LE STORICHE DIMISSIONI DI COSSIGA

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Cossiga – Il 28 Aprile 2021, il presidente della Repubblica in carica Francesco Cossiga rassegna le dimissioni. Una data storica per l’Italia. Ma come e perché si arrivò a tali dimissioni?
“Ho preso la decisione di dimettermi da Presidente della Repubblica, spero che tutti lo consideriate un gesto onesto, di servizio alla Repubblica”. Sono le 18:38 del 25 aprile 1992 e Francesco Cossiga, rivolgendosi a “cittadine e cittadini di questo meraviglioso Paese”, con un discorso televisivo a rete unificate che durerà complessivamente 45 minuti, annuncia la scelta di lasciare il Quirinale, in anticipo rispetto alla scadenza naturale fissata per il successivo 3 luglio.
E’ il momento culminante di due anni che hanno visto il Capo dello Stato uscire dal riserbo che aveva caratterizzato i primi cinque del mandato e rendersi protagonista di una serie di esternazioni, per spingere la classe politica ad attuare riforme radicali non più rinviabili, dopo i cambiamenti epocali verificatisi alla fine degli anni Ottanta, a partire dalla caduta del Muro di Berlino.

“Talvolta ho gridato -ricorda Cossiga nel suo messaggio agli italiani- ma se ho gridato è perchè soltanto temevo di non farmi sentire”. Non a caso ben presto si parlerà di picconate e di picconatore per descrivere gli interventi del Presidente della Repubblica, proprio per i toni forti, nella forma e nella sostanza, che in certi casi diventano accorati, tanta è la volontà di far capire che nuovi assetti politico-istituzionali debbono sostituire quelli che per 50 anni si sono fondati sugli equilibri prodottisi dopo la fine della seconda guerra mondiale.
“Superata una serie di ostacoli, interni ed internazionali, che avevano fortemente caratterizzato e condizionato, nei decenni trascorsi, il funzionamento del sistema italiano, si è giunti ad una fase della nostra vicenda -aveva scritto ad esempio Cossiga nel messaggio sulle riforme istituzionali inviato alle Camere il 26 giugno del 1991- che al Capo dello Stato appare particolarmente propizia per coagulare intorno alla questione delle riforme un vasto e costruttivo consenso, un vero e proprio nuovo patto nazionale che permetta di raccogliere, attraverso una profonda trasformazione del modo di fare politica del nostro Paese, la richiesta di cambiamento che sale dalla società civile”.
Una domanda, ribadirà il Presidente nel discorso del 25 aprile del 1992, confermata dai risultati delle elezioni svoltesi il 4 e il 5 aprile di quello stesso anno: Democrazia cristiana e Partito comunista, “simbolo di un tipo di società politica, sono stati fortemente penalizzati con il voto e con questo voto credo si sia voluto aprire uno spazio al rinnovamento del nostro sistema politico. Le elezioni hanno posto una forte domanda di governo, di cambiamento e di riforme”.
Da qui un’analisi spietata sulla situazione del Paese, che a distanza di 25 anni appare premonitrice e rimane purtroppo particolarmente attuale, con “gravi ed importanti problemi da affrontare e da risolvere: i nostri appuntamenti con l’Europa, perché Maastricht non è soltanto il nome di una bella cittadina dei Paesi Bassi, non è solo il nome di un Trattato, Maastricht non è qualcosa che noi abbiamo raggiunto, un risultato che noi abbiamo conseguito, è un obiettivo che dobbiamo guadagnare e che non è facile guadagnare, non un esame superato, un esame solo rimandato e che ci sarà fatto secondo prove sicure e prove difficili”.

Cossiga elenca poi la necessità di “evitare il disastro della finanza pubblica, la tutela del risparmio, anche nelle forme del debito pubblico che sono la ricchezza, certo anche delle banche, ma sono soprattutto la ricchezza dei poveri, dei piccoli, di voi che avete fiducia nello Stato e poco sapete di azioni e di obbligazioni. Il rilancio della produzione interna e sui mercati internazionali, difendere l’occupazione, promuoverla, il risanamento dei servizi pubblici, la guerra dura ma intransigente alla criminalità organizzata, con la vittoria definitiva, perché il diritto sconfigga la mala società”.
Questioni che rendono “necessario e urgente risolvere la crisi di governo, chiamare i partiti alla loro responsabilità, promuovere la formazione di un governo che impegni il Parlamento sulle cose serie”. Esigenze che si scontrano, denuncia Cossiga, con “chiare resistenze a cambiare, tentazioni forti di conservazione, incertezze gravi nelle forze politiche, incognite sulla probabilità di formare in Parlamento maggioranze vere, omogenee, responsabili, soprattutto se le se ricerchi con i vecchi sistemi: con le armate Brancaleone si possono anche eleggere oneste persone, persone capaci, persone per bene, ma non si governa il Paese e soprattutto non si può cambiare”.
Ma c’è soprattutto una contingenza istituzionale che preoccupa il Capo dello Stato: “per promuovere la formazione di un governo nuovo e forte -spiega- occorre un Presidente forte, occorre un Presidente forte politicamente e forte istituzionalmente. Ed allora io non è che abbia il diritto, ho il dovere di pormi davanti a voi, e pongo alla mia coscienza, se voglio essere fedele al giuramento che ho prestato sette anni fa, un interrogativo: posso essere io questo Presidente?”.
“Il mio mandato scade il 3 luglio, dal 3 giugno il presidente della Camera può convocare il Parlamento in seduta comune per l’elezione del mio successore, dal 3 giugno o almeno dal giorno in cui il presidente della Camera convocherà il Parlamento, un elementare dovere di correttezza mi imporrebbe di astenermi da ogni attività di rilievo politico e istituzionale”.
Quindi, sottolinea Cossiga, “io non sono un Presidente forte” e “ho un dovere, quello di permettere che venga qui un Presidente forte, che sia almeno forte perché eletto dal nuovo Parlamento. E quindi la mia scelta dovrebbe essere quella per le mie dimissioni anticipate e per permettere al nuovo Parlamento di dare al Paese un Presidente che forte per la sua elezione e per l’ampiezza temporale e di contenuti del suo mandato, possa affrontare questa grave crisi politica e istituzionale e promuovere la formazione di quel governo che voi con il vostro voto avete voluto”.
“Allora -l’annuncio di Cossiga- ho preso la decisione di dimettermi da Presidente della Repubblica. C’è chi approverà il mio gesto, c’è chi questo gesto non approverà. Spero che tutti lo consideriate un gesto onesto, di servizio alla Repubblica”. L’addio al Quirinale, “per assicurare un ordinato trapasso di poteri” avverrà formalmente il 28 aprile successivo con la firma dell’’atto di dimissioni”.
Dal Capo dello Stato arriva un ultimo accorato appello: “questo è un Paese che non sarà una grande potenza politica, che non sarà una grande potenza militare, forse questa è una benedizione di Dio, ma che è un Paese di grande cultura, di grande storia, è un Paese di immense energie morali, civili, religiose e materiali. Si tratta di saperle mettere assieme e si tratta di fondare delle istituzioni che facciano sì che lo sforzo di ognuno vada a vantaggio di tutti. Che Dio protegga l’Italia, viva l’Italia, viva la Repubblica”.

Queste le parole di commiato di Cossiga. Ma cosa avvenne prima?
Nel 1985 divenne l’ottavo presidente della Repubblica Italiana, succedendo a Sandro Pertini. Per la prima volta nella storia repubblicana, l’elezione avvenne al primo scrutinio, con una larga maggioranza (752 su 977 votanti) Cossiga ricevette il consenso oltre che della DC anche di PSI, PCI, PRI, PLI, PSDI e Sinistra Indipendente. A 57 anni, Cossiga è stato il più giovane presidente della Repubblica Italiana.
La presidenza Cossiga fu sostanzialmente distinta in due fasi riferite agli atteggiamenti assunti dal capo dello Stato. Nei primi cinque anni Cossiga svolse il suo ruolo in maniera tradizionale, preoccupandosi di esercitare la funzione di perno delle istituzioni repubblicane previsto dalla Costituzione, che fa del presidente della Repubblica una sorta di arbitro nei rapporti tra i poteri dello Stato. Ebbe modo anche di stimolare una migliore comprensione e configurazione di alcune funzioni presidenziali suscettibili di ambiguità interpretative, come il ruolo del Capo dello Stato nel caso di conferimento dei poteri di guerra al Governo (da cui derivò la nomina della Commissione Paladin) e il potere di scioglimento delle Camere nel caso in cui il cosiddetto «semestre bianco», cioè quello conclusivo del mandato, coincida con la fine della legislatura, questione che indusse il Parlamento ad apportare un’apposita modifica all’articolo 88 comma II della Costituzione.
La caduta del Muro di Berlino segnò l’inizio della seconda fase. Secondo Cossiga la fine della guerra fredda e della contrapposizione dei due blocchi avrebbe determinato un profondo mutamento del sistema politico italiano che nasceva da quella contrapposizione ed era a quella funzionale. La DC e il PCI avrebbero dunque subito gravi conseguenze da questo mutamento, ma Cossiga sosteneva che i partiti politici e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Iniziò quindi una fase di conflitto e di polemica politica al solo scopo di dare delle «picconate a questo sistema». Risale a quest’epoca l’abbandono, da parte sua, di uno dei più antichi tabù della politica democristiana, cioè quello che esorcizzava l’esistenza di illeciti: conformemente alla formazione tavianea ma anche a quella che per Antonio Maccanico era una sua «fanciullesca» mania “della segretezza, dello spionaggio, delle bandiere e militaria”. Per converso, la caduta del Muro di Berlino – da lui percepita come svolta epocale prima di molti altri politici italiani (in merito a questo Luciano Violante disse che «nessuno lo seguì e i partiti crollarono, come aveva previsto») tanto da essere stato l’unico politico romano a presenziare alla prima seduta del Bundestag dopo la riunificazione nel 1990 – fu per lui la vera giustificazione della riduzione dei margini di tolleranza dell’alleato nordamericano verso la classe politica italiana della Prima Repubblica: si tratta di una tolleranza che lui percepì scemare quando la CIA interferì pesantemente (e infruttuosamente) nelle vicende politiche delle massime istituzioni italiane, nel 1989, tentando di impedire l’ascesa di Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, probabilmente a causa della sua politica filoaraba. Gli ultimi anni della presidenza furono caratterizzati – oltre che dal massimo atto formale consentitogli dalla Costituzione, il messaggio alle Camere, inviato il 26 giugno 1991 e giudicato “il documento più coerente del suo pensiero”- da una serie di esternazioni sarcastiche e volutamente provocatorie nei confronti di alcune personalità politiche: definì Ciriaco De Mita «bugiardo, gradasso, il solito boss di provincia» Nicola Mancino uno che «se sta al mare fa un gran bene al Paese»; Paolo Cirino Pomicino «un analfabeta»; Michele Zolla «un analfabeta di ritorno» Antonio Gava un personaggio su cui «non infierirò mai chiamandolo camorrista o amico di camorristi come per anni hanno fatto i comunisti» Leoluca Orlando «un povero ragazzo, uno sbandato, che danneggia l’unità della lotta alla mafia, mal consigliato da un prete fanatico che crede di vivere nel Paraguay del ‘600» (il prete fanatico era il gesuita Ennio Pintacuda; Achille Occhetto «uno zombie con i baffi»; Stefano Rodotà un «piccolo arrampicatore sociale, uomo senza radici, parvenu della politica» Luciano Violante «un piccolo Viscinski»; Giorgio La Malfa «figlio impudente e imprudente d’un galantuomo»; Claudio Martelli «un ragazzino»; Enrico Dalfino (sindaco di Bari) un «irresponsabile e cretino»
Tentando di smuovere un sistema che percepiva bloccato, abbandonò ogni formalismo, come in occasione del tradizionale discorso di fine anno del dicembre 1991, da lui quasi disertato, che fu il più breve della storia della Repubblica: «Parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione. E questo proprio ormai alla fine del mio mandato che appunto va a scadere il prossimo 3 luglio 1992. Questo comportamento mi farebbe violare il comandamento che mi sono dato, per esempio di un grande Santo e uomo di stato, e al quale ho cercato di rimanere umilmente fedele: privilegiare sempre la propria retta coscienza, essere buon servitore della legge, e anche quindi della tradizione, ma soprattutto di Dio, cioè della verità. E allora mi sembra meglio tacere.» (Francesco Cossiga, dal discorso di fine anno del 31 dicembre 1991. Denunciava inoltre un’eccessiva politicizzazione della magistratura, e stigmatizzava il fatto che giovani magistrati, appena entrati in servizio, fossero da subito destinati alle procure siciliane per svolgere processi di mafia: «Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa come può essere un’indagine sulla mafia o sul traffico della droga. Questa è un’autentica sciocchezza»,
Qualche commentatore ritenne che quella frase si riferisse a Rosario Livatino, magistrato vittima della mafia, ma anni dopo, con una lettera ai genitori del giudice, Cossiga smentì quest’interpretazione.
Per il suo mutato atteggiamento, Cossiga ricevette varie critiche e prese di distanza da parte di quasi tutti i partiti, a eccezione del MSI che si schierò a favore delle «picconate». Egli tra l’altro sarà ritenuto uno dei primi «sdoganatori» del MSI, al quale rivolse le scuse a nome dello Stato italiano per le accuse che erano state espresse nei suoi confronti all’indomani della strage di Bologna nel 1980.


Molte critiche furono da lui espresse, anche in anni seguenti in cui mantenne lo stile del «picconatore», contro il comportamento del pool di Mani pulite, in particolare contro Antonio Di Pietro che precedentemente aveva elogiato. Non solo singoli giudici, ma anche la magistratura nel suo insieme venne attaccata da Cossiga affermando nel 2008 che «i primi mafiosi stanno al Csm» e che «sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la Dna e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al ministero della Giustizia».
Le asserite responsabilità di Cossiga nei confronti di Gladio furono confermate dal medesimo interessato che, ancora presidente, ammise con fierezza, in un’esternazione a Edimburgo nel 1990, la parte avuta nella sua messa a punto, in quanto sottosegretario al Ministero della Difesa tra il 1966 e il 1969 e si autodenunciò con un documento inviato alla Procura di Roma, in seguito alla denuncia dell’ammiraglio Martini e del generale Inzerilli come responsabili di Gladio. Nel documento dichiarò: «Rivendico in pieno la tutela di quarant’anni di politica della Difesa e della sicurezza per la salvaguardia dell’integrità nazionale, dell’indipendenza e della sovranità territoriale del nostro Paese nonché della libertà delle sue istituzioni, anche al fine di rendere giustizia a coloro che agli ordini del governo legittimo hanno operato per la difesa della Patria.». Cossiga ascrisse inoltre alla sua grafia gli omissis con cui fu censurato al Ministero della Difesa (all’epoca del suo sottosegretariato, negli anni sessanta) il rapporto Manes con cui si descrivevano le attività paragolpiste del piano Solo.
Nei mesi successivi si scatenarono continue polemiche: Achille Occhetto (segretario comunista) tuonò contro la «democrazia limitata» che sarebbe esistita in Italia durante il dopoguerra e contro l’«eversione atlantica», a suo dire ben più pericolosa dell’Armata Rossa e della Gladio rossa, mentre lo stesso Cossiga minacciò di autosospendersi purché lo facesse anche Andreotti. Successivamente Casson trasmise il fascicolo sull’organizzazione, per ragioni di competenza territoriale, alla Procura di Roma, la quale dichiarò che la struttura Stay-behind non aveva nulla di penalmente rilevante.
Vi sono state differenti valutazioni politiche sul suo coinvolgimento nella vicenda di Gladio. Mentre Cossiga ha dichiarato che sarebbe giusto riconoscere il valore storico dei «gladiatori» così come era avvenuto per i partigiani, il presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino ebbe a scrivere: «Se in sede giudiziaria un’illiceità penale della rete clandestina in sé considerata è stata motivatamente e fondatamente negata, non sono state affatto escluse possibili distorsioni dalle finalità istituzionali dichiarate della struttura, che ben possono essere andate al di là della sua già evidenziata utilizzazione a fini informativi…».

Il 6 dicembre 1991 fu presentata in parlamento da parte dell’allora minoranza la richiesta di messa in stato di accusa per Francesco Cossiga, con diversi capi d’accusa. Il comitato parlamentare ritenne tutte le accuse manifestamente infondate (tra cui venne aggiunta quella di aver abusato della propria carica quando propose unilateralmente la grazia per il fondatore delle BR Renato Curcio), come si legge negli atti parlamentari del 12 maggio 1993.
La Procura di Roma richiese l’archiviazione a favore di Cossiga il 3 febbraio 1992 e l’8 luglio 1994 la richiesta fu accolta dal Tribunale dei ministri.

Dopo le dimissioni di Cossiga, il PDS fece tranquillamente sapere che, se anche quelle accuse fossero state provate, non era più il caso di occuparsene dal momento che Cossiga non era più presidente della Repubblica, essendosi esaurito il suo settennato.

A seguito delle elezioni del 5 aprile, prendendo atto della sconfitta del sistema consociativo fondato sul pentapartito che pure egli aveva sostenuto al fine di «combattere il degrado economico e il terrorismo», deciso a dare un colpo all’immobilismo e alla debolezza dei governi sottoposti alle «estenuanti liturgie e alchimie partitiche», Cossiga si dimise dalla presidenza della Repubblica il 28 aprile 1992, a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, annunciando le sue dimissioni con un discorso televisivo che tenne simbolicamente il 25 aprile, alla fine del quale giunse a commuoversi.




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