Il 21 Febbraio del 1431 fu dato il via alle udienza per processare Santa Giovanna D’Arco.

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San Giovanna D’Arco – Fatta prigioniera insieme al suo intendente, Jean d’Aulon, e al fratello Pietro, Giovanna fu condotta in un primo tempo alla fortezza di Clairoix, quindi, dopo pochi giorni, al castello di Beaulieu-les-Fontaines dove rimase sino al 10 luglio, e infine al castello di Beaurevoir. Qui, Giovanna venne trattata come una prigioniera d’alto rango e, infine, riuscì a conquistarsi la simpatia di tre dame del castello che, stranamente, portavano il suo stesso nome: Jeanne de Béthune, moglie di Jean de Luxembourg, la sua figlia di prime nozze Jeanne de Bar e infine Jeanne de Luxembourg, zia del potente vassallo, che giunse sino al punto di minacciare di diseredarlo qualora la Pulzella fosse stata consegnata agli inglesi. Del pari, Giovanna avrebbe ricordato con affetto queste tre donne durante gli interrogatori, ponendole su un piano di rispetto immediatamente inferiore a quello dovuto solo alla propria regina.

Dopo la morte di Jeanne de Luxembourg, sopraggiunta il 18 settembre 1430 la situazione per Giovanna cambiò e, dopo quattro mesi di prigionia nel castello di Beaurevoir, il vescovo di Beauvais Pietro Cauchon, nella cui diocesi era avvenuta la cattura, si presentò a Jean de Luxemborg versando nelle sue mani la rançon, la cifra sotto cui la Pulzella era stata messa a riscatto, a nome del re d’Inghilterra e, contemporaneamente, rivendicando il proprio diritto a giudicarla secondo il diritto ecclesiastico. La cifra, diecimila lire tornesi, era enorme, paragonabile a quella richiesta per un principe di sangue reale, e per raccoglierla era stato decretato un aumento delle imposte in Normandia, provincia ancora in mano inglese.

Il pagamento del riscatto di un prigioniero aveva lo scopo di restituirgli la libertà; in questo caso, invece, Giovanna fu venduta agli inglesi, cui fu consegnata il 21 novembre 1430 a Le Crotoy,  in qualità di prigioniera di guerra e trasferita, tra novembre e dicembre, numerose volte in diverse piazzeforti, forse per timore di un colpo di mano dei francesi teso a liberarla. Il 23 dicembre dello stesso anno, sei mesi dopo la sua cattura sotto le mura di Compiègne, Giovanna giunse infine a Rouen

Dopo la cattura di Giovanna, Carlo VII non offrì un riscatto per la prigioniera, né fece passi ufficiali per trattarne la liberazione. Secondo alcuni, Giovanna, ormai divenuta sin troppo popolare, fu abbandonata al suo destino. Secondo altri, invece, Carlo VII avrebbe incaricato segretamente prima La Hire, che fu catturato in un’azione militare, e poi il Bastardo d’Orléans di liberare la prigioniera durante i trasferimenti da una piazzaforte ad un’altra, come proverebbero alcuni documenti che attestano due “imprese segrete” presso Rouen, di cui uno datato 14 marzo 1431 in cui il Bastardo d’Orléans accusa la ricevuta di 3.000 lire tornesi per una missione oltre la Senna.

Giovanna aveva già provato a sottrarsi alla prigionia sia a Beaulieu-les-Fontaines, approfittando di una distrazione delle guardie, sia al castello di Beaurevoir, annodando delle lenzuola per calarsi da una finestra per poi lasciarsi cadere al suolo; il primo tentativo fu sventato per un soffio, il secondo (causato dalla preoccupazione di Giovanna per una nuova offensiva anglo-borgognona, oltre che, probabilmente, dal sentore di essere in procinto di essere consegnata ad altre mani) ebbe come esito un trauma, dovuto alla caduta, talmente forte da lasciarla tramortita: quando fu nuovamente rinchiusa, per oltre due giorni Giovanna non poté né mangiare né bere. La Pulzella tuttavia si riprese dalle contusioni e dalle ferite.

L’Università di Parigi, che si riteneva depositaria della giurisprudenza civile ed ecclesiastica e che, dispiegando a favore degli inglesi le migliori armi retoriche, sin dal momento della sua cattura ne aveva richiesto la consegna, in quanto la giovane sarebbe stata «sospettata fortemente di numerosi crimini in odore di eresia», finalmente l’ebbe, almeno formalmente, in custodia: la prigioniera ormai era rinchiusa nel castello di Rouen, in mano inglese.  Qui la detenzione fu durissima: Giovanna era rinchiusa in una stretta cella del castello, guardata a vista da cinque soldati inglesi, tre all’interno della stessa cella, due al di fuori, mentre una seconda pattuglia era stata piazzata al piano superiore, i piedi della prigioniera erano serrati in ceppi di ferro e le mani spesso legate; solo per partecipare alle udienze le venivano tolti i ceppi ai piedi, che invece, la notte, erano saldamente fissati in modo che la ragazza non potesse lasciare il proprio giaciglio.

Le difficoltà nell’istruire il processo non mancarono: in primo luogo Giovanna era detenuta come prigioniera di guerra in un carcere militare e non nelle prigioni ecclesiastiche come per i processi d’Inquisizione; in secondo luogo, la sua cattura era avvenuta ai margini della diocesi retta da Cauchon (probabilmente al di fuori); inoltre, l’Inquisitore generale di Francia, Jean Graverent, si dichiarò non disponibile e il vicario dell’Inquisizione di Rouen, Jean Lemaistre, rifiutò di partecipare al processo per «la serenità della propria coscienza» e perché non si riteneva competente che per la diocesi di Rouen; fu necessario scrivere nuovamente all’Inquisitore generale di Francia per ottenere che Lemaistre si piegasse, il 22 febbraio, quando le udienze erano già iniziate infine, Cauchon aveva inviato tre delegati, tra cui il notaio Nicolas Bailly, a Domrémy, Vaucouleurs e Toul per trarre informazioni su Giovanna, senza che essi trovassero il minimo appiglio per formulare alcun capo d’accusa; sarebbe stato solo dalle risposte di Giovanna agli interrogatori che i giudici, ossia Pietro Cauchon e Jean Lemaistre, e i quarantadue assessori (scelti fra teologi ed ecclesiastici di fama) le avrebbero posto, che la Pulzella sarebbe stata giudicata, mentre il processo iniziava senza che contro di lei vi fosse una chiara ed esplicita imputazione.

Il processo a Santa Giovanna D’Arco iniziò la procedura ridefinendo il processo stesso, iniziato in un primo tempo “per stregoneria”, in uno “per eresia”; conferì infine l’incarico di “procuratore”, sorta di pubblico accusatore, a Jean d’Estivet, canonico di Beauveais che lo aveva seguito a Rouen.

La prima udienza si tenne pubblicamente il 21 febbraio 1431 nella cappella del Castello di Rouen. La carcerazione non aveva fiaccato lo spirito di Giovanna; sin dal principio delle udienze, richiesta di giurare su qualsiasi domanda, ella pretese – e ottenne – di limitare il proprio impegno a quanto concernesse la fede. Inoltre, alla domanda di Cauchon di recitare il Padre Nostro rispose che lo avrebbe certamente fatto ma solo in confessione, modo sottile per ricordargli la sua veste di ecclesiastico.

L’interrogatorio di Giovanna si svolse in maniera convulsa, sia perché l’imputata era interrotta continuamente, sia perché alcuni segretari inglesi ne trascrivevano le parole omettendo tutto ciò che fosse a lei favorevole, cosa di cui il notaio Guillame Manchon si lamentò minacciando di astenersi dal presenziare ulteriormente; dal giorno seguente Giovanna fu così sentita in una sala del castello sorvegliata da due guardie inglesi.

Durante la seconda udienza, Giovanna fu interrogata per sommi capi sulla sua vita religiosa, sulle apparizioni, sulle “voci”, sugli accadimenti occorsi a Vaucouleurs, sull’assalto a Parigi in un giorno in cui cadeva una solennità religiosa; a questo la Pulzella rispose che l’assalto avvenne per iniziativa dei capitani di guerra, mentre le “voci” le avevano consigliato di non spingersi oltre Saint-Denis.

Questione non trascurabile posta quel giorno, sebbene in un primo momento passata quasi inosservata, fu il motivo per cui la ragazza indossasse abiti maschili; alla risposta suggeritale da quegli stessi che la stavano interrogando (ossia se fosse stato un consiglio di Robert de Baudricourt, capitano di Vaucouleurs), Giovanna, intuendo la gravità di un’asserzione simile, rispose: «Non farò ricadere su altri una responsabilità così pesante!»In quest’occasione Cauchon, forse toccato dalla richiesta di essere udita in confessione fatta dalla prigioniera il giorno precedente, non la interrogò personalmente, limitandosi a chiederle, ancora una volta, di prestare giuramento.

Durante la terza udienza pubblica Giovanna rispose con una vivacità inattesa in una prigioniera, arrivando ad ammonire il suo giudice, Cauchon, per la salvezza della sua anima.

La trascrizione dei verbali rivela anche una vena umoristica inaspettata che la ragazza possedeva nonostante il processo; alla domanda se avesse avuto rivelazione che sarebbe riuscita a evadere dalla prigione, rispose: «E io dovrei venire a dirvelo?». L’interrogatorio successivo, sull’infanzia di Giovanna, i suoi giochi di bambina, l’Albero delle Fate, intorno al quale i bambini giocavano, danzavano e intrecciavano ghirlande, non portò nulla di rilevante per gli esiti processuali, né fece cadere Giovanna in affermazioni che potessero renderla sospetta di stregoneria, come forse era negli intenti dei suoi accusatori. Di notevole rilevanza, invece, la presenza, tra gli assessori della giuria di Nicolas Loiseleur, un prete che si era finto prigioniero e aveva ascoltato Giovanna in confessione mentre, come riferito sotto giuramento da Guillame Manchon, diversi testimoni ascoltavano nascostamente la conversazione, in aperta violazione delle norme ecclesiastiche.

Nelle tre udienze pubbliche successive si accentuò il divario di prospettiva tra i giudici e Giovanna; mentre i primi si accanivano con sempre maggiore tenacia sul motivo per cui Giovanna portasse abiti maschili, la ragazza sembrava a suo agio parlando delle sue “voci”, che indicò provenire dall’arcangelo Michele, santa Caterina e santa Margherita, differenza evidente nella risposta data circa la luminosità della sala in cui aveva incontrato per la prima volta il Delfino: «cinquanta torce, senza contare la luce spirituale!» E ancora, nonostante la prigionia e la pressione del processo, la ragazza non rinunciò a risposte ironiche; a un giudice che le aveva domandato se l’arcangelo Michele avesse i capelli, Giovanna rispose: «Per quale ragione avrebbero dovuto tagliarglieli?»

A partire dal 10 marzo 1431 tutte le udienze del processo furono tenute a porte chiuse, nella prigione di Giovanna. La segretezza degli interrogatori coincise con una procedura inquisitoriale più incisiva: si chiese all’imputata se non ritenesse di aver peccato intraprendendo il suo viaggio contro il parere dei suoi genitori; se fosse in grado di descrivere l’aspetto degli angeli; se avesse tentato di suicidarsi saltando giù dalla torre del castello di Beaurevoir; quale fosse il “segno” dato al Delfino che avrebbe convinto quest’ultimo a prestar fede alla ragazza; se fosse certa di non cadere più in peccato mortale, ossia se fosse sicura di trovarsi in stato di Grazia. Paradossalmente, quanto più gravi furono le accuse mosse a Giovanna, tanto più sorprendenti vennero le risposte.

 

Giovanna affermò, circa la disobbedienza ai genitori, che «poiché era stato Dio a chiedermelo, avessi avuto anche cento padri e cento madri, fossi anche nata figlia di re, sarei partita ugualmente»; circa l’aspetto degli angeli, si spinse ben oltre quanto i suoi accusatori le chiedessero, asserendo con naturalezza: «Vengono spesso tra gli uomini senza che nessuno li veda; io stessa li ho visti molte volte in mezzo alla gente»; circa il presunto tentativo di togliersi la vita, ribadì che il suo unico intento era quello di evadere; riguardo al “segno” dato al Delfino, Giovanna narrò che un angelo aveva consegnato al Delfino una corona di grande valore, simbolo della volontà divina che guidava le sue azioni al fine di far riconquistare a Carlo il regno di Francia (raffigurato dalla corona), rappresentazione metaforica del tutto in linea con il modo di esprimersi del tempo, soprattutto riguardo a quanto si riteneva ineffabile; riguardo al peccato e se ritenesse di essere in stato di Grazia, Giovanna rispose «mi rimetto in tutto a Nostro Signore», così come, pochi giorni prima, durante le udienze pubbliche, aveva risposto: «Se non lo sono, che Dio mi ci metta; se lo sono che Dio mi ci mantenga!».

Durante il sesto e ultimo interrogatorio, gli inquisitori spiegarono infine a Giovanna che esisteva una “Chiesa trionfante” e una “Chiesa militante”; l’imputata si limitò a riaffermare quanto aveva già risposto: «Che Dio e la Chiesa siano una cosa sola, mi sembra chiaro. Ma voi, perché fate tanti cavilli?»Gli stessi contemporanei che ebbero modo di presenziare agli interrogatori, specialmente i più eruditi, come testimonia il medico Jean Tiphaine, notarono l’accortezza e la saggezza con le quali Giovanna rispondeva; al contempo difendeva la veridicità delle sue “voci”, riconosceva l’autorità della Chiesa, si affidava completamente a Dio, così come di lì a pochi giorni, alla domanda se ritenesse di doversi sottomettere alla Chiesa, avrebbe risposto: «Sì, Dio servito per primo».

Il 27 e il 28 marzo furono letti all’imputata i settanta articoli che componevano l’atto di accusa formulato da Jean d’Estivet. Molti articoli erano palesemente falsi o quantomeno non suffragati da alcuna testimonianza, meno che mai dalle risposte dell’imputata; tra essi si leggeva che Giovanna avrebbe bestemmiato, portato con sé una mandragora, stregato stendardo, spada e anello conferendo ad essi virtù magiche; frequentato le fate, venerato spiriti maligni, tenuto commercio con due “consiglieri della sorgente”, fatto venerare la propria armatura, formulato divinazioni. Altri, come il sessantaduesimo articolo, sarebbero potuti risultare più insidiosi, in quanto ravvisavano in Giovanna la volontà di entrare in contatto direttamente con il divino, senza la mediazione della Chiesa, eppure passarono quasi inosservati. Paradossalmente, risultò di sempre maggior rilevanza l’uso di Giovanna di portare abiti da uomo.

Si scontravano da un lato l’applicazione formale e letterale della dottrina, che si appigliava a quell’abito maschile come a un marchio d’infamia, dall’altro la visione “mistica” di Giovanna, per la quale l’abito era cosa da nulla se paragonato al mondo spirituale. Il 31 marzo Giovanna fu nuovamente interrogata nella sua prigione e acconsentì a sottomettersi alla Chiesa, purché non le fosse chiesto di affermare che le “voci” non provenissero da Dio; che avrebbe ubbidito ad essa purché Dio fosse «servito per primo». Così trascorse la Pasqua, che quell’anno cadeva il primo giorno d’aprile, senza che Giovanna potesse udire Messa o comunicarsi, nonostante le sue suppliche.

 

I settanta articoli in cui consisteva l’accusa contro Giovanna la Pulzella furono condensati in dodici articoli estratti dall’atto formale redatto da Jean d’Estivet; tale era la normale procedura inquisitoriale. Questi dodici articoli, in base ai quali Giovanna era considerata «idolatra», «invocatrice di diavoli», «blasfema», «eretica» e «scismatica», furono sottoposti agli assessori e inviati a teologi di chiara fama; alcuni li approvarono senza riserve ma diverse furono le voci discordanti: uno degli assessori, Raoul le Sauvage, ritenne che l’intero processo dovesse essere inviato al Pontefice; il vescovo di Avranches rispose che non v’era nulla d’impossibile in quanto Giovanna asseriva. Alcuni chierici di Rouen o ivi giunti ritennero di fatto Giovanna innocente o, quantomeno, il processo illegittimo; tra questi Jean Lohier, che reputò il processo illegale nella forma e nella sostanza, in quanto gli assessori non erano liberi, le sedute si tenevano a porte chiuse, gli argomenti trattati troppo complessi per una ragazzina e soprattutto che il vero motivo del processo era politico, in quanto attraverso Giovanna s’intendeva infangare il nome di Carlo VII.

Per queste sue schiette risposte, che oltretutto svelavano il fine politico del processo, Lohier dovette abbandonare in gran fretta Rouen. Il 16 aprile 1431 Giovanna fu colpita da un grave malessere accompagnato da un violento stato febbrile, che fece temere per la sua vita, ma si riprese nel giro di pochi giorni. Le vennero inviati tre medici, tra cui Jean Tiphaine, medico personale della duchessa di Bedford, che poté riferire che Giovanna si era sentita male dopo aver mangiato un pesce inviatole da Cauchon, cosa che suscitò il sospetto di un tentato avvelenamento, peraltro mai provato Due giorni dopo, tuttavia, Giovanna riuscì a sostenere la “ammonizione caritatevole”, alla quale ne seguì una seconda il 2 maggio, senza che Giovanna cedesse su nulla, pur riconoscendo l’autorità del Pontefice. Del resto, più di una volta la ragazza si era appellata al Papa; appello che le era sempre stato negato nonostante la contraddizione evidente, essendo impossibile essere eretici e riconoscere al contempo l’autorità pontificia.

Il 9 maggio Giovanna, condotta nel torrione del castello di Rouen, si trovò dinanzi Cauchon, alcuni assessori e Maugier Leparmentier, il boia; minacciata di tortura, non rinnegò nulla e rifiutò di piegarsi, pur confessando la propria paura. Il tribunale decise infine di non ricorrere alla tortura, probabilmente per il timore che la ragazza riuscisse a sopportare la prova e forse anche per non rischiare di apporre sul processo una macchia indelebile. Il 23 maggio furono letti a Giovanna, presenti numerosi membri del tribunale, i dodici articoli a suo carico. Giovanna rispose che confermava tutto quanto aveva detto durante il processo e che lo avrebbe sostenuto sino alla fine.

Il 24 maggio 1431 Giovanna fu tradotta dalla sua prigione nel cimitero dalla chiesa di Saint-Ouen, sul margine orientale della città, ove erano già state preparate una piattaforma per lei, in modo che la popolazione potesse vederla e udirla distintamente, e tribune per i giudici e gli assessori.

La ragazza fu ammonita dal teologo Guillame Erard che, dopo un lungo sermone, domandò a Giovanna ancora una volta di abiurare i crimini contenuti nei dodici articoli dell’accusa. Giovanna rispose: «Mi rimetto a Dio e al Nostro Santo Padre il Papa»[

Com’era prassi del tempo, l’appello al Papa avrebbe dovuto interrompere la procedura inquisitoriale e portare alla traduzione dell’imputata innanzi al Pontefice; tuttavia, nonostante la presenza di un cardinale, Erard liquidò la questione sostenendo che il Pontefice era troppo lontano, continuando ad ammonire Giovanna per tre volte; infine Cauchon prese la parola e iniziò a leggere la sentenza, quando fu interrotto da un grido di Giovanna: «Accetto tutto quello che i giudici e la Chiesa vorranno sentenziare!

L’abiura che Giovanna aveva firmato non era più lunga di otto righe, nelle quali s’impegnava a non riprendere le armi, né portare abito d’uomo, né capelli corti, mentre agli atti fu messo un documento di abiura di quarantaquattro righe in latino.

La sentenza emessa era comunque durissima: Giovanna era condannata alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, a «pane di dolore» e «acqua di tristezza». Nondimeno, la ragazza sarebbe stata sorvegliata da donne, non più costretta da ferri giorno e notte e libera dal tormento dei continui interrogatori; rimase tuttavia sorpresa quando Cauchon ordinò di rinchiuderla nello stesso carcere destinato ai prigionieri di guerra che aveva lasciato la mattina.

Questa violazione delle norme ecclesiastiche fu con ogni probabilità voluta dallo stesso Cauchon per un fine preciso, indurre Giovanna a indossare nuovamente l’abito da uomo per difendersi dai soprusi dei soldati. Infatti solamente i relapsi, ossia coloro che, avendo già abiurato, ricadevano in errore, erano destinati al rogo.

La mattina di domenica 27 maggio, Giovanna chiese di alzarsi e un soldato inglese le sottrasse gli abiti da donna e gettando nella sua cella quelli maschili; nonostante le proteste della Pulzella, non gliene furono concessi altri. A mezzogiorno, Giovanna fu costretta a cedere. Cauchon e il viceinquisitore Lemaistre, insieme ad alcuni assessori, si recarono il giorno seguente alla prigione: Giovanna affermò coraggiosamente di aver ripreso l’abito maschile di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non, come suo diritto, in una prigione ecclesiastica, sorvegliata da donne, ove poter sentir messa. Interrogata ancora, ribadì di credere fermamente che le voci che le apparivano erano quelle di santa Caterina e di santa Margherita, di essere inviata da Dio, di non aver capito una sola parola dell’atto di abiura, e aggiunse: «Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso accettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l’anima!» e ancora: «Preferisco fare penitenza in una sola volta e morire piuttosto che sopportare più a lungo la sofferenza di questa prigione». Il 29 maggio Cauchon riunì per l’ultima volta il tribunale per decidere la sorte di Giovanna. Su quarantadue assessori, trentanove dichiararono che fosse necessario leggerle nuovamente l’abiura formale e proporle la “Parola di Dio”. Il loro potere, però, era solo consultivo: Cauchon e Jean Lemaistre condannarono  Santa Giovanna D’Arco al rogo.

 




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