Dobbiamo morire da moderati, ci viene spesso ripetuto da più parti. Secondo questa visione delle cose l’ideale del cristiano in politica coincide col moderatismo, in una versione giusto più spirituale dell’honnête homme: il galantuomo, l’uomo dalla coscienza pulita, in doppio petto, l’individuo presentabile nella società delle buone maniere.
Eppure un cristiano di profonda fede come Charles Péguy si faceva beffe dell’ideale dell’honnête homme, l’uomo dei doveri e della morale, incarnazione dell’ideale stoico e kantiano più che di quello evangelico. Così lo ha descritto nel 1910: «Ha le mani pulite, ma non ha mani. E noi [con] le nostre mani callose, le nostre mani nodose, le nostre mani peccatrici, noi abbiamo talvolta le mani piene».
Péguy viveva nel tempo dell’alleanza tra la borghesia liberale e la buona borghesia cattolica. Non gli era sfuggita la natura ambigua di una tale alleanza, che rischiava di pervertire il cuore stesso del cristianesimo. Sì, perché il cristianesimo borghese, questa era l’accusa che gli muoveva Péguy, «non è più socialmente la religione degli strati più profondi, una religione popolare, la religione di tutto un popolo, temporale, eterno, una religione radicata nelle maggiori profondità, anche temporali».
Péguy rinfacciava ai clericomoderati del suo tempo di aver disatteso l’essenza della fede cattolica – in primo luogo la sua universalità come attesta la stessa parola: cattolico ossia universale – sacrificandola sull’altare di un elitarismo infecondo. Facendo lega coi liberali essi infatti avevano ridotto la religione cristiana a «una religione di borghesi, una religione di ricchi, una specie di religione superiore per le classi superiori della società, della nazione, una miserabile specie di religione distinta per persone pretese distinte». Di conseguenza, proseguiva Péguy, «la religione è diventata tutto quello che può esservi di più superficiale, di più ufficiale in un certo senso, di meno profondo, di più inconsistente; tutto quello che può esservi di più meschinamente, di più miserabilmente formale».
Sono i caratteri di sempre del moderatismo cattolico: il formalismo, il moralismo, l’elitarismo, la grettezza di spirito, una visione di stretto respiro, la morale della prudenza come ideale supremo.
Il cristianesimo borghese, o clericomoderatismo, nella sua essenza profonda è una élite senza nobiltà. È la caricatura di ogni autentica aristocrazia che è, prima di tutto, una aristocrazia dello spirito. Gli fa difetto la vera nobiltà, che è la nobiltà d’animo.
Come ha insegnato il grande José Ortega Y Gasset, l’idea della superiorità della nobiltà d’animo, dello spirito, sulla nobiltà ereditaria, di sangue, ha guidato le élites nel corso di tutta la storia europea, almeno fino a tempi non troppo lontani. Era questa il senso autentico del detto “noblesse oblige”. Per secoli – basti pensare agli incredibili atti di eroismo durante la battaglia di Lepanto – “noblesse oblige” ha significato per le élites obblighi più onerosi, lo sforzo di doversi conformare ad una regola, ad un obbligo. Essere nobile comportava il dovere di darsi una forma più elevata, in conformità col proprio stato. La differenza tra ceti stava nella qualità della persona, non certo nella quantità (ossia nel denaro) che possedevano. E ciò giustificava il dominio sociale delle aristocrazie. La tensione verso l’alto era quanto – almeno idealmente – le caratterizzava. Tensione ed esempio che trascinavano le classi inferiori nell’imitazione. Solo così la nobiltà potè suscitare l’ammirazione, anziché l’invidia, delle classi popolari. Così le virtù nobiliari attraevano per irradiazione, elevavano il popolo.
Lo spirito nobile rifugge le scorciatoie, i meschini sotterfugi, i piccoli calcoli. Insomma, disdegna tutto il campionario della politica di basso rango. Il coraggio gli è connaturale. Quando è il momento la vera élite è disposta farsi carico del “rischio d’impresa”. Un’altra caratteristica essenziale dell’animo nobile è l’idea di distanza. Non certo la distanza altezzosa rispetto al popolo. No, la distanza di ogni vera élite non è una distanza rispetto agli altri quanto una distanza rispetto a se stessi, rispetto al proprio piccolo “io”. È quella disposizione al sacrificio di sé per una causa immensamente più grande del proprio tornaconto.
Viceversa le oligarchie senza nobiltà imitano le fogge esteriori, superificiali, della nobiltà. Ma non sanno imitarne lo spirito. Perciò proclamano a parole gli ideali più alti, ma all’atto pratico non sono disposte a correre alcun rischio personale. Per dirla con le parole di Francesco chiedono spazi di potere ma non hanno il coraggio di inizare processi dal basso. Scelgono di regola la via più facile: quella di chi vuole entrare nella mischia della politica senza immischiarsi col popolo. Così anche la distanza viene pervertita e diventa separazione dal mai abbastanza disprezzato “profanum vulgus”, considerato una massa rozza da egemonizzare e plasmare.
Il torto delle pseudo éiltes clericomoderate non sta nel voler entrare nella mischia. Il loro torto consiste nel non aver veramente voglia di battersi e, al tempo stesso, nel voler contare solo sulle proprie forze per conseguire la vittoria. Per questo le oligarchie senza nobiltà idolatrano la prudenza: la virtù calcolatrice, la virtù di chi ha qualcosa da conservare (in primis la propria incolumità). Ma senza l’esposizione al rischio la prudenza decade, degenerando in quel tatticismo esasperato, cavilloso e programmatore tipico di chi sovrastima il potere delle proprie azioni.
Inoltre l’originalità del cristiano, ricorda sempre Péguy, non sta in una filantropia spinta all’eccesso quanto nell’imitazione di Cristo che, sulla croce, ha ricavato la vittoria dal fallimento e realizzato la pienezza dallo svuotamento. Ma fallimento e svuotamento di che? Per chi crede, il fallimento e lo svuotamento della propria volontà. Il cristiano è consapevole che non tutto dipende dal proprio sforzo o dalle proprie strategie, per quanto brillanti esse possano essere. Ma al tempo stesso è conscio, come Giovanna d’Arco, che «chiedere la vittoria e non aver voglia di battersi non è bello». E Péguy precisa: «‘Aiutati, che il ciel t’aiuta’. Non è solo un proverbio delle nostre parti ed una massima di La Fontaine, ma è una teologia, l’ordine di marcia, e la forma stessa del comandamento. La sola teologia che sia ortodossa».
Péguy vuol dirci, ancora una volta, che solo chi sa distanziarsi dal proprio ego può accedere alla vera nobiltà.
Una élite egocentrata si limiterà a coltivare un cristianesimo disincarnato, snob, tutto immerso nella contemplazione delle proprie delizie interiori. Uno spiritualismo anodino, senza vigore, incapace di fronteggiare energicamente il male, che maschera la propria volontà di potenza sotto la bandiera dell’ideale.
E che, per giunta, è doppiamente dannoso dato che si scaglia contro la vera nobiltà d’animo.
Per la mollezza del “moderato”, infatti, ogni presa di posizione energica è uno scandalo perché non c’è nulla che più disturbi la sua cattiva coscienza, nulla che più metta sotto accusa, per il solo fatto di esistere, la sua inerzia accidiosa. Da qui l’odio viscerale per coloro che, pur non essendo santi, spendono generosamente la propria vita al servizio di una causa giusta.
In un libro sulle crociate di qualche anno fa il sociologo Rodney Stark si dilungava sulle figure dei “crociati penitenti”. Erano, costoro, uomini violenti, dall’animo impetuoso, resisi colpevoli di atrocità inenarrabili come poteva essere lo sterminio della propria famiglia. Ma talora capitava che questi uomini scellerati e apparentemente irredimibili maturassero, una volta convertiti a Cristo, una coscienza così viva del proprio peccato da voler riparare in maniera eclatante al male orribile che avevano commesso. Si lanciavano così in pellegrinaggi solitari, folli a viste umane. La loro meta era generalmente la Terra Santa. Basti solo ricordare che allora un pellegrinaggio in solitaria equivaleva a esporsi a pericoli elevatissimi. Come minimo si rischiava di finire massacrati da qualche banda di briganti.
I “crociati penitenti” erano uomini che esprimevano un tormento interiore. Come era tipico degli uomini medievali avevano una viva coscienza del loro male anche senza essere santi. Erano poveri cristiani, peccatori che mendicavano continuamente la misericordia di Dio con uno slancio vitale a noi sconosciuto.
Ebbene, se c’è una figura capace di alimentare la stizza del clericomoderato è proprio la figura del crociato penitente.
Lo ha notato un temperamento focoso come quello del grande scrittore spagnolo Juan Manuel De Prada.
Così scrive De Prada in un articolo durissimo contro il moderatismo: «Il «moderato» non si infuria mai, non si esalta mai, nuota sempre a favore di corrente. Odia il peccatore pentito, si gode molto a sventolarne i peccati passati. Poiché per peccare e per pentirsi occorre pur sempre dominare e essere dominati dalle passioni. E il «moderato», che ha il sangue freddo come i serpenti, ha represso ogni passione. Al «moderato» ripugnano gli uomini tormentati, perché con le loro imperfezioni e le loro ricadute dimostrano una sofferta aspirazione all’ideale. Il «moderato» aspira invece a trasformare il proprio grigiore e la propria neutralità in una tabula rasa in grado di livellare la grandezza e la miseria umane. Perché il «moderato» è un uomo senza grandezza né miseria, è un uomo incapace di indignazione, incapace di meraviglia, di rabbia, che non si umilia né si pente».
Il moderato per pavidità o per calcolo meschino dovrebbe combatte e non combatte – o non combatte a sufficienza. Dice ma non fa. E al tempo stesso odia chi prende l’iniziativa. Scrive ancora De Prada: «Tutto quello che fuoriesce dagli schemi prefissati gli appare esagerato e trasgressivo; tutto ciò che si manifesta con entusiasmo, con ardore, con franchezza e con veemenza gli provoca disgusto, avversione, scandalo».
Si accontenta delle affermazioni retoriche, impalpabili, delle dichiarazioni di principio, inapplicabili o appicabili in maniera blanda. Naturalmente, insiste De Prada, il “crociato penitente” che avrà ardito esprimere gli stessi principi del “moderato” ma con toni accesi – pretendendo addirittura di applicarli realmente! – «sarà considerato un energumeno dal «moderato», che gli anteporrà chi proclama i princìpi opposti, a condizione che ciò sia fatta in maniera corretta, con moderazione, con fredda ed educata tiepidezza. Inutile dire che le affermazioni o le negazioni nette provocano orrore nel «moderato» poiché lo obbligano a prendere partito. Predilige le opinioni che pescano da tutte le ceste, le espressioni confuse, il sincretismo ambiguo, il vaniloquio, la banalità, gli ammiccamenti, le sfumature. Quanto piacciono le sfumature al «moderato»! Si eccita a forza di cavillare, lui. Se poi oltre a puntualizzare può anche «raggiungere un accordo» a quel punto se la gode alla grande».
In breve, il “moderato” avversa quella magnanimità che, essendo appello a cose grandi, rappresenta l’essenza della vera nobiltà. Così, diamo ancora la parola a De Prada, «il «moderato» odia l’uomo che si compromette impegnando il suo prestigio nel difendere una posizione, perché consapevole che questo atteggiamento valoroso mette in evidenza la propria codardia. Se poi il valoroso è uomo dalla parola semplice e dalla scrittura vigorosa, che si scaglia al tempo stesso con incontenibile franchezza e con una certa mancanza di pudore, l’odio del «moderato» raggiungerà vette diaboliche: impiegherà le proprie forze per screditare l’uomo appassionato accusandolo di ciarlataneria, di radicalismo, di intemperanza, di qualsiasi vizio reale o inventato che lo faccia apparire agli occhi del mondo come un pazzo. Il «moderato» odia l’uomo valoroso come l’eunuco odia l’uomo virile: non esiterà pertanto a farlo condannare all’ostracismo (però sempre in maniera indolore, perché così si addice ai «moderati»)».
Il moderatismo non è una virtù cristiana. La Scrittura intera non cessa di ricordarci che se l’ira è un vizio, lo sdegno al contrario è una virtù. È virtuosa l’indignazione dei profeti – e di Cristo stesso – contro l’ingiustizia, la violenza e il male. Come dimenticarlo? Si contano a centinaia i passi dell’Antico Testamento in cui si reca testimonianza dell’«accendersi» o del «fumare» o del «divampare» dell’ira divina, accesa dal male degli uomini e placata dai giusti. Significativamente l’indignazione divina è esaltata attraverso il vocabolo ‘af che onomatopeicamente evoca le «narici» sbuffanti per lla collera).
Un Dio personale, quello cristiano, nient’affatto indifferente, come gli idoli, ai grandi temi dell’etica, alle violazioni del diritto, alle umiliazioni dei deboli. Certo, un Dio che prima di tutto è «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di amore, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato». Ma che, allo stesso modo, «non lascia senza punizione castigando la colpa dei padri nei figli e nei fligi dei figli fino alla terza e quarta generazione» (Es 34, 6-7).
Tutt’altro che un Dio “moderato”.
Fonte: Emiliano Fumaneri la Croce Quotidiano