Marte – Utilizzando rocce marziane e rilievi satellitari, due scienziati della Tohoku University hanno sviluppato un modello che descrive la struttura interna del Pianeta rosso, in base al quale la profondità del confine tra mantello e nucleo si trova a circa 1800 chilometri sotto la superficie. In accordo con tale modello, il nucleo dovrebbe contenere moderate quantità di zolfo, ossigeno e idrogeno
Mentre il sismometro di InSight sta aspettando pazientemente che il prossimo grande terremoto permetta di fare luce sull’interno di Marte, definendone la struttura dal suo nucleo alla crosta, due scienziati – Takashi Yoshizaki (Tohoku University) e Bill McDonough (Tohoku University e University of Maryland, College Park) – hanno sviluppato un nuovo modello strutturale dell’interno del Pianeta rosso. Per farlo, hanno usato rocce marziane e misurazioni effettuate dai satelliti in orbita attorno al pianeta, arrivando a ipotizzare quale sia la profondità del confine tra mantello e nucleo, alla profondità di circa 1800 chilometri sotto la superficie. Sono stati inoltre in grado di suggerire che il nucleo contenga moderate quantità di zolfo, ossigeno e idrogeno.
«Conoscere la composizione e l’interno dei pianeti rocciosi ci dà informazioni sulle condizioni nelle quali si sono formati, di come e quando il nucleo si è separato dal mantello, e dei tempi e della quantità di crosta estratta dal mantello», spiega Yoshizaki. I primi astronomi usarono le distanze e i periodi orbitali dei pianeti e delle loro lune per determinarne le dimensioni, la massa e la densità. Attualmente, le sonde orbitanti forniscono maggiori dettagli sulla forma e sulla densità di un pianeta, ma la distribuzione della densità al suo interno rimane sconosciuta. Tuttavia, il profilo sismico del pianeta può essere di grande aiuto per comprendere la struttura interna del pianeta stesso. Quando su un pianeta si verifica un terremoto, le onde sonore viaggiano attraverso il suo interno a velocità che dipendono dalla sua composizione e temperatura. Forti contrasti di densità, ad esempio roccia contro acciaio, fanno sì che le onde sonore rispondano in modo diverso, rivelando la profondità del confine nucleo-mantello e i dettagli della probabile composizione di questi diversi strati.
Alla fine del diciannovesimo secolo, gli scienziati ipotizzarono che la Terra avesse un nucleo composto da metalli, ma solo nel 1914 i sismologi hanno dimostrato la sua esistenza a una profondità di 2900 chilometri, rivelando la struttura interna del pianeta, che tuttora ci aiuta a comprendere la natura dei terremoti. I quattro sismometri attualmente presenti sulla Luna, portati dagli astronauti delle missioni Apollo, definirono la struttura crosta-mantello-nucleo della Luna. Infine, a metà del 2018 anche su Marte, il secondo pianeta meglio esplorato, è arrivato il primo sismometro grazie alla missione InSight.
I modelli che descrivono la composizione di un pianeta vengono sviluppati a partire dai dati provenienti da rocce superficiali, osservazioni fisiche e meteoriti condritiche, i mattoni primitivi dei pianeti. Questi meteoriti sono un mix di roccia e metallo, come i pianeti, composti da solidi aggregatisi nella nebulosa primordiale che ha dato origine al Sole, formati da diverse proporzioni di ossidi di magnesio, silicio e ferro e leghe di ferro e nichel.
«Abbiamo scoperto che il nucleo di Marte è appena un sesto della sua massa, mentre per la Terra è un terzo della sua massa», aggiunge Yoshizaki. Questi risultati sono consistenti con lo scenario che descrive un Pianeta rosso con più atomi di ossigeno della Terra, un nucleo più piccolo e una superficie “arrugginita”. I ricercatori hanno anche trovato abbondanti quantità di elementi volatili, ad esempio zolfo e potassio, in quantità superiore rispetto alla Terra, ma il contenuto è risultato inferiore a quello presente nei meteoriti condritici.
Il sismometro sulla missione InSight della Nasa metterà direttamente alla prova questo nuovo modello di Marte, definendo la profondità del confine tra il nucleo e il mantello marziano. Tali modelli – sia per Marte che per la Terra – sono fondamentali perché forniscono indizi sull’origine e la natura dei pianeti, ma anche sulle loro condizioni di abitabilità.
Marte è il quarto pianeta del Sistema Solare, contando dal Sole. È anche l’ultimo dei pianeti rocciosi. La sua orbita giace tra quella di Giove e della Terra. È anche uno dei cinque pianeti visibili ad occhio nudo ed il suo aspetto è quello di una brillante stella di color rosa-rossatro. Essendo un pianeta esterno, cioè trovandosi ad una distanza dal Sole maggiore di quella terrestre, può essere osservato in qualsiasi posizione del cielo, sempre compresa nella fascia delle costellazioni zodiacali, come tutti gli altri pianeti.
Il suo colore rossastro ha spinto anticamente i sacerdoti-astronomi babilonesi a chiamarlo Nergal, dal nome del dio della morte e della pestilenza. I Greci a loro volta lo chiamarono Ares, il dio della guerra mentre i Romani lo identificarono col nome attuale che rappresentava il dio delle battaglie.
Una breve scheda tecnica del pianeta ci mostra che il suo raggio equatoriale è di 3.398 chilometri, poco meno della metà di quello terrestre ed ha una massa di circa un decimo di quella del nostro pianeta. In modo del tutto casuale l’inclinazione del suo asse di rotazione ha una certa coincidenza con quella della Terra. Il periodo di rotazione è di 24 ore e 37 minuti, quello di rivoluzione, essendo l’orbita maggiore di quella terrestre, di 687 giorni. In pratica “l’anno” marziano è quasi doppio di quello terrestre. Il “giorno” marziano viene chiamato dagli astronomi “Sol”.
La distanza media di Marte dal Sole è di 228 milioni di chilometri ed essendo l’eccentricità dell’orbita abbastanza marcata tale distanza varia di un 10% circa fatto questo che ha creato non pochi problemi nell’ambito delle esplorazioni con sonde automatiche. Attorno a Marte orbitano due satelliti naturali: Phobos e Deimos che hanno l’aspetto di asteroidi e probabilmente tali sono. In epoche remote questi due oggetti facevano parte della fascia degli asteroidi situata proprio tra le orbite di Marte e di Giove. Phobos ha un diametro di 27 chilometri e compie un’orbita a 9.400 chilometri dalla superficie del pianeta, Deimos ha un diametro di 15 chilometri mentre il diametro della sua orbita è di 23.500 chilometri.
Nell’ambito della storia dell’astronomia il pianeta Marte ha rivestito una grandissima importanza in seguito agli studi di Tycho Brahe prima e di Johannes Kepler in seguito. Fra i grandi personaggi dell’astronomia Tycho Brahe riveste un ruolo di primaria importanza in quanto le sue osservazioni accurate delle stelle e del moto dei pianeti hanno fornito per decenni le migliori tavole di posizioni di oggetti celesti. Gli strumenti fatti costruire da Tycho portavano a precisioni mai avute in quell’epoca. Kepler è stato colui che ha seguito il lavoro di Tycho ed a cui Tycho stesso in punto di morte ha affidato il compito di svelare la forma dell’orbita proprio di Marte che era stato studiato per venti anni sia da Tycho che da Keplero. Tutti i tentativi fatti da Keplero per far coincidere i dati delle osservazioni con un’orbita circolare si rivelarono fallimentari tanto da costringerlo a ripudiare l’orbita circolare a favore di un’orbita ellittica. Probabilmente se i dati in possesso di Keplero non fossero appartenuti a Tycho, lo stesso Keplero li avrebbe scartati piuttosto che scartare l’idea dell’orbita circolare. Keplero sapeva quanto precisi erano quelle osservazioni quindi occorreva cambiare la forma dell’orbita. Da questo studio accurato vengono enunciate le famose Tre Leggi di Keplero, la cui prima appunto definisce le orbite dei pianeti intorno al Sole come ellissi. Il suo lavoro Astronomia Nova pubblicato nel 1609 espone i suoi risultati circa la forma dell’orbita di Marte. Tutto ciò porta a ritenere questo pianeta come estremamente importante nel campo della storia dell’astronomia.
Durante l’opposizione del 1877 (si definisce opposizione la distanza minima tra un pianeta e la Terra, in pratica quando il pianeta si trova sull’allineamento Terra-Sole) l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli studiando al telescopio la superficie di Marte descrisse dei “canali” che aveva osservato. La parola italiana “canali” tradotta in inglese risulta essere “channels” cioè canali di origine naturale. Forse venne tradotta come “canals” che significa canali di origine artificiale e da qui l’equivoco.
L’astronomo americano Percival Lowell in seguito a questa notizia iniziò uno studio accurato della superficie del pianeta asserendo anche lui di vedere questi canali artificiali, segno di una civiltà morente che cercava di irrigare i deserti marziani convogliando l’acqua dalle calotte polari fino alle zone equatoriali. Che cosa aveva visto Lowell?
Niente! Gli ipotetici canali di Marte non sono altro che un effetto ottico legato sia alla cattiva qualità delle lenti dei telescopi, sia alla capacità dei nostri occhi di integrare una serie di particolari al limite della percezione e di vedere particolari che in realtà non esistono.
Negli anni ‘60 inizia l’esplorazione spaziale del pianeta da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.
Le sonde Mariner per parte americana e le sonde Mars e Zond per parte sovietica cominciano, dopo una inevitabile serie di insuccessi iniziali, a inviare le prime immagini che mostrano come la faccenda dei canali fosse solo un’illusione ottica. Marte somiglia più alla Luna che ad un mondo abitato da una civiltà morente.
Occorre tuttavia attendere il 1971 e la sonda Mariner 9 per vedere le migliori immagini del pianeta ed i famosi canali, però naturali, oltre a crateri, vulcani imponenti (il Mons Olympus ha una altezza di 27 chilometri ed un diametro alla base di 600 chilometri), un canyon lungo 5.000 chilometri, la Valles Marineris e tutta una serie di particolari che lo diversificano notevolmente dall’aspetto lunare che le prime immagini avevano mostrato.
Tuttavia la svolta più grande alle osservazioni di Marte la danno le sonde Viking 1 e 2. Queste due sonde erano entrambe composte da due parti: un orbiter cioè una sonda orbitante che aveva lo scopo di cartografare il pianeta con una risoluzione maggiore di quella fino ad allora ottenuta ed un lander cioè un modulo di atterraggio che di fatto era un vero e proprio laboratorio di analisi cui ovvio scopo era di trovare tracce eventuali di vita organica sul suolo marziano.
Il 20 luglio 1976 avviene l’atterraggio di Viking 1, mentre il 3 settembre 1976 fu la volta di Viking 2. Queste due sonde furono attive rispettivamente fino al 1980 e 1982, trasmettendo i dati. Anche le sezioni che erano rimaste in orbita proseguirono la trasmissione dei dati sino alla fine degli anni ‘70.
Veniamo agli esperimenti effettuati dai lander che in tutto sono stati tre. Un primo esperimento prevedeva l’uso di una coppia di telecamere che avrebbero ripreso qualunque forma di vita o crescita di piante. Un secondo esperimento veniva eseguito da un gas cromatografo e spettrometro di massa per cercare le molecole organiche nel terreno. Furono cercati il carbonio, l’ossigeno, l’idrogeno e l’azoto sotto forma di composti organici ma non ne furono trovati. Forse queste molecole venivano distrutti dai raggi ultravioletti emessi dal Sole e non bloccati dalla tenue atmosfera marziana. Infine c’era un esperimento biologico il cui obiettivo era la ricerca di processi metabolici come quelli utilizzati dai batteri, dalle piante e dagli animali. Nessuno dei tre esperimenti diede esito positivo, naturalmente, anche se il prelievo di terreno era molto superficiale e forse non proprio caratteristico di tutta la superficie del pianeta.
Le analisi del terreno prelevato dal braccio meccanico del Viking mostrarono che il suolo è prevalentemente composto da biossido di silicio (45%) e di ossido di ferro (19%) che produce la ben nota colorazione rossastra del pianeta. Sono inoltre presenti in quantità minori mangnesio, calcio, zolfo, alluminio, cloro e titanio.
Pe concludere una curiosità: legata a Marte è la scoperta di tracce di batteri e molecole organiche rinvenute su un meteorite di origine marziana rinvenuto tra i ghiacci dell’Antartide.
Infatti sono stati rinvenuti proprio nell’Antartide una incredibile serie di meteoriti di ogni genere caduti in epoche remote (il meteorite marziano era lì da 13.000 anni) e conservati nel ghiaccio. In seguito al moto dei ghiacciai antartici ed alla successiva evaporazione del medesimo vengono alla luce questi messaggeri dello spazio importantissimi perché recano informazioni su come era il primordiale sistema solare in formazione circa cinque miliardi di anni fa. In uno di questi meteoriti denominato ALH84001 un gruppo di scienziati che coprono varie branche delle discipline scientifiche hanno identificato con ancora un notevole grado di incertezza, al suo interno la presenza di carbonati ed anche la presenza di tracce fossili di batteri.
Tutta una serie di analisi chimico-geologiche mostrano senza dubbio che la roccia è di natura marziana e risalente a 4,5 miliardi di anni fa che in seguito ad un impatto meteorico (il possibile cratere è stato trovato) si sia staccata dal suolo di Marte 17 milioni di anni fa ed abbia vagato nello spazio fino a che 13.000 anni fa è piombato nei ghiacci dell’Antartide.