 13% condivide sul web le proprie foto hot, anche se attraverso messaggi privati e, tra gli under 14, circa uno su 10 ha fatto girare sul web le sue immagini intime.

Perché la pornografia e l’esposizione di sé in atteggiamenti intimi dilaga? I ben informati rispondono più o meno così: l’orgasmo provoca piacere e il rilascio di endorfine nell’organismo e, quando questo meccanismo viene offerto gratuitamente dai siti porno, viene consumato assiduamente. L’uso ripetuto porta poi ad una vera e propria dipendenza, paragonabile a quella da droghe, alcol e gioco d’azzardo.

Grazie a questo semplice meccanismo e alla fruizione on line del materiale, sono aumentati gli investitori nel settore, coloro che hanno intercettato il fenomeno facendolo diventare businness.

In questo quadro a dir poco desolante, negli ultimi anni hanno preso piede, tra i giovani ma non solo, alcune varianti sul tema: il revenge pornography o sextortion, cioè la diffusione online di immagini di nudo o di video hard di una persona di cui ci si vuole vendicare e il sexting, la diffusione di immagini e video meno “spinti” dei primi e senza scopo di lucro. Di solito il sexting anticipa e si trasforma in revenge porn.

È di pochi giorni fa la notizia che, a Belfast, una quattordicenne ha intentato un’azione legale contro Facebook, per avere visto una sua foto hard comparire sulla piattaforma in una cosiddetta “pagina della vergogna” (in inglese suona come “shame page”).

Il Guardian documenta il caso e cita anche la cronaca italiana e il suicidio di Tiziana Cantone: la giovane donna di appena trent’anni, come ricorderete, si è recentemente tolta la vita dopo la diffusione di sei video hard che la riprendevano mentre intratteneva rapporti sessuali con uomini diversi – secondo la madre sarebbe stata spinta a farlo dal fidanzato – da lei stessa inviati, dapprima a pochi amici “per gioco”, quindi diventati velocemente virali in rete e su vari siti porno.

Qui, però, bisogna distinguere: il vero e proprio revenge porn si configura quando la vittima, prima acconsente liberamente a filmarsi in atteggiamenti intimi con il proprio partner, con un accordo interno, per “gioco” o altro e, poi, terminata la relazione o a causa anche di un banale litigio, immagini e video vengono diffusi per vendetta, allo scopo di ledere la persona o anche solo di farle un dispetto, punirla per la fine della relazione. C’è quindi un atto iniziale di consenso e un atto finale di diffusione on line (su facebook, via whatsapp ecc…) non voluto dalla vittima, la cui immagine, reputazione, onore, vengono, a partire da quel momento, distrutte a causa della diffusione virale ed incontrollata del materiale.

Il caso di Tiziana Cantone è, invece, diverso nel suo sviluppo, essendo stata lei stessa ad acconsentire e ad autorizzare l’invio, ai presunti amici, dei video che la vedevano protagonista di rapporti sessuali con uomini diversi, alla presenza del fidanzato (termine decisamente inadatto a definirlo).

Entrambe le situazioni possono però essere accomunante partendo da una domanda: quando la persona ritratta nelle immagini hard o ripresa nel video non è più d’accordo sulla loro diffusione, si può configurare una specie di “diritto al pentimento” (per avere per esempio sottovalutato la portata del “gioco” nel caso in cui si era inizialmente dato il proprio consenso) e chiedere il rispetto del “diritto all’oblio”, ad essere cioè dimenticati (quello che riguarda i dati personali diffusi per i motivi, anche di cronaca, on line)?

Tecnicamente si. E la legge ci fornisce qualche strumento, anche se sarà evidente più o meno a tutti che la corsa tra la velocità del web e la lentezza della giustizia è persa in partenza, quantomeno nelle prime fasi.

Attraverso la diffusione di video, foto ed eventuali fotomontaggi porno, in un colpo solo viene violata la dignità, la riservatezza, la reputazione, l’onore di una persona.

In due parole: è la morte civile cui spesso segue il suicidio. Da una ricerca è emerso che metà delle vittime ci pensano concretamente.

Il diritto all’oblio è stato delineato dalla Corte di Giustizia nel 2014 nel famoso caso “Google Spain”: ogni persona può chiedere la de-indicizzazione dai motori di ricerca e da altri siti o archivi digitali di notizie, che non hanno più un interesse pubblico e di cronaca e la cui presenza danneggia un soggetto, dopo che è passato molto tempo. Ma questo non è sufficiente, perché, con questo sistema, se il dato si toglie da lì, è difficilissimo da reperire, a meno che non si conosca l’indirizzo preciso della pagine web dove esso sia contenuto. Impossibile.

I motori di ricerca hanno tutti messo a punto un modulo, reperibile online, con cui si può chiedere la rimozione di un contenuto dai risultati, ma l’accoglimento non è automatico.

Attenzione: siccome il diritto all’oblio è stato elaborato rispetto alla diffusione di dati e notizie più o meno sensibili, ma legate al diritto di cronaca, la scelta è se deve prevalere il diritto all’informazione o il diritto della persona di non vedere diffusi sine die le notizie dolorose o imbarazzanti della propria vita.

Fino a che punto, quindi, una tale notizia (o la sua continua riproposizione anche a distanza di tempo) è un danno per la persona che ci sta dietro?

Se il motore di ricerca risponde negativamente ci si può rivolgere al garante per la privacy e, ovviamnete, alla magistratura e alla polizia postale.

Secondo Ruben Razzante, docente di diritto dell’informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fare valere il diritto all’oblio è, però, una “chimera”, essendo quasi impossibile eliminare un documento dopo che lo stesso è stato condiviso da migliaia di followers e senza contare il fatto che potrebbe trovare posto su server irraggiungibili. Non tutto può essere eliminato e diritto all’oblio non significa diritto al colpo di spugna.

Esiste il diritto.

Esiste la difficoltà – e a volte l’impossibilità – di farlo valere in giudizio, anche di fronte ad una palese ed acclarata ingiustizia.

Esiste il dovere di non arrendersi e tutelare le persone.

Forse il nuovo fronte di una più ampia tutela legale per le vittime di revenge porn e simili oscenità potrebbe essere ragionevolmente quella avviata dalla quattordicenne di Belfast, che ha fatto causa direttamente a Facebook.

Nonostante l’azienda abbia spiegato di essersi attivata a più riprese per rimuovere il contenuto incriminato, secondo gli avvocati della parte lesa Facebook avrebbe potuto impiegare una soluzione per “tracciare” e individuare eventuali nuove condivisioni dell’immagine, per impedirne attivamente la diffusione. Paul Tweed, avvocato dello studio Johnsons, sostiene che “un caso come questo rischia di aprire la porta ad altre cause civili contro Facebook e altri social media”.

I singoli stati si attrezzano come possono: in Francia è reato trasmettere un’immagine intima di una persona ripresa all’interno di un luogo privato, senza il suo consenso; in Inghilterra e in Galles è vietata la divulgazione di fotografie intime e di video senza il consenso del soggetto raffigurato e con l’intento di causare un danno alla persona ripresa; negli Stati Uniti, la legge sul copyright stabilisce che la proprietà di un’immagine fotografica è della persona che ha scattato la foto, quindi, nei casi in cui si tratta di una foto condivisa, è anche di proprietà della vittima, che può chiederne la rimozione. Negli U.S.A., 26 Stati hanno delle leggi per rispondere in modo specifico al problema del revenge porn. Altrove, non esiste una legge istituita ad hoc per i reati online.

In Italia, si discute di cyberbullismo e sembra imminente un intervento legislativo, ma anche questo modo di operare, per il legislatore nostrano, puzza di ideologia, avendo già, proprio in questo giornale, denunciato il rischio di infilare i contenuti a sfondo omofobico anche laddove l’argomento è altro.

Ma il problema è legislativo o culturale?

E se il problema è legislativo, bastano le norme esistenti a tutela dell’onore, della reputazione, della privacy, dei dati personali, dell’immagine, con un eventuale ritocco, magari, sull’inasprimento delle pene?

Oppure è proprio necessaria una legge ad hoc, che con la scusa del cyberbullismo infila qualche tema caro al pensiero unico?

Il proliferare di leggi speciali fa perdere la visione d’insieme, per questo dovrebbero essere ridotte nel numero e nei contenuti. Invece la direzione in cui si va è esattamente opposta.

E se il problema fosse culturale, educativo, preventivo?

Da una ricerca effettuata, emerge che tra i minorenni, il 22% degli intervistati dichiara di avere inviato una sua foto in atteggiamenti intimi solo per fare colpo su una ragazza o un ragazzo, l’altro 23% solo per scherzo e l’8% afferma di aver praticato sexting (spesso anticamera del revenge porn) in cambio di un piccolo regalo, come può essere, per esempio, una ricarica telefonica.

Abbiamo detto all’inizio di questa nostra riflessione che la sessualità è ormai dissociata dall’affettività, il corpo è dissociato dal cuore, il piacere è dissociato dal sentimento per l’altro. L’etica e la morale non entrano in camera da letto. E neanche i limiti. A volte neanche il consenso.

Con queste premesse, il dilagare della pornografia non può certo stupire né, tantomeno, può meravigliare che le vittime del revenge porn siano prevalentemente le donne (esiste anche il contrario ovviamente, ma è molto circoscritto nei numeri).

La pornografia trasforma la donna in oggetto di piacere, descrive soggetti performanti, che vivono la sessualità come prestazione atletica e incita ad avere rapporti sessuali senza mostrare le conseguente devastanti sulla salute, rientrando essa tra le forme di compulsione.

Prevenzione. Bella parola!

Se la prevenzione che si propone a bambini e ragazzi sono gli Standard per l’educazione sessuale in Europa, l’abbattimento degli stereotipi di genere che conduce all’indifferentismo sessuale, le “istruzioni per l’uso” – hai un corpo, usalo, ma ricorda il preservativo che ti salva dalle malattie e da quella robaccia chiamata gravidanza indesiderata (bambino) – allora di cosa ci stupiamo?

Se l’unica cosa che sappiamo fornire sono gli strumenti (organi genitali, preservativo, pillola del giorno prima e del giorno dopo, aborto come mezzo di contraccezione) perché oggi ci meravigliamo del fatto che la pornografia sia stata completamente sdoganata? E che le pratiche affini – revenge porn – sia una pratica diffusa anche tra giovani e giovanissimi?

È veramente internet il pericolo o la mancanza di basi culturali, etiche, educative, religiose?

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