Cinema – Film – La nuova commedia di Valeria Bruni Tedeschi ‘I Villeggianti’

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‘I villeggianti’ è il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi con Valeria Bruni Tedeschi, Pierre Arditi, Valeria Golino, Noémie Lvovsky, Yolande Moreau, Laurent Stocker, Riccardo Scamarcio, Bruno Raffaelli (II), Marisa Borini, Anthony Ursin.

La commedia drammatica, dal titolo originale ‘Les estivants’ è ambientata in Francia, in una grande e bella proprietà in Costa Azzurra. Un posto che sembra essere fuori dal tempo e protetto dal mondo. Anna arriva con sua figlia per qualche giorno di vacanza. In mezzo alla sua famiglia, ai loro amici e al personale di servizio, Anna deve gestire la sua recente separazione e la scrittura del suo prossimo film. Dietro le risate, la rabbia, i segreti, nascono rapporti di supremazia, paure e desideri. Ognuno si tappa le orecchie dai rumori del mondo e deve arrangiarsi con il mistero della propria esistenza.

La regista descrive il suo film come un filmino in super 8.  Da quando sono nata trascorro tutte le mie vacanze in una grande e bella proprietà in Costa Azzurra. E’ un luogo che sembra fuori dal tempo, protetto dal mondo esterno. Un giorno mio fratello mi ha mostrato un filmino in super 8 girato dagli ex proprietari sulla terrazza della casa. Si vedono delle persone, dei bambini che vanno in triciclo, che giocano con un cane, adulti che si fanno degli scherzi, si spruzzano con l’acqua, camminano in equilibrio sul bordo di una fontana. Le stagioni e gli anni passano, diverse date appaiono sullo schermo in basso a destra, il film copre diversi decenni. Le generazioni si succedono, i bambini crescono, alcune persone spariscono, appaiono dei bebè. Ma la vita sulla terrazza sembra sempre la stessa: bambini che corrono, adulti che li sgridano, mangiano, fanno gli scemi, ridono. Ad un certo punto si scorge in lontananza, nel mare, la cima di un sottomarino che avanza. Allora viene in mente il mondo, la storia che scorre lontano da questa casa. Guardando questo filmino mi sono resa conto che, come i vecchi proprietari, anche noi vivevamo in quella casa con l’illusione di sfuggire al mondo e al trascorrere del tempo. Le rocce, gli alberi, il mare, la casa, tutto è là, immutabile, mentre gli anni passano. E la storia resta sullo sfondo, anche se forse non troppo lontana, va avanti, violenta e folle. Mi piaceva raccontare la vita di un gruppo di persone in quella casa, la famiglia dei proprietari, gli amici e i domestici, la solitudine che prova ciascuno nonostante si trovi insieme ad altri, i rapporti di forza, le paure, la vergogna, la ribellione, i desideri, gli amori. Mi piaceva raccontare come ciascuna di quelle persone provi a tapparsi le orecchie per non sentire i rumori che arrivano dal mondo esterno, per ignorare il tempo che passa, la morte che si aggira nei paraggi, come ciascuno debba vedersela con il mistero della propria esistenza.

Ho la sensazione che alle origini di un film ci siano spesso due forze opposte che creano un conflitto. Questo conflitto è creativo e dà forza ad un progetto. Gli permette di emergere, di resistere e di crescere. All’inizio del mio progetto c’erano il filmino e un sogno. Avevo sognato che mio fratello, morto da qualche anno, mi chiedeva di leggergli la mia nuova sceneggiatura. La leggeva con grande attenzione poi, rivolgendosi a me, mi diceva guardandomi negli occhi: «Ti proibisco di girare questo film». Qualche mese dopo aver fatto questo sogno, ho iniziato le riprese di ‘Un castello in Italia’. Mio fratello mi aveva chiaramente vietato di farlo. Avere o no il diritto di scrivere della nostra vita, delle persone che ne fanno parte, il dolore che questo potrebbe causare loro – questo dubbio è per me fonte di passione e allo stesso tempo di dolore. Quando scrivo ho bisogno e ho voglia di lavorare a partire da una realtà vicina, che conosco. Ho bisogno di lasciarmi ispirare da quello che vedo, che vivo, dalla gente che vive accanto a me. Ma lavorare su un materiale autobiografico implica non poter essere gentili con se stessi e con i propri cari. Per comprenderli meglio, per amarli di più, devo sentirmi libera di maltrattarli. I personaggi ai quali osiamo guardare con crudeltà sono molto più umani, più teneri e suscitano maggiore empatia di quelli che cerchiamo di proteggere. Che conseguenze ha questo tipo di lavoro? Come reagiscono quelli attorno a me? Come reagisco io ai loro rimproveri o al loro stupore? Come faccio a continuare a lavorare nonostante tutto questo? Quanto mi limita? In un certo senso ho “regalato” al personaggio di Anna questi stessi dubbi e queste angosce. Anche lei deve girare un film. Anche lei riceve la visita del fantasma di suo fratello. Neanche lei, nonostante i sensi di colpa e la paura, riesce a rinunciarci. Perché per lei, come per me, il lavoro è un modo per non annegare. Anna cerca continuamente di sostituire il lavoro al panico, come se l’uno potesse annullare l’altro. La sua lotta, come la mia, è goffa, confusa, a tratti inutile e assurda, ma tenace e vitale. La storia del gruppo e quella di Anna procedono a lungo in parallelo, sfiorandosi appena. E’ stato necessario trovare dei legami tra questi due mondi. Trovare il modo di farli interagire. Di farli stridere. Di farli dipendere uno dall’altro. Di fare in modo che si modificassero e si minacciassero reciprocamente. Alla fine la tensione alla base del film è scaturita dalla battaglia personale di Anna per sopravvivere ad una pena d’amore e per continuare a lavorare.

Fin dall’inizio sono stata ispirata da due pièce teatrali: «La trilogia della villeggiatura» di Goldoni e «I villeggianti» di Gorkij. Ma, in generale, sono Čechov e la sua visione del mondo che mi aiutano a lavorare. I suoi drammi e i suoi racconti mi fanno ridere, mi commuovono, mi consolano, agiscono come una lente di ingrandimento che mi permette di osservare meglio la vita. Ho scoperto Čechov all’epoca della scuola di teatro alle Amandiers, diretta da Patrice Chéreau e da Pierre Romans. Avevo vent’anni. I personaggi delle sue pièce, dall’aria consunta e fallita, avevano spesso solo qualche anno più di me. Mi identificavo con loro e con la sensazione di non riuscire a vivere pienamente la vita mentre il tempo passa. Il fallimento dell’amore. L’inutilità della propria esistenza. I brandelli di speranza e di gioia. La paura della morte. E poi una battuta che fa ridere e distrae dalle angosce più profonde. Ho girato con Chéreau un film adattato da «Platonov», e poi abbiamo messo su la pièce in teatro. Ho recitato con Pierre Romans in un adattamento de «Il gabbiano». Čechov e Chéreau sono alla base del mio lavoro. Ci torno costantemente. Come un cuore che batte. Il corpo cambia, ma il cuore è lo stesso e continua a battere. Anche quando nella mia vita di attrice e di regista me ne sono apparentemente allontanata, un filo segreto mi legava a loro. Ogni volta che nella mia vita ho accettato una parte o ho girato un film, mi sono chiesta cosa ne avrebbe pensato Patrice. Quando è morto, questo legame, anziché spezzarsi, si è magicamente rafforzato. Il mio rapporto con lui, le domande da porgli, le divergenze, le nostre discussioni, non si sono più svolte in una sala prove o al tavolo di un ristorante, ma dentro di me, con lui. Lui c’è, e io vado avanti, avanzo sempre di più, parlandogli. Lo convoco grazie al mio lavoro. Un anno dopo la sua scomparsa ho girato un adattamento de «Le tre sorelle» per Arte, con attori della Comédie Française. Era chiaramente un film che facevo con lui. Pensando a lui, qualche volta perfino non essendo d’accordo con lui, insomma discutendone con lui.

Forte dell’esperienza fatta con «Le tre sorelle», per il quale avevamo provato per diverse settimane e girato in quattordici giorni, mi piaceva che anche per questo film il periodo di riprese fosse breve ma preceduto da un periodo molto lungo di prove. Volevo che la storia si sviluppasse quasi interamente in un unico posto per creare una specie di squadra. Mi piaceva l’idea di riunire gli attori e una parte della troupe per discutere delle scenografie, del testo, dei personaggi e dei rapporti tra loro. Accostarsi alla storia senza rigidità. Aggirarsi tra luoghi ed emozioni fino a quando non diventino familiari. Mi piaceva mettere insieme, come negli altri miei film, persone che non hanno mai recitato e attori di cinema e teatro. Trovo questo mélange positivo, ricco, fertile e molto vivo. Destabilizzante e arricchente al tempo stesso. Volevo girare con due macchine da presa, sia per non usare gli attori con campi e contro-campi, sia per cogliere momenti inattesi, a volte rubati, secondo la casualità delle scene e delle riprese perché desideravo che, nonostante la forma classica e teatrale della narrazione, questo film non risultasse statico, ma sempre teso e inatteso. Volevo lasciare che alcuni eventi accadessero e che gli attori potessero muoversi liberamente e modificare le scene scritte.

In genere cerco una specie di musica. Senza bisogno di forzature, vorrei arrivare fino in fondo alle situazioni. Perché è così che qualche volta emerge la comicità, quasi a salvarci. Non cerco mai la comicità, ma lascio che arrivi, come una conseguenza naturale. Charlie Chaplin racconta un suo ricordo d’infanzia. In un campo c’è una capra. E’ rimasta intrappolata nel filo spinato. Lotta per liberarsi. E’ triste vedere come si dibatte. E allo stesso tempo i suoi movimenti sono buffi. In lei c’è un misto di dramma e di commedia. Nella sua lotta per liberarsi dai fili che la stringono, nel suo cercare maldestramente di uscire da una situazione tragica, la capra diventa comica. Non aver paura di ciò che stride. Della vergogna. Di ciò che vi è di cupo e crudo nel comportamento e nei pensieri degli esseri umani. Della loro meschinità. Del loro essere ridicoli. E non temere neanche ciò che a volte li rende eroici. Poetici. Teneri e belli. «Nella vita non ci sono cose a effetto, né soggetti ben distinti: tutto è mescolato, la profondità e la meschinità, il tragico e il ridicolo», come sosteneva Čechov.

 




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