Movienerd – 20 anni fa la scomparsa di Vittorio Gassman

684

Movienerd – Si celebra in questi giorni il ricordo di uno dei grandi attori del cinema italiano, Vittorio Gassman.

Il “primo” Vittorio Gassman era un bravissimo attore in teatro, considerato però mediocre al cinema. Il suo sembrava essere un destino segnato ma a ribaltarlo fu un Maestro, Mario Monicelli. Fu lui a litigare coi produttori che non lo volevano e lo impose come il capo gang sbruffone e romantico in I soliti ignoti. Era il 1958 e accanto a Totò, Gassman si impose al grande pubblico e trovò fiducia nei distributori. Da qui un percorso in salita tra cinema, tv e sempre teatro. Vittorio Gassman non era di origine romana ma la Capitale è stata la sua culla di formazione. Era nato a Genova il 1 settembre del 1922 ed era il secondo figlio di un ingegnere tedesco e di una casalinga toscana. È stato sposato tre volte e da tutti e tre i matrimoni sono nati dei figli. La prima moglie fu Nora Ricci, la seconda Shelley Winters e la terza Diletta D’Andrea, che gli è stata accanto dal 1970 fino alla morte, nel 2000. A questi tre matrimoni si aggiungono diverse relazioni importanti, una delle quali con l’attrice Juliette Mayniel, che gli diede un figlio, l’attore Alessandro Gassman.

Recitare non è molto diverso da una malattia mentale: un attore non fa altro che ripartire la propria persona con altre. È una specie di schizofrenia”, diceva del suo mestiere Vittorio Gassman. Uomo innamorato follemente della vita ma al tempo stesso molto malinconico, che in più di una circostanza – come anche nella sua autobiografia – non ha nascosto i suoi cambiamenti d’umore che facilmente scivolavano nella depressione. Gassman si definiva “una persona goffa” e che proprio per questo amava travestirsi, trasformarsi in attore. Una trasformazione ineccepibile, incredibile, riconosciuta e stimata a livello internazionale. “Nel teatro basta il talento per sfondare mentre nel cinema no. Il cinema rivela chi sei, è una radiografia”, raccontava in un’intervista del 1995. “In un film l’imbecille non può fare che la parte di un imbecille. In teatro, invece, uno si può nascondere. Io ho conosciuto grandi imbecilli che erano anche grandi attori di teatro. La televisione è ancora più scandagliante del cinema. Il primo piano ti rivela per quello che sei, la telecamera è più snodata della macchina da presa, più indagatrice, ti scava dentro. Insomma, in Tv, l’imbecille viene fuori subito”. Se da un lato Ettore Scola, Mario Monicelli e Dino Risi sono stati i suoi grandi amici e compagni di set, Gassman non ha mai sacrificato o negato il legame con il palcoscenico.

Simba lascia che ti dica una cosa che mio padre disse a me. Guarda le stelle. I grandi re del passato ci guardano da quelle stelle. Perciò quando ti senti solo ricordati che quei re saranno sempre lì per guidarti. E ci sarò anch’io”. Quanti non conoscono questo momento cult di un grande classico Disney? Ebbene, la voce di Mufasa, nella versione italiana de Il re Leone del 1994 è quella di Vittorio Gassman. Il suo volto è noto ma la sua voce non è da meno. Una di quelle voci che si riconoscono a occhi chiusi! Una voce calda, paterna, colma di sentimenti ed emozioni. Gassman rientra in quella generazione di attori dalla voce importante, particolare, perentoria. Una voce che diventa arte stessa e che aiuto il movimento del corpo e la mimica quando necessaria. Gassman non fa parte della tradizione del doppiaggio italiano. Si è prestato poche volte, in tutto quattro o cinque, impegnandosi sempre al massimo. Al contrario, amava leggere anche per gli altri e in rete si possono ascoltare – e vedere – alcune letture di poesie che fanno parte della nostra storia letteraria.

Il Mattatore fu un soprannome che gli rimase incollato a vita. Non fece nulla per toglierselo di dosso. Considerato uno dei più grandi attori della Storia del Cinema Italiano, debuttò nei teatri milanesi più importanti degli Anni Quaranta. Fu il Signore delle Scene fin da giovanissimo. Ma quel nomignolo lo abbracciò assieme al successo popolare. Un successo che gli venne dato dal cinema e che venne rimarcato anche da un programma televisivo che, per l’appunto, si intitolava Il Mattatore. Nessuno fu come Vittorio Gassman prima di Vittorio Gassman. E per diventarlo percorse una strada lunghissima.

Genovese, classe 1922, riuscì a entrare nella compagnia di Luchino Visconti e a esibirsi in titoli importanti come “Un tram che si chiama Desiderio” o “Come vi piace”. Conquistò la critica e quel pubblico di ricchi intellettuali che potevano permettersi il teatro. Ma a lui non bastava: voleva tutti gli italiani.
Provò il cinema, ma la sua interpretazione più decisiva fu una parte di secondo piano in Riso amaro. Sembrava che non ci fosse spazio per un altro protagonista del grande schermo. Solo Mario Monicelli pensava il contrario. Vide in quel geloso e iracondo strangolatore di Desdemone qualcosa di comico. Seguì la sua intuizione. Lo infilò fra I soliti ignoti (1958) e lo trascinò con altri registi verso gli applausi della commedie all’italiana. Fu un trionfo. Tutti amavano Gassman, tutti volevano essere Gassman, tutti parlavano bene di Gassman. Diventò l’Attore per eccellenza assieme a selezionatissimi colleghi (MastroianniManfrediGianniniSordi). Profumo di donna (1974) gli fece ottenere il premio come miglior attore al Festival di Cannes. Fu l’apice del suo successo. Più di così non poteva andare. E infatti, smise di correre, ma mal volentieri. Il cinema era cambiato, lui era cambiato. La vecchiaia lo deprimeva. Avrebbe voluto rimanere giovane, ma non poteva. Lo salvò l’autoironia.
Gli avevano detto “lei potrebbe leggere di tutto e farlo sembrare poesia”. Allora, nella sezione “Gassman legge” del programma satirico “Tunnel”, Gassman lesse veramente ma veramente di tutto. Pagine Gialle, referti sulle analisi del sangue, etichette dei maglioni. Il risultato fu esilarante. Ancora una volta si riconfermò un interprete dal carisma naturale. Altisonante, enfatico, istrionico, ma anche beffardo e sottile.
I suoi furono personaggi nei quali molti uomini di allora si specchiarono, ghignando di loro stessi, vergognandosi di loro stessi. Fu anche un raro caso di molteplicità artistica, che lo portò a diventare un fuoriclasse del trasformismo da cinepresa e palco. Arrivò a interpretare ben nove ruoli nella commedia “I tromboni” e venti in I mostri con il suo più caro amico Ugo Tognazzi. Fu persino nonno e nipote in un solo film: La famiglia . Ben quindici i titoli girati con Dino Risi, compagno di cinema e suo grande alleato nella vita. “Volevo fare lo scrittore, non l’attore”, ripeteva spesso. Fece l’uno e l’altro.
È impossibile dimenticare il Mattatore. Di lui ci rimangono la caratteristica voce, costruita con una tecnica quasi maniacale, e poi i tanti titoli cinematografici, exploit spesso ripetitivi, ma con eccezioni d’autore (anche straniere come Altman e Resnais). Non mancano certo la tracotanza espressiva, l’immane cultura che possedeva, la genialità nel saper scambiare posto al bene e al male con una maestria da truffatore. L’ultimo ruolo lo interpretò sul palcoscenico della vita, con la tardiva consapevolezza di essere padre. Poco presente agli inizi e durante gran parte della sua esistenza, riuscì in vecchiaia a ricostruire un bellissimo rapporto con tutti i suoi figli, ormai diventati adulti. Fu Gassman al 100% anche lì. Lo fu sempre e sempre lo sarà. Al di là del Mattatore.

Nato nel quartiere genovese di Struppa il primo settembre 1922, Vittorio Gassman era figlio dell’ingegnere civile tedesco Heinrich Gassmann e della casalinga pisana Luisa Ambron, che aveva avuto qualche esperienza come attrice alle spalle. A cinque anni, la famiglia si trasferì nel paesino di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, a causa del lavoro paterno. Studiò al liceo classico Torquato Tasso e si appassionò alla pallacanestro. Si iscrisse a giurisprudenza, ma la madre sentiva che non era la carriera giusta per lui, così ne chiese l’ammissione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, spingendolo a lasciare gli studi legali. Nel frattempo, continuò a coltivare il fisico da atleta. Venne tesserato per la S.S. Parioli e arrivò a diventare un Azzurro universitario. Furono questi gli anni in cui Vittorio Gassmann diventò Vittorio Gassman, con una “n” in meno. Una “n” finale venne elisa perchè tutti la dimenticavano. Nel 1943, andò in scena a Milano in “La Nemica” e si spostò al Teatro Eliseo per formare un trio con Tino Carraro ed Ernesto Calindri. Poi arrivò Visconti che si innamorò della sua fisicità mascolina tanto da sceglierlo per il ruolo di Kowalski nel già citato “Un tram che si chiama Desiderio”, accanto ai compagni di studi Paolo Stoppa e Rina Morelli. Seguirono “Come vi piace” e “Oreste”, poi riuscì a entrare nel Teatro Nazionale.

Il cinema arrivò parallelamente. Ma sembrò una strada sbarrata. La cinepresa gli riservava solo ruoli da cattivo. Nel 1945 lavorò a Incontro con Laura, che andò perduto. Seguirono Preludio d’amore (1946) e Daniele Cortis di Mario Soldati. Poi Giuseppe De Santis lo volle come pregiudicato in Riso amaro, uno dei capolavori del primo neorealismo. Rimane a imperitura memoria la scena in cui balla scatenato con Silvana Mangano.

Nel 1952, recitò per primo la versione integrale dell'”Amleto” e si alternò con Salvo Randone nei ruoli di Iago e del moro nell'”Otello”. Fece conoscere a mezzo milione di italiani l'”Adelchi” di Manzoni e, in combutta con l’ex compagno di studi Luigi Squarzina, fondò e diresse il Teatro d’Arte Italiano, dove trovarono posto il “Tieste”, “I Persiani”, “Il Prometeo incatenato” e l'”Orestiade” con regia e traduzione di Pier Paolo Pasolini.

Le regie cinematografiche
A un certo punto passò alla regia cinematografica dirigendo se stesso in Kean – Genio e sregolatezza (1957). Non fu il suo unico passo dietro la cinepresa. A questo titolo, ne seguirono altri che ebbero sempre una certa nota autobiografica. Ci furono: L’alibi (1969), un film sull’alienazione; Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto (1972), storia di due miserabili solitudini; e Di padre in figlio (1982). Quest’ultima,forse, fu la più personale tra le sue opere, perchè in essa raccontò la sua paternità in un rapporto dialettico proprio con il vero figlio Alessandro Gassman.

Ma prima di tutto questo, ci furono le trasferte americane (definite “sadomasochiste”), complici del matrimonio con la sua seconda moglie Shelley Winters. Erano i tempi del contratto con la MGM per Il muro di vetro (1953), Sombrero (1953) e Mambo (1954). L’apice della bruttura lo toccò in pieno con Rapsodia. A metà degli Anni Cinquanta, non ne poteva già più. Divorziò dalla Winters e se ne tornò in Italia. Malgrado fosse considerato “il migliore degli interpreti”, fu quasi tentato dal lasciar perdere la strada cinematografica, ma un intuitivo Mario Monicelli gli propose un inedito ruolo: Peppe, un pugile decisamente suonato, nel capolavoro I soliti ignoti (1958). Il pubblico e la critica scoprirono improvvisamente un Gassman alternativo. Comico, magicamente perfetto per il grande schermo. Ottenne il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista e, d’improvviso, gli Anni Sessanta si aprirono a una nuova gratificante strada da percorrere proprio sulla scia di quel successo che, tra l’altro, ebbe due seguiti ( Audace colpo dei soliti ignoti del 1959 diretto da Nanni Loy e I soliti ignoti – Vent’anni dopo del 1985).

La sua comicità andò bene anche per il piccolo schermo, quando ebbe fortuna nell’inaspettato programma tv Il Mattatore, poi confermato con un omonimo film l’anno dopo. Monicelli continuò a usarlo ad oltranza, dirigendolo, per esempio, in un altro capolavoro del nostro cinema: La Grande Guerra (1959). Nacque il Gassman dei più grandi titoli nazionalpopolari. Un pubblico “diverso”, più vicino a quello della strada, che fino ad allora aveva riso per Totò, ora rideva grazie a lui. Quel suo Giovanni Busacca, un cialtrone milanese, ex carcerato, che diventava un eroe passando per le indigenze delle trincee, superò ogni aspettativa. Anche Dino Risi ed Ettore Scola reclamarono un pezzo di Gassman, salvo poi appropriarsene definitivamente attraverso indissolubili legami d’amicizia. Non mancò chi storceva il naso, accusandolo di non trovare il ritmo comico giusto. Ma lui se ne curò poco e continuò a interpretare felloni tutti d’un pezzo ( Anima nera , 1962) o fascisti poco convinti politicamente (La marcia su Roma, 1962, in compagnia dello spassoso Tognazzi).

Poi arrivò la punta di diamante della sua carriera. Il terzo capolavoro: Il sorpasso (1962). L’antipatico rampante Bruno Cortona, figlio del boom economico, gli lasciò in eredità l’immagine dello sbruffone, dell’arrivista, del cialtrone smanioso di facile successo. Il tipico italiano medio. E, in quel geniale e afoso titolo on the road, nacque la sua maschera perenne. Quella del furbetto sopra le righe, dell’uomo dalla finta classe, portatore di un profondissimo mal costume nostrano. Come fosse un nuovo personaggio della Commedia dell’Arte, questo prototipo di seduttore, autoincensatosi conoscitore di tutte le dinamiche politiche e sociali di un intero Paese, parte per la tangente e, immancabilmente, paga con la vita degli altri la propria opportunistica immoralità. Una performance che fu anche un’impietosa analisi di tutti quegli spacconi che popolavano la penisola. Non si può pensare a Il sorpasso senza pensare a Gassman. Egli ne è il centro propulsore, il solo capace di trascinare con tutta la sua forza interpreti e regia. Seguiranno altre blande imitazioni di quell’italiano velleitario e superficiale. Altre pallide macchiette affette da un simile horror vacui esistenziale che però non gli faranno ottenere un David di Donatello come miglior attore protagonista come nel caso del film di Risi.

Seguirono L’amore difficile (1962), I mostri nel 1963,  Se permettete, parliamo di donne (1964). Con Joan Collins e diretto da Scola in La congiuntura (1964), diventò un infiammato principe romano nottambulo che viene sedotto e ingannato da una bella signora. Anche questa volta, per la sua interpretazione di eccezionale qualità, strappò un David di Donatello per il miglior attore protagonista. Intanto, si diede un gran daffare, agitandosi intorno a Virna Lisi in Una vergine per il principe (1965) e diventò quasi action sotto lo sguardo di Salce nel suo Slalom (1965). Irresistibile nel piccolo punto fermo del cinema italiano popolare rappresentato dall’Armata Brancaleone , trovò nel soldato di ventura Brancaleone da Norcia, una delle caratterizzazioni più indelebili della sua carriera. Le sale gremivano di persone, tanto che si pensò che Gassman potesse dare il massimo al botteghino solo nei film di costume. Motivo che spinse Scola a richiamarlo sul set e a fargli abbracciare il Cinquecento con L’arcidiavolo (1966). Ma un altro David di Donatello era già dietro la porta ad attenderlo per quell’esuberanza debordante che mise al servizio de Il tigre (1967).

Con (Brancaleone alle crociate, 1970) fu di nuovo al centro di una miscela di scoppiettante umorismo. Si iniziò a comprendere che, malgrado la fortuna al botteghino, certi film erano sostenuti esclusivamente dalla sua inimitabile passione d’attore. Per questo motivo, Risi lo affiancò a Tognazzi nel profetico In nome del Popolo Italiano (1971), trasformandolo in un industriale corrotto. Anticipando l’Italia dei magistrati e di Tangentopoli, il suo Lorenzo Santenocito convinse il pubblico e la critica e gli permise di approdare al ruvido capitano di Profumo di donna (1974), che gli portò il premio come miglior attore a Cannes, un Nastro d’Argento e un David di Donatello. Se mai ci fu una linea d’ombra nella sua carriera, quella fu proprio percorsa nel vestire i panni di Fausto Consolo, sospeso tra la buia cecità e il bisogno di assaporare per un’ultima volta il miele della vita. Non ci fu mai più un ruolo così maturo. La perfetta chiusura di una straordinaria carriera, che però continuò con altre significative interpretazioni (C’eravamo tanto amati , Il deserto dei Tartari di Zurlini).

Nel 1977, “inventò” un revival-inventario sulla sua vita “7 giorni all’asta”, uno spettacolo lungo un’intera settimana, poi seguito da “4 risate in famiglia” al quale collaborarono amici e parenti. In Caro papà (1979), allargò le braccia a un nuovo David.  A seguire La terrazza (1980) e Il potere del Male (1985). La vecchiaia lo fece soccombere professionalmente, anche se lui non avrebbe voluto. Ci fu però ancora del tempo per raffinati patriarchi (il memorabile Carlo di La famiglia , 1987, con tanto di nuovo David), per nobili in costume (I picari , I divertimenti della vita privata ), custodi di cimiteri (Mortacci , 1988), strani parenti (Lo zio indegno , 1989, con annesso Nastro d’Argento) e riflessivi anziani (Tolgo il disturbo , 1990).

Fu anche fondatore e direttore (dal 1979 al 1991) della Bottega dell’Attore, ebbe fra gli allievi il figlio Alessandro. “Il lavoro dell’attore” spiegava, “è una specie di malattia che a volte si può però anche insegnare”. Nell’ultima parte della sua carriera, aggiunse le poesie al suo repertorio, facendo conoscere in Italia alcune opere straniere e, soprattutto, la plurireplicata “Divina Commedia”. Poi arrivò il Gassman triste, quello in disparte, in preda a violente crisi depressive che non riusciva ad accettare che il meglio era passato.

Seguirono Tutti gli anni una volta l’anno (1993); il doppiaggio del leone Mufasa, sovrano della giungla nel Re Leone (1994); la comparsata autorevole e di classe in Sleepers(1996). Poi la riconciliazione con Shelley Winters in La bomba (1999), la sua ultima (e anche dell’ex-moglie Shelley Winters) apparizione sul grande schermo. Ci furono anche due spot e in uno di questi lanciò il tormentone “Questo lo ignoro!” interpretando Nostradamus. Sul finale, alla luce di uno strepitoso percorso artistico, venne celebrato con un Leone d’Oro alla Carriera.

Ma Gassman è stato anche scrittore con il romanzo “Luca dei numeri” (1965), pubblicò volumi autobiografici dai titoli “Un grande avvenire dietro le spalle” (1981) e “Memorie del sottoscala” (1990), poi seguiti da altri tre libri (“Ulisse e la balena bianca”, “Mal di parola” e “Lettere d’amore sulla bellezza”).

Morì per un attacco cardiaco che lo colpì nel sonno nella notte di giovedì 29 giugno 2000, all’età di 77 anni, in quella Roma che amò e visse come pochi altri. “Non si dovrebbe morire”, era solito ripetere “Morire è l’unico errore che ha fatto il Padreterno”.

Tre le mogli ufficiali. La prima era la collega Nora Ricci. Poi, dopo una storiella con Elvi Lissiak, sposa l’americana Shelley Winters che vide naufragare le sue nozze di lì a poco sia perchè Gassman mal sopportava gli ambienti hollywoodiani e sia per i tradimenti con Anna Maria Ferrero. Dopo una relazione con l’attrice danese Annette Strøyberg e una importantissima con Juliette Mayniel, si sposò una terza volta con Diletta D’Andrea. Cinque i suoi figli. La prima figlia, nata dalle nozze celebrate con la Ricci nel 1943 (e poi annullate), fu Paola Gassman, sapiente attrice teatrale . Nel 1953, dalla burrascosa relazione con la Winters, nacque Vittoria Gassman, medico geriatra negli Stati Uniti. Poi Alessandro, figlio della Mayniel, e dall’ultima moglie, Jacopo, oggi regista. In più, adottò Emanuele Salce, figlio dell’ultima moglie e di Luciano Salce.




Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *