Personaggi – Elisabetta D’Ungheria

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Elisabetta d’Ungheria – La figura di Santa Elisabetta, patrona dell’OFS la cui festa ricorre il 17 novembre, nonostante i secoli che ci separano da lei, conserva intatti fascino, carisma e valore. Oggi siamo in grado di accedere ad una conoscenza migliore, più corretta e completa, di questa donna giovane e santa, lontana da noi nel tempo, ma vicinissima nello spirito.
Su Elisabetta possediamo un gran numero di riferimenti biografici. Solo nel duecento, tra vite, lettere, bolle papali, prediche e inni, se ne contano non meno di sessanta.
Un ruolo particolare rivestono però le due fonti biografiche primitive, composte subito dopo la sua morte.
Una è la lettera che Corrado di Marburgo, suo burbero e severo direttore spirituale dal 1226, ha inviato a Papa Gregorio IX per informarlo della levatura spirituale raggiunta da Elisabetta: è chiamata Summa vitae. L’altra è la raccolta delle testimonianze depositate durante il processo di beatificazione dalle quattro “ancelle” o domestiche che, in tempi diversi e a coppie, si sono trovate al servizio e quindi in contatto diretto e familiare con la santa: sono i Dicta quatuor ancillarum.
Quale Elisabetta traspare da queste fonti di primissima mano? La figura rugiadosa e assorta, con la corona in capo, le rose in grembo e gli occhi al cielo che ci mostrano le statue presenti nelle nostre chiese e i quadri appesi nelle sedi delle Fraternità OFS? Sembra proprio di no. Vediamo.
Figlia di Andrea II, re di Ungheria, e della regina Gertrude di Merano, Elisabetta nasce a Bratislava nel 1207. Secondo quella che era una consuetudine del tempo, a soli quattro anni viene chiesta e promessa in sposa a Ludovico IV, figlio con diritto di successione del «langravio» (principe con poteri di sovrano) di una delle più importanti contee di Germania, la Turingia. Ancor bambina è condotta alla Wartburg, il castello che sovrasta la città di Eisenach e che è una delle residenze principesche più prestigiose e culturalmente vivaci dell’intera Germania, per esservi educata dalla famiglia del futuro sposo. Il matrimonio viene celebrato nel 1221.
Elisabetta, che ha solo quattordici anni e manifesta già una sensibilità spirituale d’eccezione che la spinge verso Cristo con l’ amore appassionato della sposa, nutre anche per il marito un amore tenero e profondo, che viene da lui cordialmente ricambiato. Lo segue nelle numerose visite per il contado e si mostra trepidante e sollecita del bene del suo popolo. Dalla testimonianza di una delle domestiche, Isentrude, veniamo a sapere che quando Ludovico si assentava per qualche tempo dal castello, Elisabetta era solita darsi ad una preghiera più intensa, a veglie e penitenze e vestiva poveramente; ma quando sapeva che il marito stava per ritornare, si acconciava di nuovo con l’eleganza della sovrana, spesso gli andava incontro a cavallo e quando lo raggiungeva “gli dava mille baci con la bocca e con il cuore”. E diceva alle ancelle: “Non per superbia della carne, ma per amore di Dio voglio ornarmi con proprietà, anzi con eleganza… perché il mio sposo ami me sola nel Signore, di quell’affetto sponsale… che egli santificò con la legge del matrimonio, perché possiamo giungere insieme al premio della vita eterna».
Da Ludovico ha tre figli, ai quali si dedica con amore, senza tuttavia trascurare il bene del suo popolo. Già da sovrana, coglie tutte le occasioni che le si offrono per condividere e sollevare la condizione dei più umili e bisognosi: tra di loro desidera stare durante i riti religiosi, come loro quando può indossa povere vesti, per loro fila la lana con le sue ancelle e confeziona indumenti. È un sentimento di misericordia e comprensione per tutti i sofferenti che, come osserva il Manselli, sembra nascere non solo da una religiosità profonda, ma anche da una delicatezza di sentimento che è uno degli aspetti più significativi di questa santa, unica nel suo genere.
Il tratto più significativo di questa santità principesca sembra essere proprio il senso della maternità.
Quando visita case in cui abitano molti bambini, li tratta con tanto affetto e familiarità che questi le corrono incontro chiamandola “mamma”, le salgono in braccio, ed ella li stringe a sé, ne accarezza la testa (“anche di quelli sporchi, deformi e scabbiosi”, dicono sempre le ancelle), e porta loro giocattoli, anellini di vetro e pentoline.
Un giorno, volendo sfamare un povero che desiderava del latte, si mise lei stessa a mungere una mucca, che però, “insolenter se habens”, le diede un gran calcio.
Elisabetta sente pure profondo il dovere e l’importanza del lavoro nella vita umana (“l’elemosina fa sopravvivere; solo il lavoro fa vivere con dignità”, diranno i teologi francescani della fine del ‘200 e i grandi predicatori del ‘400, che dal 1463 daranno vita ai Monti di Pietà): lei stessa lo pratica regolarmente e fa in modo che chi è in grado di lavorare possa farlo. Così, al tempo della mietitura fornisce a molti gli strumenti necessari e li mette in condizione di esercitare la loro attività con il minor disagio possibile.
Nel 1226, durante una lunga assenza del marito recatosi a Cremona e a Ravenna al fine di organizzare la crociata indetta da Onorio III, su tutta la Turingia si abbatte una grande carestia. In questa circostanza Elisabetta si avvale della sua autorità di sovrana per disporre una vera e propria “distribuzione razionata” di viveri in favore dei poveri, che fa attuare giornalmente attingendo anche dai depositi di riserve speciali da usarsi solo per eventi straordinari. Sono comportamenti che suscitano forti reazioni di dissenso alla corte e tra i nobili in genere e che, uniti al suo abituale modo di fare semplice ed umile e alla sua nota riluttanza a far uso di alimenti che siano stati procurati con la violenza o acquistati iniquamente, la rendono via via sempre più invisa alla famiglia reale.
Il 12 settembre del 1227 Ludovico, che è in partenza per la crociata al seguito dell’imperatore Federico II, muore improvvisamente nel porto di Otranto. Quando apprende la terribile notizia, Elisabetta vive un momento di sconforto nel quale dà drammaticamente sfogo a tutto il suo dolore di giovane sposa privata del suo amore umano più grande.
Già da tempo considerata eccessivamente prodiga e mal vista per il suo stile di vita così poco “regale”, nel giro di pochi mesi ella si trova vittima di una incruenta ma spietata congiura di corte. Ha solo 20 anni e tre bambini piccoli quando, espropriata di tutti i suoi beni, decide di lasciare la reggia ove non le si consente più di vivere seguendo la propria coscienza.
Nell’inverno tra il 1227 e il 1228 si trova già errabonda e senza tetto. Bussa allora una notte al convento francescano di Eisenach mentre i frati stanno recitando l’Ufficio, e chiede che le cantino un Te Deum di ringraziamento per essere stata considerata degna di partecipare alla povertà e alle sofferenze del Cristo redentore (abbiamo qui una geniale intuizione della sofferenza come speciale “vocazione” a condividere il Mistero Pasquale del Signore).
Quelli che seguono sono mesi di miseria e di fame che la vedono interprete altissima della “perfetta letizia” francescana, mentre va mendicando un po’ di pane per le strade della città di cui è pur sempre sovrana. Il ritorno dei crociati in Turingia con le spoglie del marito e il vigoroso intervento in sua difesa di Gregorio IX le consentono di rientrare nei suoi pieni diritti di sovrana. È questo il momento che Elisabetta sceglie per realizzare il suo desiderio di una sequela radicale del Signore povero e crocefisso: dopo aver garantito al figlio primogenito il diritto alla corona non appena abbia raggiunto la maggiore età, veste l’abito grigio della Penitenza e rinuncia legalmente ad ogni suo diritto e proprietà. L’ultima sua decisione di langravia è la costruzione di un ospedale per i poveri a Marburgo, nel quale vuole una cappella dedicata a San Francesco, canonizzato da poche settimane. In quell’ospedale continuerà ad assistere quotidianamente poveri e ammalati: prepara loro il cibo con le proprie mani, li imbocca, li lava, li veste, li cura[4]; sulla scia di Francesco, si fa carico amorevolmente anche dei lebbrosi, fino a che, estenuata dalle fatiche, nel novembre del 1231 si spegne a soli 24 anni. “Prima che spirasse – scrive Corrado di Marburgo – ne ascoltai la confessione e le domandai che cosa si dovesse fare dei suoi beni e delle suppellettili. Mi rispose che quanto sembrava sua proprietà era tutto dei poveri, e mi pregò di distribuire loro ogni cosa, eccetto la tunica di nessun valore della quale era rivestita e con la quale volle essere sepolta. Fatto questo, ricevette il corpo del Signore”.
Elisabetta d’Ungheria nel breve arco di tempo della sua vita terrena, 24 anni, realizzò mirabilmente i disegni di Dio prima come principessa, poi come moglie, madre e vedova, insegnando a se stessa e trasmettendo alle generazioni seguenti l’incomparabile valore della rinuncia a se stessi e della carità al servizio di Dio. Sotto la tutela della madre di Ludwig, Sophia, Elisabetta e le sue compagne studiarono tedesco, francese, latino, la storia del reame, musica, letteratura e ricamo. Di capitale importanza, comunque, era l’addestramento dettagliato sul come essere “una futura regina”. Amava ripetere: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re, Gesù Cristo, coronato con delle spine?”. Era il ritratto perfetto della Carità Cristiana, ed usò i molti mezzi a sua disposizione per pagare debiti, comprare cibo e vestiti e per pulire, prendersi cura e seppellire i morti. La sua carità sfidò l’intero sistema feudale. Sicuramente le azioni di Elisabetta non accrebbero la sua popolarità a corte. Le Sue donazioni di pane ai bisognosi, ed il grande quantitativo di grano che regalò alla Germania colpita dalla carestia, fecero di Lei la patrona dei panettieri. È anche la santa patrona degli ospedali, case di cura e servizi infermieristici.
Corrado di Marburgo (presbitero, inquisitore e teologo tedesco) scrisse ancora di lei: “… Elisabetta conobbe ed amò Cristo nei poveri. Incominciò presto a distinguersi in virtù e santità di vita. Ella aveva sempre consolato i poveri, ma da quando fece costruire un ospedale presso un suo castello, e vi raccolse malati di ogni genere, da allora si dedicò interamente alla cura dei bisognosi. Distribuiva con larghezza i doni della sua beneficenza non solo a coloro che ne facevano domanda presso il suo ospedale, ma in tutti i territori dipendenti da suo marito. Arrivò al punto da erogare in beneficenza i proventi dei quattro principati di suo marito e da vendere oggetti di valore e vesti preziose per distribuirne il prezzo ai poveri. Aveva preso l’abitudine di visitare tutti i suoi malati personalmente, due volte al giorno, al mattino e alla sera. Si prese cura diretta dei più ripugnanti. Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre in ogni attività di bene, senza mettersi tuttavia per questo in contrasto con suo marito. Dopo la morte di lui, tendendo alla più alta perfezione, mi domandò con molte lacrime che le permettessi di chiedere l’elemosina di porta in porta.” Elisabetta viene anche rappresentata come una donna che indossa una corona e porta un fascio di rose nel mantello poiché una volta, mentre portava cibo ai poveri e agli ammalati, suo marito la fermò e guardò sotto il suo mantello, ma trovò solo rose, e non cibo.
Prima di morire Elisabetta pronunciò queste parole: “A quest’ora la Vergine Maria diede al mondo il suo Redentore. Parliamo di Dio e del piccolo Gesù, poiché ora è mezzanotte, l’ora in cui Gesù nacque e stette in una mangiatoia, e così creò una nuova stella che non era mai stata vista prima; a quest’ora lui giunse per redimere il mondo; redimerà anche me; a quest’ora uscì dalla morte, e salvò le anime imprigionate; libererà anche la mia da questo mondo miserabile.” Dopo una pausa riprese: “O Maria, assistimi! Il momento è arrivato quando Dio convoca il Suo amico alla festa nuziale. Lo Sposo cerca la sua sposa… Silenzio!… Silenzio!”.
La vita di Santa Elisabetta d’Ungheria è stata un esempio di perfetta conformità alla volontà di Dio e di fedeltà alla propria posizione nella vita. Fu circondata da ricchi, eppure non si lasciò mai distrarre dall’amore verso i poveri. Era profondamente innamorata di un uomo che la ricambiava, eppure non ha mai messo Dio al secondo posto nel suo cuore. Aveva tutto e non sentiva bisogno di nulla; ciò che riceveva lo regalava. Non fu mai amareggiata quando la fortuna le si voltò contro. Accettò il dolore della morte del marito in maniera realmente cristiana, ed accolse la propria con la medesima rassegnazione.La sua storia non è una leggenda, ma si pone come una lezione affinché tutti possiamo imitarla. Sia che tu viva in un castello o in un appartamento, S. Elisabetta d’Ungheria ti invita a seguire i suoi passi verso il trono di Dio, accettando la Sua volontà nella tua vita.
Mercoledì 20 Ottobre 2020 l’allora Papa Benedetto XVI le dedicò l’udienza generale con parole di grande amnmirazione: “oggi vorrei parlarvi di una delle donne del Medioevo che ha suscitato maggiore ammirazione; si tratta di santa Elisabetta d’Ungheria, chiamata anche Elisabetta di Turingia. Nacque nel 1207; gli storici discutono sul luogo. Suo padre era Andrea II, ricco e potente re di Ungheria, il quale, per rafforzare i legami politici, aveva sposato la contessa tedesca Gertrude di Andechs-Merania, sorella di santa Edvige, la quale era moglie del duca di Slesia. Elisabetta visse nella Corte ungherese solo i primi quattro anni della sua infanzia, assieme a una sorella e tre fratelli. Amava il gioco, la musica e la danza; recitava con fedeltà le sue preghiere e mostrava già particolare attenzione verso i poveri, che aiutava con una buona parola o con un gesto affettuoso.
La sua fanciullezza felice fu bruscamente interrotta quando, dalla lontana Turingia, giunsero dei cavalieri per portarla nella sua nuova sede in Germania centrale. Secondo i costumi di quel tempo, infatti, suo padre aveva stabilito che Elisabetta diventasse principessa di Turingia. Il langravio o conte di quella regione era uno dei sovrani più ricchi ed influenti d’Europa all’inizio del XIII secolo, e il suo castello era centro di magnificenza e di cultura. Ma dietro le feste e l’apparente gloria si nascondevano le ambizioni dei principi feudali, spesso in guerra tra di loro e in conflitto con le autorità reali ed imperiali. In questo contesto, il langravio Hermann accolse ben volentieri il fidanzamento tra suo figlio Ludovico e la principessa ungherese. Elisabetta partì dalla sua patria con una ricca dote e un grande seguito, comprese le sue ancelle personali, due delle quali le rimarranno amiche fedeli fino alla fine. Sono loro che ci hanno lasciato preziose informazioni sull’infanzia e sulla vita della Santa.
Dopo un lungo viaggio giunsero ad Eisenach, per salire poi alla fortezza di Wartburg, il massiccio castello sopra la città. Qui si celebrò il fidanzamento tra Ludovico ed Elisabetta. Negli anni successivi, mentre Ludovico imparava il mestiere di cavaliere, Elisabetta e le sue compagne studiavano tedesco, francese, latino, musica, letteratura e ricamo. Nonostante il fatto che il fidanzamento fosse stato deciso per motivi politici, tra i due giovani nacque un amore sincero, animato dalla fede e dal desiderio di compiere la volontà di Dio. All’età di 18 anni, Ludovico, dopo la morte del padre, iniziò a regnare sulla Turingia. Elisabetta divenne però oggetto di sommesse critiche, perché il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla vita di corte. Così anche la celebrazione del matrimonio non fu sfarzosa e le spese per il banchetto furono in parte devolute ai poveri. Nella sua profonda sensibilità Elisabetta vedeva le contraddizioni tra la fede professata e la pratica cristiana. Non sopportava i compromessi. Una volta, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona, la depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto. Quando la suocera la rimproverò per quel gesto, ella rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”. Come si comportava davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi. Tra i Detti delle quattro ancelle troviamo questa testimonianza: “Non consumava cibi se prima non era sicura che provenissero dalle proprietà e dai legittimi beni del marito. Mentre si asteneva dai beni procurati illecitamente, si adoperava anche per dare risarcimento a coloro che avevano subito violenza” (nn. 25 e 37). Un vero esempio per tutti coloro che ricoprono ruoli di guida: l’esercizio dell’autorità, ad ogni livello, dev’essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune.
Elisabetta praticava assiduamente le opere di misericordia: dava da bere e da mangiare a chi bussava alla sua porta, procurava vestiti, pagava i debiti, si prendeva cura degli infermi e seppelliva i morti. Scendendo dal suo castello, si recava spesso con le sue ancelle nelle case dei poveri, portando pane, carne, farina e altri alimenti. Consegnava i cibi personalmente e controllava con attenzione gli abiti e i giacigli dei poveri. Questo comportamento fu riferito al marito, il quale non solo non ne fu dispiaciuto, ma rispose agli accusatori: “Fin quando non mi vende il castello, ne sono contento!”. In questo contesto si colloca il miracolo del pane trasformato in rose: mentre Elisabetta andava per la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri, incontrò il marito che le chiese cosa stesse portando. Lei aprì il grembiule e, invece del pane, comparvero magnifiche rose. Questo simbolo di carità è presente molte volte nelle raffigurazioni di santa Elisabetta.
Il suo fu un matrimonio profondamente felice: Elisabetta aiutava il coniuge ad elevare le sue qualità umane a livello soprannaturale, ed egli, in cambio, proteggeva la moglie nella sua generosità verso i poveri e nelle sue pratiche religiose. Sempre più ammirato per la grande fede della sposa, Ludovico, riferendosi alla sua attenzione verso i poveri, le disse: “Cara Elisabetta, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura”. Una chiara testimonianza di come la fede e l’amore verso Dio e verso il prossimo rafforzino la vita familiare e rendano ancora più profonda l’unione matrimoniale.
La giovane coppia trovò appoggio spirituale nei Frati Minori, che, dal 1222, si diffusero in Turingia. Tra di essi Elisabetta scelse frate Ruggero (Rüdiger) come direttore spirituale. Quando egli le raccontò la vicenda della conversione del giovane e ricco mercante Francesco d’Assisi, Elisabetta si entusiasmò ulteriormente nel suo cammino di vita cristiana. Da quel momento, fu ancora più decisa nel seguire Cristo povero e crocifisso, presente nei poveri. Anche quando nacque il primo figlio, seguito poi da altri due, la nostra Santa non tralasciò mai le sue opere di carità. Aiutò inoltre i Frati Minori a costruire ad Halberstadt un convento, di cui frate Ruggero divenne il superiore. La direzione spirituale di Elisabetta passò, così, a Corrado di Marburgo.
Una dura prova fu l’addio al marito, a fine giugno del 1227 quando Ludovico IV si associò alla crociata dell’imperatore Federico II, ricordando alla sposa che quella era una tradizione per i sovrani di Turingia. Elisabetta rispose: “Non ti tratterrò. Ho dato tutta me stessa a Dio ed ora devo dare anche te”. La febbre, però, decimò le truppe e Ludovico stesso cadde malato e morì ad Otranto, prima di imbarcarsi, nel settembre 1227, all’età di ventisette anni. Elisabetta, appresa la notizia, ne fu così addolorata che si ritirò in solitudine, ma poi, fortificata dalla preghiera e consolata dalla speranza di rivederlo in Cielo, ricominciò ad interessarsi degli affari del regno. La attendeva, tuttavia, un’altra prova: suo cognato usurpò il governo della Turingia, dichiarandosi vero erede di Ludovico e accusando Elisabetta di essere una pia donna incompetente nel governare. La giovane vedova, con i tre figli, fu cacciata dal castello di Wartburg e si mise alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi. Solo due delle sue ancelle le rimasero vicino, la accompagnarono e affidarono i tre bambini alle cure degli amici di Ludovico. Peregrinando per i villaggi, Elisabetta lavorava dove veniva accolta, assisteva i malati, filava e cuciva. Durante questo calvario sopportato con grande fede, con pazienza e dedizione a Dio, alcuni parenti, che le erano rimasti fedeli e consideravano illegittimo il governo del cognato, riabilitarono il suo nome. Così Elisabetta, all’inizio del 1228, poté ricevere un reddito appropriato per ritirarsi nel castello di famiglia a Marburgo, dove abitava anche il suo direttore spirituale Corrado. Fu lui a riferire al Papa Gregorio IX il seguente fatto: “Il venerdì santo del 1228, poste le mani sull’altare nella cappella della sua città Eisenach, dove aveva accolto i Frati Minori, alla presenza di alcuni frati e familiari, Elisabetta rinunziò alla propria volontà e a tutte le vanità del mondo. Ella voleva rinunziare anche a tutti i possedimenti, ma io la dissuasi per amore dei poveri. Poco dopo costruì un ospedale, raccolse malati e invalidi e servì alla propria mensa i più miserabili e i più derelitti. Avendola io rimproverata su queste cose, Elisabetta rispose che dai poveri riceveva una speciale grazia ed umiltà” (Epistula magistri Conradi, 14-17). Possiamo scorgere in quest’affermazione una certa esperienza mistica simile a quella vissuta da san Francesco: il Poverello di Assisi dichiarò, infatti, nel suo testamento, che, servendo i lebbrosi, quello che prima gli era amaro fu tramutato in dolcezza dell’anima e del corpo (Testamentum, 1-3). Elisabetta trascorse gli ultimi tre anni nell’ospedale da lei fondato, servendo i malati, vegliando con i moribondi. Cercava sempre di svolgere i servizi più umili e lavori ripugnanti. Ella divenne quella che potremmo chiamare una donna consacrata in mezzo al mondo (soror in saeculo) e formò, con altre sue amiche, vestite in abiti grigi, una comunità religiosa. Non a caso è patrona del Terzo Ordine Regolare di San Francesco e dell’Ordine Francescano Secolare. Nel novembre del 1231 fu colpita da forti febbri. Quando la notizia della sua malattia si propagò, moltissima gente accorse a vederla. Dopo una decina di giorni, chiese che le porte fossero chiuse, per rimanere da sola con Dio. Nella notte del 17 novembre si addormentò dolcemente nel Signore. Le testimonianze sulla sua santità furono tante e tali che, solo quattro anni più tardi, il Papa Gregorio IX la proclamò Santa e, nello stesso anno, fu consacrata la bella chiesa costruita in suo onore a Marburgo.
Cari fratelli e sorelle, nella figura di santa Elisabetta vediamo come la fede, l’amicizia con Cristo creino il senso della giustizia, dell’uguaglianza di tutti, dei diritti degli altri e creino l’amore, la carità. E da questa carità nasce anche la speranza, la certezza che siamo amati da Cristo e che l’amore di Cristo ci aspetta e così ci rende capaci di imitare Cristo e di vedere Cristo negli altri.
Santa Elisabetta ci invita a riscoprire Cristo, ad amarLo, ad avere la fede e così trovare la vera giustizia e l’amore, come pure la gioia che un giorno saremo immersi nell’amore divino, nella gioia dell’eternità con Dio. Grazie”




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