Storie – Piermario Morosini e quel tragico pomeriggio allo stadio di Pescara

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Morosini – Lo sport è costellato di gioie, ma anche di sofferenze, fatica, sudore ed alcune volte anche causa di morte.
Era il 14 Aprile del 2012 giorno nel quale Piermario Morosini, centrocampista del Livorno, muore per un malore durante la partita di calcio Pescara-Livorno.
Era una tiepida giornata primaverile, una domenica in cui sui campi di gioco i protagonisti dovevano essere soltanto i gol ed invece fu un giorno diverso dagli altri.


Piermario Morosini non ha mai perso il sorriso e la voglia di vivere, riversando nel calcio quel senso di rivalsa che lo avrebbe portato, partendo dalla Polisportiva Monterosso (squadra di quartiere di Bergamo) fino alla Nazionale Under 21, con la quale partecipa al Mondiale di Svezia nel 2009. Quando parlava della sua vita senza i genitori, affermava:
“Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita, ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici. Per questo so di avere degli stimoli in più“.
A nemmeno 26 anni – li avrebbe compiuti il 5 luglio – Piermario Morosini aveva imparato a convivere con così tanto dolore che si fa fatica anche a immaginarlo. A quattordici anni un brutto male aveva portato via suo padre Aldo, due anni dopo la madre Camilla. Gli erano rimasti un fratello e una sorella più grandi, entrambi disabili gravi. Il primo si è suicidato pochi anni fa, la sorella è ricoverata da sempre in un istituto. C’era zia Miranda a occuparsi di lui, che oggi se fosse ancora viva avrebbe più di novant’anni.
Piermario Morosini si era aggrappato all’esistenza come pochi. «Spesso mi sono chiesto perché sia capitato tutto a me, ma non riesco mai a trovare una risposta e questo mi fa ancora più male. Però la vita va avanti», si era confidato con un amico giornalista del «Guerin Sportivo», l’anno in cui era passato dalla giovanile dell’Atalanta all’Udinese, l’anno in cui aveva iniziato a mettere le ali ai piedi.
Pierpaolo Morosini era un mediano che galoppava come un matto e che aveva fatto accendere una lampadina ai talent scout dell’Atalanta. «Era un ragazzo intelligente, uno che aveva stoffa anche se sul suo volto c’era sempre un velo di tristezza», lo ricordava Mino Favini, il preparatore dei giovanissimi nerazzurri che lo ha seguito per anni.
non c’è squadra dove abbia giocato anche per poco – dall’Udinese al Bologna, dal Vicenza alla Reggina, dal Padova al Livorno, la sua ultima maglia – dove Piermario Morosini non abbia lasciato un ricordo solare malgrado tutto.
Giancarlo Finardi, il suo allenatore negli ultimi due anni della Primavera dell’Atalanta, lo raccontava sempre: «Prima di una finale con la Roma avevo chiesto ai tre giocatori, che avevano portato la fascia da capitano durante tutta la stagione, chi volesse indossarla anche in quella partita così importante. E tutti e tre avevano fatto il nome di Piermario».
Al massimo Piermario Morosini si faceva prendere in giro per la sua passione mai nascosta per la Sampdoria: «Sono cresciuto con il mito di Roberto Mancini…». Ma nel suo palmarès personale aveva in mente due giocatori dell’Argentina, Fernando Redondo, conosciuto mentre stava al Milan, e Matias Almeyda, passato per la Lazio, il Parma, l’Inter e il Brescia: «Vorrei avere la classe di Redondo e la cattiveria agonistica di Almeyda».
Ma non ce n’è uno che ricordi un episodio «da cattivo» di Piermario Morosini, né dentro né figuriamoci fuori dal campo. Lui era fatto così, sembrava sempre contento, e pare un paradosso con tutto quello che gli era capitato nella vita. Perché nella sua giovane esistenza lui immaginava che il meglio sarebbe dovuto ancora arrivare. E in quella intervista al «Guerin Sportivo» lo aveva pure detto, e si capisce che era una speranza di vita più che un sogno da calciatore: «All’Udinese vado senza troppe pretese, non posso pretendere di giocare subito, ma so che il tempo è dalla mia parte e che dando il massimo mi potrò togliere delle soddisfazioni».


La sua carriera? Tifoso della Sampdoria, inizia a giocare a calcio presso la Polisportiva Monterosso, squadra di quartiere di Bergamo. Cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta, con la quale nei dieci anni di militanza riesce a vincere uno scudetto Allievi, nel 2005 passa in compartecipazione all’Udinese giocando a 19 anni la prima stagione da professionista, dividendosi tra Primavera e prima squadra, nella stagione 2005-2006, con 5 presenze in Serie A. L’allenatore Serse Cosmi lo fa esordire il 23 ottobre in Udinese-Inter.
Gioca anche 3 partite in Coppa Italia e una in Coppa UEFA: l’ottavo di finale Levski Sofia-Udinese. Nella stagione 2006-2007 passa al Bologna, in Serie B, scendendo in campo in 16 occasioni. Nel luglio 2007, riscattato dall’Udinese, passa al L.R. Vicenza, in Serie B. Con la squadra veneta conquista la salvezza contribuendo con 34 presenze e un gol. A fine annata il Vicenza ne riscatta la metà del cartellino, quindi gioca altre 32 partite.
Nell’estate del 2009 l’Udinese riscatta la metà per una somma pari a circa 1,5 milioni di euro. Il 31 agosto 2009 passa in prestito alla Reggina. Il 1º febbraio 2010 passa con la formula del prestito con diritto di riscatto della compartecipazione al Padova.
Il 6 febbraio debutta con i biancoscudati in Piacenza-Padova (1-0). Il 23 giugno 2010 il Padova comunica di non aver esercitato il diritto di opzione sul cartellino del giocatore.
Nel gennaio 2011 passa in prestito al Vicenza. Debutta il 7 febbraio nella 25ª giornata da titolare nella partita contro il Livorno vinta per 1-0.
Il 31 gennaio 2012 passa in prestito dall’Udinese al Livorno.
Debutta l’11 febbraio alla 27ª giornata nella partita contro il Vicenza pareggiata per 1-1, entrando al 67’ al posto di Mirko Bigazzi.
Muore per arresto cardiaco, a soli 25 anni, durante la partita fra il Pescara e il Livorno del 14 aprile 2012, valevole per la 14ª giornata di ritorno del campionato di Serie B.
Ci furono polemiche e ci sono stati lunghi processi a causa della sua morte.

QUEI TRAGICI MINUTI
Piermario Morosini si accasciò improvvisamente a terra al 29esimo minuto del primo tempo. Tentò di rialzarsi per ben due volte, poi più nulla. Steso a pancia in giù, venne subito accerchiato da alcuni compagni che lanciarono l’allarme. Il gioco venne subito interrotto dall’arbitro.
I medici delle due squadre, Manilo Porcellini (del Livorno) ed Ernesto Sabatini (medico del Pescara) soccorsero subito il ragazzo iniziando a praticargli il massaggio cardiaco e la ventilazione artificiale. Con circa 3 minuti di ritardo, arrivò in campo anche l’ambulanza del 118 con medico (Vito Molfese) e infermieri a bordo.
Un volontario della Croce Rossa, Andrea Silvestre, portò subito un defibrillatore semiautomatico esterno accanto al corpo del ragazzo, ma nessuno lo utilizzò.
Morosini venne caricato in ambulanza e fu trasportato d’urgenza all’ospedale Santo Spirito di Pescara.
Alle ore 17:00, il Dottor De Blasi rese noto che “il giocatore era morto a causa di un arresto cardiaco”. Aggiunse, inoltre, che arrivò in ospedale già morto.
Il primario del reparto di Cardiologia, Leonardo Paloscia, volle precisare: “Abbiamo fatto tutto il possibile per rianimare il ragazzo. Ma purtroppo non ha mai ripreso conoscenza”.
“Quando arrivai in campo c’erano il medico del Pescara e il medico del Livorno che stavano soccorrendo il giocatore.
Un defibrillatore DAE era aperto all’altezza della testa di Morosini. Io lo segnalai per ben due volte, ma nessuno lo utilizzò e nessuno mi disse di farlo. Normalmente chi arriva per primo è colui che deve guidare le operazioni” – dichiarò Marco Di Francesco, infermiere del 118 in turno quel 14 di aprile.
Se c’è un incendio devi usare l’estintore, anche se poi l’incendio non lo fermi: ma siccome il defibrillatore è anche diagnostico, e non solo terapeutico, a maggior ragione un medico lo deve usare” – dichiarò la Dott.ssa Basso, docente di Anatomia patologica all’Università di Padova, perito nominato dalla famiglia del calciatore, assieme al perito del Pubblico Ministero.
“Se si mette in correlazione l’intervallo di tempo intercorso tra l’arresto cardiaco e il primo shock defibrillante con le possibilità di sopravvivenza del paziente – dichiararono i periti Cristian D’Ovidio, Giulia D’Amati e Simona Martello – è possibile affermare che, all’arrivo sul posto del medico del 118, le possibilità di sopravvivenza di Morosini erano pari a circa il 70%.
Oltre alla presenza del defibrillatore, difatti, va considerata anche la disponibilità di quel giorno di tutti i presidi farmacologici e non necessari alla stabilizzazione del paziente”.
Qualunque medico presente nel soccorrere Morosini avrebbe dovuto usare il defibrillatore.
Questa fu, sostanzialmente, la motivazione che spinse Laura D’Arcangelo, giudice del Tribunale monocratico di Pescara, a condannare in primo grado per omicidio colposo, il 13 settembre 2016, i tre medici coinvolti nel caso: Vito Molfese, 1 anno di reclusione; Manilo Porcellini, 8 mesi di reclusione; Ernesto Sabatini, 8 mesi di reclusione. I tre vennero anche condannati, insieme alla Asl di Pescara e alla Pescara Calcio, al pagamento di una provvisionale di 150mila euro.
Anche in secondo grado, nel febbraio 2018, la Corte d’Appello dell’Aquila confermò quasi in toto la sentenza di primo grado. Ma dopo tutto cambiò.
Il primo colpo di scena avvenne il 10 aprile 2019, quando la Corte di Cassazione annullò la sentenza di condanna per i tre medici e dispose un nuovo processo presso la Corte d’Appello di Perugia.
“Le valutazioni espresse nella sentenza di condanna e poste alla base della ritenuta sussistenza del nesso di derivazione causale tra le condotte dei sanitari e la morte improvvisa del giovane calciatore sono da un lato carenti e dall’altro inficiate da aporie logico-argomentative”. Questa fu la motivazione.
Infine l’’11 ottobre 2019, la Corte d’Appello di Perugia ha assolto tutti e tre i medici coinvolti nel caso, imputati, per non aver utilizzato il defibrillatore.
“Nella sentenza d’appello non sono state considerate le condizioni di concitazione e urgenza in cui si svolse l’azione di soccorso, nella prospettiva della concreta esigibilità di una condotta diversa da parte dei medici” – questa la giustificazione.
A Piermario Morosni i probabilmente poco importa chi siano i colpevoli ma, i familiari avrebbero voluto avere una risposta dalla legge degli uomini su come sia stato possibile che il caro congiunto possa essere morto su un campo da calcio in una primaverile giornata d’aprile che il mondo del calcio non potrà mai dimenticare.
A noi piace pensare che Piermario Morosini sia lassù nella Luce insieme ai suoi cari!




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