Il Venezuela allo stremo per la crisi economica chiede aiuto a Papa Francesco

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Leopoldo Lòopez Gil, capo dell’opposizione, ha valutato la possibilità di chiedere aiuto addirittura al Vaticano per fare fronte alla crisi umanitaria che sta colpendo il Venezuela . “Chiedo al Vaticano di andare a visitare i prigionieri politici torturati” ha detto l’uomo, il leader del partito Voluntad Popular che contrasta il governo di Nicolas Maduro.

L’uomo è costretto all’estero, dato che in Venezuela è stato accusato di attentato alla sicurezza dello Stato, e si trova da qualche giorno in Italia dove cerca di attirare l’attenzione sulle problematiche che il Venezuela sta vivendo in questo momento, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica.

Il figlio è ancora incarcerato, come parte dell’opposizione, e Gil ne chiede la liberazione. I carcerati furono accusati di aver promosso manifestazioni che nel 2014 provocarono almeno trenta morti e molti feriti. Gil continua a sostenere che in Venezuela viene violata la libertà di opinione e di stampa e che il governo abbia rubato molti soldi pubblici, almeno 300 milioni di dollari. Adesso chiede l’intervento del Vaticano per sincerare la situazione di crisi.

Così lo stato detentore delle più grandi riserve mondiali di petrolio con appena 30 milioni di abitanti viene a trovarsi sull’orlo della bancarotta e della sollevazione popolare, afflitto dalla scarsità di generi di prima necessità che causa code chilometriche fuori dai negozi e da quella di medicinali e attrezzature mediche. Hugo Chávez, il carismatico leader populista deceduto nel 2013 dopo quattordici anni di potere ininterrotto, aveva ridotto drasticamente i tassi di povertà, ma al prezzo del soffocamento delle libertà politiche a livelli quasi cubani e della degradazione irreversibile dell’apparato produttivo. Negli ultimi sei anni la crescita del Pil è stata per tre volte negativa, il 2014 si è chiuso con un meno 3 per cento. E la povertà è risalita. Negli anni ruggenti di Chávez, fra il 1999 e il 2008, la povertà relativa era scesa dal 42,8 per cento al 26, e quella assoluta dal 16,6 per cento al 7. L’anno scorso la povertà assoluta risultava risalita al 10 per cento e quella relativa al 31. E il peggio sembra dovere ancora arrivare. I numeri del collasso venezuelano sono impietosi.

L’inflazione venezuelana risulta essere la più alta del mondo: 65 per cento l’anno scorso; l’indice di scarsità dei beni di prima necessità ha toccato il 33 per cento; la moneta nazionale, che al cambio ufficiale è scambiata a 6,30 per un dollaro, sul mercato parallelo ha perso il 178 per cento del suo valore in un anno e ora si scambia a 162 bolivares per un dollaro. Le riserve valutarie, che cinque anni fa ammontavano a 32 miliardi di dollari, sono scese a 21 miliardi. Il tasso d’interesse sui bond decennali, che un anno fa stava attorno al 10 per cento, nel gennaio 2015 ha toccato il 29,9 per cento. Il deficit di bilancio l’anno scorso è stato del 17 per cento (nell’Eurozona non possiamo sfondare il 3 per cento) e attualmente, in mancanza di correzioni, sarebbe al 20. La Federazione delle Camere di commercio avverte che il paese dispone di riserve di beni di prima necessità per soli 45 giorni, dopodiché se il governo non sarà in grado di finanziare le importazioni sarà carestia vera. Per l’anno corrente il Fmi prevede, a causa del crollo del prezzo del barile di greggio (che rappresenta il 95 per cento dell’export venezuelano), un’ulteriore contrazione del Pil del 7 per cento. Altri istituti prevedono che l’inflazione salirà al 73 per cento e che l’indice di scarsità dei beni peggiorerà.

Secondo Nicolas Maduro, lo sfortunato successore di Hugo Chávez, le cause di tutto questo sono la «guerra economica» organizzata dagli imprenditori privati e dalla opposizione e il complotto internazionale che ha causato l’improvvisa flessione del prezzo del greggio per mettere in difficoltà i paesi anti-imperialisti. La prima avrebbe determinato la penuria dei beni di consumo, la seconda la crisi di liquidità e di solvibilità. In realtà, malmenate da un decennio di nazionalizzazioni, di concentrazione dei poteri e dei mezzi di comunicazione nelle mani dell’esecutivo, imprese private e opposizione politica sono a malapena in grado di reggersi in piedi. La colpa del tracollo economico del Venezuela è interamente responsabilità di chi lo ha governato per 15 anni ripetendo tutti i classici errori del socialismo dirigista, ignorando tutte le lezioni della storia. Il collasso del prezzo del petrolio è soltanto l’incidente di percorso che farà uscire di strada improvvisamente un veicolo destinato già di suo a schiantarsi.

I due gravi errori che hanno portato al disastro venezuelano sono la mala gestione dell’industria petrolifera e le politiche di controllo del cambio e dei prezzi al consumo. Tutte e due sono opera di Hugo Chávez, che non ha pagato pegno perché è morto prima che i nodi venissero al pettine e perché durante il suo governo il prezzo del petrolio è sempre e soltanto aumentato, passando da 9 a 100 dollari al barile.

Quando Chávez è salito al potere nel 1999 la Pdvsa, la compagnia nazionale degli idrocarburi, aveva 51 mila dipendenti e produceva 3 milioni di barili al giorno; oggi ne ha 140 mila e produce solo 2,5 milioni di barili al giorno. La produttività è scesa da 58,8 barili al giorno di greggio per dipendente a 17,8 appena. Il regime ha trasformato la più efficiente impresa pubblica del petrolio di tutto il Sudamerica in una vacca da mungere per obiettivi di politica interna e internazionale e nel caposaldo delle sue politiche clientelari. Cogliendo l’occasione dello sciopero del dicembre 2002 che aveva per obiettivo di far cadere il suo governo, Chávez licenziò 15 mila dipendenti della Pdvsa e li sostituì con fedelissimi del suo partito. Da quel momento il numero dei dipendenti andò aumentando senza nessuna relazione con l’efficienza e la competenza.

 

Ma dove sono finiti i profitti del petrolio? Una parte si è trasformata in stipendi parassitari e un’altra in finanziamenti extra contabilità generale alle missioni bolivariane, un’altra ancora in sussidi al prezzo del carburante, che in Venezuela è praticamente distribuito gratis alla pompa: un litro di benzina costa 0,097 bolivares al litro, cioè poco più di 1 centesimo di euro al cambio ufficiale (il contrario dell’Italia dove i costi sono esorbitanti). Questo sussidio costa allo Stato circa 12 miliardi di dollari all’anno. Un’altra parte dei profitti del petrolio è andata bruciata nel programma Petrocaribe: dai tempi di Chávez, il Venezuela vende petrolio a prezzi stracciati a 13 paesi dei Caraibi e dell’America centrale in nome della solidarietà anti-imperialista, ovvero per attirare i paesi vicini nella sua sfera di influenza e garantirsi un pacchetto di voti ai vertici dell’Oea, l’Organizzazione degli stati americani che non ha mai votato una mozione di condanna delle pur numerose violazioni dei diritti umani in Venezuela. La parte del leone dentro a questo schema tocca a Cuba: dei 200 mila barili al giorno di petrolio venduti attraverso Petrocaribe, 100 mila hanno per destinazione L’Avana. Si calcola che dal 2005 ad oggi questo meccanismo sia costato alle finanze venezuelane la bellezza di 44 miliardi di dollari.

Penuria di merci, code ai negozi e apparizione del mercato nero dei prodotti come delle valute sono fenomeni ben noti di tutte le economie socialiste dogmatiche, ma in Venezuela li si attribuisce a un complotto antigovernativo che farebbe sì che le merci vengono tenute in magazzino in attesa di aumenti dei prezzi ma le ragioni appaiono ben altre. Come ha dichiarato l’ex rettore dell’Università cattolica Andrés Bello, il gesuita Luis Ugalde, «quando lo Stato ha avuto risorse da investire, anziché aiutare le imprese produttive a migliorare la loro competitività, le ha rese deficitarie nazionalizzandole, come è successo con AgroIsleña o Sidor. Una cosa è dire “Dobbiamo essere produttivi”, e un’altra capire che non ci sarà produttività senza stimoli alla produttività. Se producendo molto io guadagnerò lo stesso che producendo poco, non mi sforzerò mai di produrre di più».

La storia ci racconta dai primordi le difficoltà del Venezuela da sempre colonia spagnola famosa per avere dato i natali al Libertador, cioè a Simon Bolivar, che prima a capo di una rivolta, poi di una guerra d’indipendenza, nel 1821 liberò il Paese affrancandolo dal dominio straniero, così come poi fece anche con Panama, Colombia, Perù, Ecuador e Bolivia. Da allora il Venezuela è rimasto sepolto nell’anonimato finquando balzò agli onori delle cronache poiché, dopo essere stato per secoli terra di cacao, tabacco, canna da zucchero, caffè, cannella, riso, mais, patate, manioca e banane, negli anni ’50 “ebbe la fortuna” di scoprire immensi giacimenti di idrocarburi nelle sue viscere.

Si avviò così l’estrazione di gas e petrolio su grande scala, il Venezuela divenne il quinto paese esportatore del mondo, e l’improvviso fiume di petro-dollari che travolse i venezuelani dette loro non solo la grande euforia peculiare dei “nuovi ricchi”, ma li consigliò di dismettere qualsiasi altra attività. Da allora il Venezuela ha vissuto in pratica solo di petrolio.

Così oggi i supermercati sono quasi vuoti e per comprare un pezzo di pane occorre fare la fila a partire dal cuore della notte. Ci sono tecniche particolari: uscire di casa e mettersi in fila con del denaro in tasca significherebbe essere aggrediti e rapinati, spesso uccisi, per quattro bolivar fuerte, quelli che hanno introdotto di recente (1 euro = 7 bolivar fuerte) perchè i bolivar precedenti, col 65 % annuo di inflazione, erano diventati carta straccia. Per cui sono i familiari a fare da spola e portano i soldi che servono a chi sta in fila solo al momento in cui si sta per entrare in possesso della merce. Ormai, da un paio di anni siamo sulla media di quasi 50 omicidi al giorno, questo è il clima sociale creato dai progressisti tanto apprezzati pure a casa nostra, ed i “retro dei peggiori bar di Caracas” sono diventati luoghi sicuri e da educande rispetto alla virulenza di una criminalità capillarmente diffusa nella capitale.

Per trovare i generi di prima necessità occorre rivolgersi al mercato nero. Per distribuire quel poco di cibo disponibile è stata varata una legge che imponeva prezzi politici abbordabili pure per i più indigenti. Risultato, generi di prima necessità e medicinali introvabili, letteralmente fatti sparire e campo libero a speculazioni ed aggiotaggio. Allora i prezzi sono aumentati ma a quel punto sono arrivati ad un livello tale da fare sollevare l’intera popolazione, che ha assaltato mercati e negozi .

In una situazione così drammatica cosa fare? Rimboccarsi le maniche e chiedere aiuto a Papa Francesco.

 




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