Olimpiadi Rio 2016 storie di sport e cuore

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Olimpiadi Rio 2016 storie di sport e cuore

Undicimila atleti di 206 nazioni, oltre 300 eventi sportivi di 28 diverse discipline. Questi i numeri che sintetizzano la 31.ma Olimpiade dell’era moderna, che si conclude questa domenica a Rio de Janeiro. Moltissimi i momenti esaltanti regalati dalle imprese dei campioni più celebrati, ma altrettante sono le storie interessanti che hanno colpito il cuore delle persone.

Come non rammentare i lampi accecanti dei record certamente, il sale di ogni competizione – su tutti il “triplete” di Usain Bolt, l’unico atleta capace di sfidare la fisiologia dell’invecchiamento e stravincere trentenne a Rio come a Pechino otto anni fa – e in generale le imprese sportive premiate dagli oltre 800 ori, argenti e bronzi totali finiti al collo degli olimpionici. Tra cui, menzione d’obbligo, quelli conquistati dai campioni di Vietnam, Kosovo, Figi, Singapore e Porto Rico, al loro primo oro della storia e nel caso di Figi e Kosovo al primo successo in assoluto: medaglie “umane” perché figlie di nessuna potenza geosportiva, successi di “periferia” di quelli che piacerebbero a Papa Francesco. Insomma, la memoria dei miliardi di telespettatori, e delle centinaia di migliaia di tifosi che in due settimane hanno riempito gli spalti degli stadi e degli impianti carioca, conserverà ciò che gli sarà più caro di questa 31.ma edizione. Noi scegliamo due storie finite senza alloro, perché le rispettive protagoniste hanno conquistato il podio della nostra ammirazione.

La prima è la storia di pista e solidarietà che ha fatto il giro del mondo, una stella dello spirito di Olimpia che ha riportato i Giochi indietro di duemila anni, quando la gara si sostituiva alla guerra. E la guerra di gambe e gomiti nella batteria dei 5000 donne che a metà gara lascia malconce a terra la neozelandese Nikki Hamblin e l’americana Abbey D’Agostino – la prima che inciampa, la seconda che le frana addosso storcendosi un ginocchio – finisce con la vittoria delle sconfitte, che si rialzano e aspettandosi e sorreggendosi l’una con l’altra arrivano zoppicando sulla linea del traguardo tra gli applausi dello stadio. Si può cadere e perdere una gara, ma sono state Nikki e Abbey, con il loro gesto, a dimostrare che, cadendo, si può tagliare le gambe a quel modo commerciale e antiumano di intendere lo sport, per cui vali tanto quanto rendi altrimenti il tuo sudore e i tuoi sacrifici non meritano né attenzioni né chance.

La seconda storia è quella di Gaurika Singh, nuotatrice del Nepal, che il suo record a Rio l’ha firmato figurando come l’atleta più giovane dell’Olimpiade. Gaurika ha 13 anni e 255 giorni e la sua gara nei 100 dorso ha rischiato di non farla mai perché l’anno scorso si trovava con la famiglia al quinto piano di un palazzo di Kathmandu quando in pochi secondi una violentissima scossa di terremoto ha polverizzato la città uccidendo 9 mila persone. La mamma di Gaurika ha salvato la figlia e il fratello Sauren lanciandoli sotto un tavolo e poi fuggendo con loro lungo le scale del palazzo rimasto in piedi per miracolo. Gaurika, che da allora ha donato tutti i premi delle sue vittorie al Fondo per la ricostruzione del Nepal, è arrivata a Rio dove non ha vinto nessuna medaglia. Ma la nostra campionessa di umanità di queste Olimpiadi “umane” di Rio resta lei, 13 anni e una vita per dimostrare che il cuore d’atleta non è solo una malattia ma in tanti casi una benedizione.




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