15 GIUGNO 1978: LE DIMISSIONI DI GIOVANNI LEONE

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Leone – Il 15 Giugno 1978 Giovanni Leone si dimette dalla carica di sesto presidente della Repubblica Italiana. Ma come si arrivò alle dimissioni e soprattutto perchè? Andiamo a riscrivere quello che è stato un momento critico della Repubblica italiana.
l 15 giugno del 1978, un giorno in cui a Roma pioveva, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firmò l’atto ufficiale delle dimissioni – le prime volontarie di un Presidente della Repubblica – e, dopo i saluti dovuti al protocollo, lasciò il Quirinale, rifiutando qualunque cerimonia. Erano in pochi, comunque, ad essere venuti per salutarlo. Le sue dimissioni arrivarono in seguito a una serie di insinuazioni, accuse e attacchi della stampa e del Partito Radicale, che erano andati avanti per mesi. Negli anni successivi la gran parte di quelle accuse si rivelò infondata.
Giovanni Leone nacque a Napoli il 3 novembre del 1908 e morì a Roma il 9 novembre del 2001. Fu un avvocato penalista, professore di diritto penale e un giurista molto importante. Fu deputato all’Assemblea Costituente, poi per tre volte alla Camera, e fu eletto nove volte senatore. Scrisse un manuale di diritto penale molto diffuso e nel 1955 contribuì a riscrivere il vecchio codice di procedura penale, il cosiddetto codice Rocco, che era in vigore dagli anni ’30. Per potere continuare a insegnare, negli anni ’30, fu iscritto al partito fascista. Nel 1944 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, un partito nel quale rimase fino al suo scioglimento.
Eletto all’Assemblea Costituente nel 1946, fu presidente della Camera dei deputati dal 1955 al 1963. Presiedette due brevi governi nel 1963 (Governo Leone I) e nel 1968 (Governo Leone II). Nominato senatore a vita nel 1967 dal presidente Saragat, il 24 dicembre 1971 fu eletto presidente della Repubblica.
Alle elezioni del 1971, il candidato ufficiale della DC era, stavolta, il presidente del Senato Fanfani. Tale candidatura resse solo sei votazioni, nelle quali l’uomo politico toscano rimase sempre al di sotto, nei suffragi, a quelli del socialista De Martino. All’11º scrutinio, la DC ripropose nuovamente Fanfani, per poi prendere atto della debolezza della sua candidatura, per l’azione dei cosiddetti “franchi tiratori” del partito stesso, e ritirarla definitivamente. La situazione di stallo andò avanti sino al 22º scrutinio, quando fu trovato un accordo tra Democrazia Cristiana, PSDI, PLI e PRI per portare Leone al Quirinale. Tale accordo preludeva la formazione di una maggioranza alternativa a quella di centro-sinistra che sorreggeva il governo in carica di Emilio Colombo. Fu quindi una candidatura in chiave conservatrice, anche perché, nell’assemblea dei grandi elettori DC, prevalse di stretta misura su quella di Aldo Moro, che avrebbe rappresentato la continuità con la politica governativa dell’ultimo decennio.[21] Anche Leone, tuttavia, non rimase immune dall’azione dei “franchi tiratori” e, infatti, mancò l’elezione al primo tentativo per un solo voto (503, contro i 504 del quorum richiesto). Leone fu comunque eletto Capo dello Stato il 24 dicembre 1971 al ventitreesimo scrutinio, con 518 voti su 1008 “grandi elettori”. Per il raggiungimento del quorum, furono determinanti i voti del Movimento Sociale Italiano.
Secondo autorevoli costituzionalisti, la presidenza Leone fu caratterizzata da una linea improntata all’indipendenza piena dai partiti e al rispetto scrupoloso delle istituzioni. Leone fu sempre rispettoso del dettato costituzionale e, nell’avvalersi delle sue prerogative, effettuò delle scelte del tutto aliene da impostazioni ideologiche (ad esempio, nella nomina dei giudici costituzionali optò per giuristi insigni di area politica del tutto antitetica a quella della DC come il romanista Edoardo Volterra e il costituzionalista Antonio La Pergola), talvolta in contrasto con la maggioranza parlamentare (come quando rinviò alle Camere la legge sul nuovo sistema elettorale del CSM, che il Parlamento riapprovò tal quale costringendolo alla promulgazione).
L’elezione di Leone, oltre ad essere la più lunga della storia repubblicana, segnò la fine della prima fase dell’esperienza di centro-sinistra, configurando una maggioranza di centro con l’appoggio esterno di una parte della destra. Per tale motivo, all’inizio del nuovo anno, i ministri del PRI rassegnarono le dimissioni, seguite da quelle del presidente del Consiglio (15 gennaio 1972). Dopo il fallimento del tentativo di composizione di un nuovo governo, anche monocolore, da parte dello stesso Colombo, il presidente Leone conferì l’incarico a Giulio Andreotti. Il primo governo Andreotti, formato da soli democristiani, tuttavia, non riuscì a ottenere la fiducia alla Camera dei deputati e si dimise il 28 febbraio successivo. Di fronte alla gravità della crisi politica, Leone esercitò il potere di scioglimento anticipato del Parlamento per la prima volta dall’avvento della Repubblica.
Contemporaneamente, promulgò il decreto di rinvio del referendum sul divorzio, previsto per la primavera dello stesso anno[25]. Le elezioni politiche italiane del 1972 confermarono la consistenza dei partiti principali in Parlamento, salvo un incremento del PRI e del MSI e l’uscita di scena del PSIUP. Di conseguenza, Leone reiterò l’incarico a Giulio Andreotti che riuscì a comporre un nuovo governo appoggiato, per la prima volta dal 1957, da una maggioranza di centro, la stessa che, sei mesi prima, aveva portato all’elezione di Leone. Tale esperienza durò soltanto un anno, sino alle dimissioni rassegnate dal presidente del Consiglio nel giugno del 1973 a causa, ufficialmente, del ritiro dell’appoggio esterno da parte del Partito Repubblicano. In realtà, a seguito dei cosiddetti “accordi di Palazzo Giustiniani” tra i due “cavalli di razza” della DC, Amintore Fanfani e Aldo Moro, il XII Congresso nazionale del partito di maggioranza relativa aveva approvato un documento in cui si proponeva il ritorno alla formula di centro-sinistra.
La seconda fase dell’esperienza di centro-sinistra in Italia durò circa tre anni (1973-1976), durante i quali il presidente Leone conferì l’incarico per la formazione di ben quattro compagini governative (quarto e quinto governo Rumor; quarto e quinto governo Moro); nelle ultime due, tuttavia, i due partiti socialisti accordarono soltanto l’appoggio esterno.
Il 15 ottobre 1975 Leone inviò un articolato messaggio alle Camere, nel quale si metteva in risalto la crisi delle istituzioni italiane in termini volutamente giuridici e non politici, sostenendo peraltro che la soluzione poteva essere trovata nella Costituzione della Repubblica e nell’attuazione delle sue parti tuttora inapplicate; auspicava, inoltre, che fosse previsto, con legge costituzionale, il divieto di rielezione del Presidente della Repubblica, la riduzione da sette a cinque anni del mandato presidenziale e l’abolizione del semestre bianco. Il messaggio, tuttavia, fu accolto con freddezza e fu soltanto letto, senza procedere a un dibattito in aula sui suoi contenuti. Solo da ex presidente, dieci anni dopo, Leone scelse di dolersene pubblicamente, definendola una vera e propria “cestinazione”.
L’elezione di Leone era stato il frutto di precari equilibri politici anche interni al suo stesso partito e, comunque, espressione di una maggioranza di centro appoggiata dalla destra che, a metà degli anni settanta, era stata accantonata e considerata ormai improponibile. Per cui si scatenò presto contro di lui una diffusa ostilità da parte della sinistra e anche la stessa DC fu assai flebile nel difenderlo dinanzi alle critiche virulente che gli vennero rivolte.
In una prima fase, gli furono rimproverate cadute di stile e fu tacciato d’inadeguatezza al ruolo presidenziale. In seguito, si passò al tentativo di coinvolgere Leone nel discredito e nel malgoverno della cosa pubblica: sul periodico OP di Mino Pecorelli, giornalista d’assalto poi risultato tra i nominativi compresi nella lista degli appartenenti alla loggia massonica P2, gli si addebitarono amicizie discutibili negli ambienti della finanza d’assalto e comparvero alcune illazioni sulla vita privata della moglie Vittoria, sulla base di un falso dossier del generale De Lorenzo.
Nella primavera del 1976, il presidente della Repubblica Giovanni Leone fu accusato di essere lui stesso il personaggio chiave attorno al quale ruotava lo scandalo Lockheed (illeciti nell’acquisto da parte dello Stato italiano di velivoli dagli USA), con il nome in codice Antelope Cobbler, insieme all’ex presidente del Consiglio Mariano Rumor.
In un primo momento, Leone pensò di presentare spontaneamente le dimissioni, anche in coerenza con quanto rappresentato dal suo messaggio alle Camere (erano, infatti, già trascorsi cinque anni dalla sua elezione). In seguito, non essendo state provate le accuse, preferì soprassedere ma non poté impedire le dimissioni del governo monocolore guidato da Aldo Moro. Valutata, allora, l’inesistenza di una maggioranza parlamentare, il Presidente sciolse le Camere, per la seconda volta anticipatamente.
Le elezioni politiche del 20 giugno 1976 decretarono una forte avanzata del PCI, un arretramento del PSI ma anche un recupero della DC che continuò ad essere il primo partito. I partiti dell’arco costituzionale, quindi, furono costretti ad avviare incontri di confronto programmatico che condussero (luglio 1976) alla formazione del terzo governo Andreotti, un monocolore democristiano che ottenne la fiducia del Parlamento con l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI. Per la prima volta, dal 1947, il PCI non votò contro un governo della Repubblica.
Il 14 gennaio 1978, a seguito degli esiti di una riunione con i capigruppo parlamentari dei sei partiti della maggioranza, il terzo governo Andreotti si dimise. Dopo una lunga trattativa programmatica, condotta personalmente dal presidente del Consiglio Nazionale della DC, Aldo Moro, l’11 marzo successivo si costituì un nuovo monocolore democristiano (quarto governo Andreotti), con l’appoggio esterno (e non l’astensione) di PSI, PSDI, PRI e del PCI che entrò quindi pienamente nella maggioranza. Cinque giorni dopo, in coincidenza con le dichiarazioni alle Camere del nuovo governo, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, uccidendone gli uomini della scorta.
Nei giorni che seguirono (16 marzo – 9 maggio 1978), Leone espresse la disponibilità a compiere il gesto umanitario di concedere la grazia alla brigatista Paola Besuschio, se ciò avesse potuto impedire l’assassinio dello statista democristiano.


Nonostante le obiezioni provenienti dalla maggioranza, sembra che il Presidente fosse intenzionato a procedere comunque, ma non avesse fatto in tempo a sormontare il parere negativo del Governo: egli stesso, dopo molti anni, dichiarò che “a delitto consumato mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero affrettato quella mattina l’assassinio”.
Immediatamente dopo il rapimento e l’assassinio del presidente della DC, le polemiche contro il Capo dello Stato ripresero in maniera più virulenta. Leone e i suoi familiari si trovarono al centro di attacchi violentissimi e insistenti, mossi soprattutto dal Partito Radicale di Marco Pannella e dal settimanale L’Espresso.
Essi erano stati riversati nel libro Giovanni Leone: la carriera di un Presidente, che la giornalista Camilla Cederna, nei primi mesi del 1978, pubblicò. Ancora una volta, a questo pamphlet su presunte irregolarità commesse dal presidente e dai suoi familiari, la Democrazia Cristiana non seppe reagire né consentì di reagire allo stesso Presidente della Repubblica: il guardasigilli del quarto governo Andreotti, Francesco Paolo Bonifacio, più volte sollecitato dal Quirinale, rifiutò di accordare la necessaria autorizzazione a procedere penalmente contro l’autrice per oltraggio al Capo dello Stato. L’ultimo atto fu la richiesta di dimissioni presentata dalla Direzione dell’allora PCI.
Giovanni Leone “cercò di difendersi dalle accuse che montavano contro di lui e la mattina del 15 giugno 1978, il giorno delle dimissioni, predispose un’intervista da diramare tramite l’ANSA. Il segretario della DC Zaccagnini e il presidente del Consiglio Andreotti sarebbero stati messi a conoscenza del testo dell’intervista prima di renderlo pubblico. (…) Una copia del testo venne recapitata anche alla sede del PCI a Berlinguer. La reazione pressoché unanime emersa dalla lettura dell’intervista fu di desolazione. Sia i comunisti che i democristiani decisero che l’intervista non poteva essere pubblicata. Leone fu costretto a ritirarla e venne invitato dal PCI a rassegnare le dimissioni”. In effetti, Giovanni Leone si dimise da presidente della Repubblica lo stesso giorno, con effetto immediato; l’annuncio venne dato in diretta tv da Leone alle ore 20.10 del 15 giugno 1978.
Le dimissioni avvennero 14 giorni prima dell’inizio del cosiddetto “semestre bianco”, ossia il periodo durante il quale il presidente della Repubblica non può sciogliere anticipatamente le Camere e con sei mesi e quindici giorni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato.
Lo stesso Leone, nell’intervista mancata, ricordava di essere stato “sempre critico per il semestre bianco”: in effetti, il rischio di dover tenere in vita la legislatura a ogni costo, per la giuridica impossibilità di scioglimento anticipato, era temuto da “alcune correnti della Democrazia Cristiana” e dalla segreteria del Partito Socialista.
Ne seguì, prima la supplenza del presidente del Senato Amintore Fanfani, poi le nuove elezioni presidenziali che portarono al Quirinale Sandro Pertini.
Fino al giorno delle sue dimissioni, Leone preferì non rispondere pubblicamente di tutto quello che era successo. Furono soltanto i suoi figli a sporgere querela, per i fatti a loro ascritti. La Cederna perse in tutti e tre i gradi di giudizio: fu condannata per diffamazione e a lei e al suo giornale, L’Espresso, fu comminata una multa elevata, il libro della Cederna fu ritirato dal commercio e le copie rimaste distrutte. A seguito delle dimissioni Leone fece ritorno al Senato in quanto senatore di diritto e a vita, iscrivendosi al gruppo misto.
Salvo una controversia sui limiti del “potere di esternazione” del Capo dello Stato, si attenne a una concezione prevalentemente parlamentare del suo ruolo di senatore a vita. Prese parte con assiduità ai lavori della commissione Giustizia, battendosi soprattutto perché il nuovo codice di procedura penale non fosse redatto nella forma entrata in vigore nel 1989 e affinché la legge sulla violenza sessuale del 1996 non modificasse le vecchie fattispecie del codice penale del 1930 (il codice Rocco che da giovane docente Leone aveva visto nascere), fino a ipotizzare, con una lettera sul settimanale Famiglia Cristiana, il referendum abrogativo della nuova legge.
Nel 1994 votò la fiducia al Governo Berlusconi e fece lo stesso nel 1996 con il primo Governo di Romano Prodi. Al contrario, non sostenne il Governo D’Alema .
In occasione del suo novantesimo compleanno, il 3 novembre 1998, fu promosso dalla presidenza del Senato un convegno in suo onore a Palazzo Giustiniani al quale, oltre al presidente della Repubblica in carica Oscar Luigi Scalfaro e a numerose personalità, presero parte alcuni esponenti dell’ex PCI, fra i quali il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Prima della manifestazione, Marco Pannella ed Emma Bonino andarono a stringere la mano all’anziano ex presidente della Repubblica ed a scusarsi pubblicamente per gli attacchi di vent’anni prima. I due esponenti radicali hanno poi reso pubblica una lettera nella quale essi, oltre a rendere omaggio a Leone, affermano: «Le siamo grati per l’esempio da lei dato di fronte all’ostracismo, alla solitudine, all’abbandono da parte di un regime nei confronti del quale, con le sue dimissioni altrimenti immotivate, lei spinse la sua lealtà fino alle estreme conseguenze, accettando di essere il capro espiatorio di un assetto di potere e di prepoteri, che così riuscì a eludere le sue atroci responsabilità relative al caso Moro, alla vicenda Lockheed, al degrado totale e definitivo di quanto pur ancora esisteva di Stato di diritto nel nostro Paese.»
«Poté accaderci di eccedere. Non ne siamo convinti. Ma se, nell’una occasione o nell’altra, questo fosse accaduto, e non fosse stato pertinente attribuire al Capo di quello Stato corresponsabilità politico-istituzionali per azioni altrui, la pregheremmo, Signor Presidente, di accogliere l’espressione sincera del nostro rammarico e le nostre scuse.»
)Il 25 novembre 2006 il presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano affermò che, otto anni prima, dal Senato era stato espresso “il pieno riconoscimento della correttezza del suo operato”.
Poche settimane prima di spegnersi all’età di 93 anni, a seguito del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 25 settembre 2001, fu attribuito a Giovanni Leone il titolo onorifico di Presidente Emerito della Repubblica, dignità di ordine protocollare che da allora spetta ex lege a tutti gli ex capi dello Stato in vita.
Giovanni leone è morto a Roma il 9 novembre 2001 nella sua villa sulla Via Cassia, in località “Le Rughe” ed è stato sepolto nel Cimitero di Poggioreale, a Napoli
Una curiosità sulla vita privata di Giovanni Leone: nelle uscite ufficiali, il presidente Leone appariva sempre con al fianco la moglie Vittoria, più giovane e di bell’aspetto. Così la descrive la giornalista Angela Frenda: «Bella, sopracciglia sempre curate, abiti di alta sartoria, capelli neri raccolti in disciplinati chignon. Era nota per non affrontare un viaggio senza estetista e parrucchiere al seguito».
Il fascino di Vittoria Leone colpì anche il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, in visita a Roma nel periodo in cui il marito Giovanni era presidente del Consiglio. Trovandosela a fianco a cena, Kennedy le disse: “Ah, è lei Vittoria Leone? Adesso capisco il successo di suo marito”. La futura first lady italiana ribatté: “Thank you Mister President, ma lei forse non conosce le qualità di mio marito”.




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