16 Marzo 1978: l’agguato di via Fani

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Moro – Giovedì 16 marzo 1978 a Roma era previsto il dibattito alla Camera dei deputati e il voto di fiducia per il quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti: si trattava di un momento di grande importanza poiché, per la prima volta dal 1947, il PCI avrebbe concorso direttamente alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto il nuovo esecutivo. Principale artefice di questa complessa e difficoltosa manovra politica era stato Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana.

Con un faticoso lavoro di mediazione e sintesi politica, Moro, che aveva intrapreso approfonditi colloqui con il segretario comunista Enrico Berlinguer, era riuscito a sviluppare il rapporto politico tra i due maggiori partiti italiani usciti dalle elezioni del 1976, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Aldo Moro aveva dovuto superare forti resistenze interne al suo partito e contrasti tra le varie forze politiche: fino alle ultime ore erano sorti nuovi problemi legati alla composizione ministeriale, giudicata insoddisfacente dai comunisti, del nuovo Governo guidato da Giulio Andreotti.

Il 28 febbraio, durante le consultazioni a Montecitorio, Moro espose ai gruppi parlamentari democristiani la sua analisi della situazione, e la sua prognosi. Fu il suo ultimo discorso pubblico. Moro riconobbe che da anni qualcosa s’era guastato nel normale meccanismo della democrazia italiana poiché, dopo le elezioni di due anni prima, erano emersi due vincitori; perciò bisognava approfittare della disponibilità del PCI a «trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci ha portato».

L’11 marzo Andreotti si recò al Quirinale con la lista dei ministri: in precedenza Berlinguer aveva chiesto che fossero depennati dall’elenco i ministri considerati più anticomunisti e che fosse designato qualche tecnico. All’interno del PCI ci fu chi vide in quell’esecutivo monocolore una provocazione. Giancarlo Pajetta annunciò che non avrebbe partecipato alle votazioni. Tra i pareri di chi voleva si rifiutasse il Governo, e chi voleva lo si accettasse, ne prevalse un terzo: i comunisti avrebbero risolto il dilemma dopo aver ascoltato il discorso di Andreotti alla Camera
Aldo Moro era inoltre obiettivo, oltre che di attacchi politici, di manovre scandalistiche che miravano a minarne l’autorevolezza. Nel quadro delle indagini sul cosiddetto scandalo Lockheed, era stato ventilato sulla stampa che il famoso «Antelope Kobbler», il misterioso referente politico principale coinvolto nella transazione finanziaria con l’industria aeronautica statunitense, avrebbe potuto essere proprio Moro. Il mattino del 16 marzo 1978 il quotidiano la Repubblica pubblicava in terza pagina un articolo in questo senso con il titolo: Antelope Kobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro, altri importanti quotidiani nazionali riportavano le stesse notizie.

La presentazione delle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Andreotti alla Camera dei deputati era stata fissata per le 10:00 del 16 marzo e fin dalle 8:45 gli uomini della scorta di Aldo Moro erano in attesa, fuori dalla sua casa in via del Forte Trionfale 79, che l’uomo politico uscisse dalla propria abitazione per accompagnarlo in Parlamento Aldo Moro scese qualche minuto prima delle 9:00 e venne accompagnato dal maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, suo fedele collaboratore da molti anni, all’auto di rappresentanza, una Fiat 130 berlina non blindata, dove si sedette sui sedili posteriori. Subito dopo il piccolo convoglio, l’auto del presidente e quella della scorta, si mise in movimento in direzione di via della Camilluccia. Le auto procedevano a velocità abbastanza sostenuta, mentre l’uomo politico consultava il pacco dei giornali del mattino: prima di raggiungere la Camera dei deputati era prevista l’abituale sosta nella Chiesa di Santa Chiara.

 

Alle ore 9:00  in via Mario Fani, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un gruppo di terroristi che aprirono immediatamente il fuoco, uccisero in pochi secondi i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro[7]. I terroristi ripartirono subito su diverse auto e fecero perdere le loro tracce. In via Fani rimasero la Fiat 130, su cui viaggiava Moro, con i cadaveri dell’autista, appuntato dei carabinieri Domenico Ricci (42 anni) e del responsabile della sicurezza, maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi (52 anni), e l’Alfa Romeo Alfetta targata «Roma S93393» degli agenti di scorta con a bordo il cadavere della guardia di P.S. Giulio Rivera (24 anni) e il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi (30 anni) gravemente ferito ma ancora in vita; riverso supino sul piano stradale, vicino all’auto, rimase anche il corpo della guardia di P.S. Raffaele Iozzino, 24 anni. Davanti alla Fiat 130 rimase un’auto Fiat 128 familiare con targa del corpo diplomatico «CD 19707», ferma all’incrocio e abbandonata dai suoi occupanti.

Le auto dell’onorevole Aldo Moro e della scorta ferme in via Fani pochi minuti dopo l’agguato delle Brigate Rosse; a terra, il corpo dell’agente di P.S. Raffaele Iozzino.

La prima comunicazione alle forze dell’ordine dei fatti accaduti venne registrata alle 9:03 al 113 che ricevette una telefonata anonima che informava di una sparatoria avvenuta in via Mario Fani; la centrale operativa del 113 provvide quindi ad allertare subito la pattuglia del Commissariato di Monte Mario che era in sosta in via Bitossi. Gli agenti vennero avvertiti che «si sono uditi diversi colpi di arma da fuoco» in via Fani. Dalla documentazione della Questura risulta che già alle 9:05 arrivò la prima comunicazione degli agenti della pattuglia di Monte Mario che, giunti sul posto in via Fani, provvidero ad allontanare la folla che si era radunata, ispezionarono le auto con i colleghi morenti, raccolsero le prime notizie dalle persone presenti e richiesero di «inviare subito le autoambulanze, sono della scorta di Moro e hanno sequestrato l’onorevole» (Sergio Flamigni ritiene errata l’indicazione dell’ora presente nella documentazione della Questura: a suo parere sarebbe stato impossibile per gli agenti dell’autopattuglia in appena due minuti raggiungere via Fani ed espletare il primo sopralluogo. Egli ritiene che l’orario del rapporto nella fretta del momento non venne indicato nell’annotazione e probabilmente venne aggiunto in un secondo momento). Gli agenti riferirono anche che i malviventi si sarebbero allontanati su una Fiat 128 bianca ed i poliziotti della pattuglia diramarono anche l’informazione che i terroristi sarebbero stati quattro e avrebbero indossato «divise da marinai o da poliziotti».

Alle 9:15 la Questura comunicò la notizia dell’agguato di via Fani alla centrale operativa della Legione dei carabinieri di Roma. Alla stessa ora la centrale operativa registrò anche la comunicazione telefonica di Pino Rauti che, abitando in via Fani, ebbe modo di osservare da una finestra alcune fasi dell’agguato e comunicò subito di aver sentito raffiche di mitra, di aver visto due uomini vestiti da ufficiali dell’aeronautica e di aver osservato allontanarsi una Fiat 132 blu.

Immagine dall’alto di via Fani il mattino del 16 marzo 1978.

Con il trascorrere dei minuti un numero sempre più elevato di funzionari e dirigenti raggiunse via Fani: tra essi il comandante generale dei carabinieri, generale Pietro Corsini, il procuratore capo Giovanni De Matteo con tre sostituti procuratori, il capo della Squadra mobile Fernando Masone, il capo della Legione carabinieri di Roma, colonnello Enrico Coppola, i generali Giuseppe Siracusano e Mario De Sena, il capo della DIGOS Spinella.

Intorno alle 09.30 giunse a via Fani e Eleonora Chiavarelli, moglie del presidente che, informata mentre teneva una lezione di catechismo nella chiesa di San Francesco, rimase sconvolta dalle notizie e poi dalla scena del delitto, manifestando i primi dubbi sulla vicenda. Il questore De Francesco cercò di tranquillizzare la donna e affermò che dalla metodica dell’agguato si poteva ragionevolmente essere sicuri che l’onorevole fosse ancora vivo[15].

La prima notizia dell’agguato raggiunse la nazione con i mezzi di comunicazione di massa alle ore 9:25 attraverso una edizione straordinaria del giornale radio del GR2. Il giornalista radiofonico Cesare Palandri parlò in tono emozionato di «drammatica notizia che ha dell’incredibile e che, anche se non ha trovato finora una conferma ufficiale, purtroppo sembra sia vera: il presidente della Democrazia cristiana, l’on. Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi. L’inaudito, ripetiamo, incredibile episodio è avvenuto davanti all’abitazione del parlamentare nella zona della Camilluccia». La scorta era composta da cinque agenti: «sarebbero tutti morti» Alle 9:31 anche il GR1 in edizione straordinaria comunicò che «il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro è stato rapito a Roma, stamane, all’uscita della sua abitazione. Gli uomini della scorta colpiti e uccisi, non si sa ancora se tutti, dal fuoco del commando».

Secondo la documentazione disponibile il primo posto di blocco organizzato dalla polizia venne attuato a partire dalle 9:24 nei pressi dello svincolo del Grande Raccordo Anulare di via Tiburtina, in un punto molto lontano dalla effettiva direzione seguita dai terroristi per la fuga; altri posti di blocco vennero ordinati dalle 9:25 in zona via Trionfale-Pineta Sacchetti; alle 9:33 è documentata l’entrata in funzione di un altro posto di blocco sulla via Cassia; alle 9:34 due elicotteri decollarono dall’aeroporto di Pratica di Mare per sorvolare la zona dell’agguato e controllare il traffico cittadino. Le disposizioni diramate agli uomini delle forze dell’ordine provenivano in modo confuso sia dalla polizia che dai carabinieri senza un effettivo coordinamento operativo centralizzato. Fin dalle 9:23 un’auto della polizia individuò la Fiat 132 targata «Roma P79560», abbandonata dai brigatisti in via Licinio Calvo.

Fu solo alle 9:45, circa quaranta minuti dopo l’agguato, che sistematici posti di blocco della polizia e dei carabinieri furono attivati sulle strade di accesso della città.

Alle 10:10 una telefonata anonima giunse al centralino dell’agenzia ANSA a Roma: il messaggio comunicato dallo sconosciuto riferiva seccamente che le Brigate Rosse avevano «sequestrato il presidente della Democrazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga» . Due minuti prima, alle 10:08, era già stato comunicato alla redazione milanese dell’ANSA da un’altra telefonata anonima che le Brigate Rosse avevano «portato l’attacco al cuore dello stato» e che «l’onorevole Moro è solo l’inizio», alle 10:13 giunse un messaggio simile anche alla redazione di Torino dell’ANSA.

Il corpo dell’agente Giulio Rivera riverso all’interno dell’Alfa Romeo Alfetta della scorta.

La prima riunione a Palazzo Chigi tra i rappresentanti dei partiti principali con il Presidente del Consiglio Andreotti avvenne a partire dalle 10:20 con la presenza di Berlinguer, Zaccagnini, Bettino Craxi, Pier Luigi Romita e Ugo La Malfa, vi presero parte anche i rappresentanti sindacali Luciano Lama, Giorgio Benvenuto e Luigi Macario. Nel frattempo si era diffusa nel Paese grande inquietudine e si erano verificati i primi scioperi spontanei di solidarietà democratica in fabbriche e uffici.

Tuttavia il 16 marzo ci fu chi brindò. Mario Ferrandi, militante di Prima Linea raccontò che quando si diffuse la notizia del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione della scorta (durante una manifestazione dei lavoratori dell’UNIDAL messi in cassa integrazione) ci fu un momento di stupore, seguito da uno di euforia e inquietudine perché c’era la sensazione che stesse accadendo qualcosa di talmente grosso che le cose non sarebbero state più le stesse, e ricordò che gli studenti presenti al corteo spesero i soldi della cassa del circolo giovanile per comprare lo spumante e brindare con i lavoratori della mensa

Alle 11:30 il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga convocò al Viminale i Ministri della Difesa, Attilio Ruffini, delle Finanze, Franco Maria Malfatti, e di Grazia e Giustizia, Franco Bonifacio, insieme al sottosegretario agli Interni, ai capi dei servizi di sicurezza, e ai capi della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, per organizzare il comitato tecnico-operativo, la struttura preposta al coordinamento delle indagini, delle ricerche dell’ostaggio, oltre a decidere e attuare le misure destinate a controbattere l’offensiva terroristica.

Il corpo dell’agente Raffaele Iozzino, coperto da un panno bianco, accanto all’auto della scorta.

La polizia scientifica aveva cercato subito di raccogliere il maggior numero di elementi utili per le indagini e alle ore 10:00 era stata redatta un’accurata relazione della scena presente sul luogo dell’agguato con descrizione della posizione dei cadaveri. Vennero rinvenute sulla Fiat 130 un borsello con dentro una pistola sotto il sedile dove era seduto il maresciallo Leonardi e un’altra pistola carica nello spazio compreso tra i due sedili anteriori; anche sull’Alfetta venne trovata una pistola con il caricatore pieno e colpo in canna nella stessa posizione; nell’auto della scorta venne rilevato come la radioricetrasmittente fosse accesa con il ricevitore adagiato sul pianale dell’autoveicolo; tra i piedi dell’agente Rivera fu trovato un piccolo pacchetto contenente una bottiglia piena di caffè. Gli agenti descrissero inoltre lo stato delle auto con i segni dei proiettili sulle fiancate di sinistra, sui finestrini, sul lunotto e sul portabagagli dell’Alfetta. Si cercò di recuperare tutti i bossoli dei proiettili, ma la confusione e la presenza di curiosi non permisero una completa individuazione di ogni elementi di prova; alcuni reperti vennero calpestati o spostati anche a causa della leggera pendenza del piano stradale di via Fani, in discesa su via Stresa. Sul piano stradale vennero repertati un cappello dell’Alitalia, un caricatore per pistola mitragliatrice contenente ventidue cartucce e due borse di cuoio. Nella Fiat 130 furono recuperate due borse di Aldo Moro rimaste sui sedili posteriori e cinque giorni più tardi fu ritrovata un’altra borsa nel bagagliaio posteriore della stessa auto.

Alle 12:36 i sanitari del Policlinico Gemelli comunicarono ufficialmente che anche il vicebrigadiere Francesco Zizzi, ricoverato in gravi condizioni dopo l’agguato, era morto per collasso cardiocircolatorio da shock emorragico a seguito di triplice ferita da arma da fuoco al torace.

Alle ore 12:45, dopo un iniziale rinvio, si aprì la seduta alla Camera dei deputati. Dopo un austero saluto del presidente Pietro Ingrao che espresse «lo sdegno per l’attacco infame allo stato democratico», prese la parola il Presidente del Consiglio Andreotti che illustrò sinteticamente il programma del suo governo dopo aver espresso la «volontà» dell’esecutivo «di rimuovere, nel limite delle umane possibilità, questi centri di distruzione del tessuto civile della nostra nazione».

Tra le forze politiche si manifestò smarrimento e grande turbamento e le reazioni dei principali esponenti dei partiti dimostrarono la profonda preoccupazione: Ugo La Malfa parlò di «stato di guerra» e di necessità di «misure eccezionali di guerra»; Giorgio Almirante arrivò al punto di richiedere la sostituzione del Ministro Cossiga con un militare, la promulgazione di una legge eccezionale e il ripristino della pena di morte, il Procuratore Capo della Repubblica Giovanni De Matteo propose di dichiarare lo stato di «pericolo pubblico». Altri uomini politici diedero invece grande importanza alla necessità di dare una risposta democratica al terrorismo; Francesco De Martino invitò a «non perdere la calma e mobilitare tutte le energie del Paese», Giovanni Malagodi richiese «coraggio e fermezza democratica»; Bettino Craxi parlò di «ferita della Repubblica» e di «temere che si diffonda una sorta di rassegnazione», Enrico Berlinguer vide nell’agguato di via Fani «un tentativo estremo di frenare un processo politico positivo» mentre Lucio Magri – come reazione alla strage – paventò l’emanazione di leggi liberticide sostenendo che eventuali provvedimenti in tal senso andavano «proprio sulla strada che la strategia dell’eversione vuole», e per combattere il terrorismo chiese al Paese un’autocritica e un impegno per affrontare i problemi che erano alla base della crisi economica e morale. Infine Benigno Zaccagnini, legato da sentimenti di fraterna amicizia con Aldo Moro, apparve sconvolto ed espresse solo «l’auspicio che possa essere messa in atto ogni azione capace di far fallire lo scopo di questa criminosa e criminale attività». Sandro Pertini, dopo aver parlato di «colpo al cuore della classe politica», propose di rinunciare alla discussione generale alla Camera e passare subito al voto di fiducia al nuovo Governo per dare un’immediata dimostrazione di solidarietà democratica.

Alle ore 20:35, dopo il discorso del Presidente del Consiglio Andreotti fu votata la fiducia al nuovo governo con 545 voti favorevoli, 30 voti contrari e tre astenuti.

Nella popolazione le drammatiche notizie di via Fani provocarono in grande maggioranza paura e dolore: l’inquietudine e lo sgomento furono i sentimenti prevalenti, si assistette a un significativo riavvicinamento popolare alle istituzioni democratiche e predominarono fenomeni di ripulsa e totale rifiuto della violenza e della brutalità dimostrata dai terroristi

Nella base comunista e operaia tuttavia non mancarono minoranze che manifestarono sentimenti di soddisfazione per l’attacco brigatista alla Democrazia Cristiana mentre nel Movimento di estrema sinistra l’azione di via Fani fece grande impressione e favorì un notevole reclutamento di nuovi militanti decisi a passare alla lotta armata. Nell’ambiente studentesco ci furono anche reazioni di esultanza.

Durante il resto della giornata del 16 marzo si susseguirono indiscrezioni e informazioni sulle prime indagini e sugli sviluppi della ricerca dei rapitori e dell’ostaggio. Vennero diramate dal sostituto procuratore Infelisi notizie completamente errate sul possibile impiego da parte dei terroristi di una pistola Nagant. Un’enorme quantità di segnalazioni da parte di cittadini fu registrata e controllata senza alcun risultato.

Il Ministero dell’Interno diffuse i nomi e le foto di diciannove presunti terroristi ricercati, probabilmente coinvolti. La lista presentava gravi errori e includeva anche criminali comuni, due persone già detenute e militanti di altri gruppi eversivi estranei ai fatti. Peraltro cinque persone incluse nella lista erano realmente responsabili dell’agguato di via Fani e del sequestro. Si trattava di brigatisti conosciuti e clandestini da anni: Mario Moretti, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Rocco Micaletto.

Alle ore 23:30 venne fermato, su disposizione del sostituto procuratore Infelisi, Gianfranco Moreno, dipendente di una banca, personaggio che si sarebbe ben presto rivelato completamente estraneo ai fatti.

In realtà, nonostante alcuni infortuni e una certa confusione, le autorità non erano state completamente inefficienti nelle prime, drammatiche ore dopo l’agguato. In particolare il dirigente della DIGOS Domenico Spinella aveva intrapreso le prime ricerche di elementi sospetti dell’estremismo romano di cui non si sapeva più nulla da anni. Tra il pomeriggio del 16 marzo e il mattino del 17 marzo, agenti di polizia si presentarono e sottoposero a perquisizioni le abitazioni ufficiali di Adriana Faranda e Valerio Morucci senza trovare traccia dei due, che erano effettivamente tra i principali responsabili del sequestro.

Nel frattempo alle ore 21:00 si era conclusa la seconda riunione del comitato tecnico-operativo presieduta dal Ministro Cossiga. In questa sede non erano emerse novità importanti, si era discusso soprattutto di intensificare i posti di blocco, di attivare contatti con i servizi segreti stranieri, di organizzare un piano di massicce perquisizioni alla ricerca della prigione dell’ostaggio, mentre si rinunciò invece a istituire una taglia sui rapitori.

LE BR

A partire dall’estate 1976 le Brigate Rosse erano riuscite a costituire una colonna dell’organizzazione a Roma, grazie soprattutto all’impegno di tre dirigenti giunti nella capitale dal Nord Italia:  la colonna romana crebbe progressivamente in efficienza. Furono costituite le prime basi in via Gradoli e in via Chiabrera e vennero eseguiti i primi attentati con ferimenti di giornalisti, uomini politici e dirigenti degli apparati dello stato. Ben presto l’obiettivo delle Brigate Rosse a Roma, città priva di grandi complessi industriali e di una forte classe operaia come le grandi città del Nord, divenne il cosiddetto «attacco al cuore dello stato», ossia l’organizzazione di un attentato clamoroso con il sequestro di un importante uomo politico della Democrazia Cristiana, partito dominante da oltre trent’anni in Italia, per incidere direttamente sulla vita politica nazionale, minare la solidità della Repubblica democratica e sviluppare e propagandare la lotta armata.

Secondo le dichiarazioni di alcuni brigatisti la scelta dell’obiettivo concreto fu in parte legata a considerazioni sulle difficoltà operative dell’eventuale azione. Si ritenne che un attentato contro Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio, o Amintore Fanfani, Presidente del Senato, presentasse problemi insormontabili a causa della forte protezione di cui disponevano per i loro incarichi istituzionali. Un agguato contro Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e protagonista delle recenti vicende politiche, sembrò invece più semplice: in realtà Mario Moretti ha affermato che fin dall’inizio Moro, per la sua statura politica, fu il vero obiettivo delle Brigate Rosse a Roma.

I quattro brigasti che uccisero le guardie del corpo di Aldo Moro nell’agguato di via Fani: Valerio MorucciRaffaele FioreProspero GallinariFranco Bonisoli

Inizialmente la pianificazione brigatista ipotizzò un sequestro incruento; durante la fase dell’inchiesta preliminare venne individuata la possibilità di effettuare l’azione all’interno della Chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici dove Aldo Moro sostava in preghiera quasi tutte le mattine accompagnato solo da due agenti di scorta. I brigatisti, in particolare Valerio Morucci, ritenevano di poter immobilizzare gli agenti dentro la chiesa e di poter fuggire con l’ostaggio attraverso l’uscita posteriore. Preoccupazioni su un eventuale conflitto a fuoco che avrebbe potuto coinvolgere estranei, compresi bambini e genitori di una scuola comunicante con il percorso di fuga, convinse però i brigatisti a rinunciare a questo piano.

Venne quindi studiato un piano alternativo che questa volta prevedeva l’uccisione di tutti gli uomini della scorta dell’uomo politico. Studiando le abitudini di Moro venne rilevato dai brigatisti come egli seguisse nella mattinata di regola sempre le stesse attività: se non aveva impegni particolari, Moro si recava per prima cosa, accompagnato dalla scorta, nella Chiesa di Santa Chiara percorrendo quasi sempre lo stesso percorso a partire dalla sua abitazione in via del Forte Trionfale. Lungo questo percorso abituale i brigatisti ritennero di poter effettuare l’agguato in via Mario Fani, una strada a doppio senso di marcia poco frequentata, costeggiata da quartieri residenziali, larga circa dieci metri, lunga e dritta, che si sviluppava con un andamento lievemente in discesa fino a uno stop all’incrocio con via Stresa, una strada più stretta, in salita e a senso unico di marcia che si ricollegava a via Trionfale. L’azione avrebbe presentato la grave difficoltà che il convoglio del presidente democristiano sarebbe stato in movimento, ma la strada in leggera pendenza e lo stop avrebbe rallentato la marcia consentendo ai brigatisti di fermare le auto utilizzando la cosiddetta tecnica dei «cancelletti».

Questa metodica prevedeva di bloccare il convoglio con uno stratagemma e di isolare l’area dell’agguato organizzando dei «cancelletti» di sbarramento con delle auto e i loro occupanti, interrompendo il traffico sia da entrambe le parti di via Fani sia dalla parte di via Stresa: in questo modo un gruppo di fuoco appostato all’incrocio, libero da minacce o interferenze di estranei, avrebbe potuto eliminare la scorta del presidente. Era inoltre essenziale proteggere la via di fuga del gruppo brigatista in direzione di via Trionfale. Il piano definitivamente adottato dai brigatisti prevedeva che un militante, tempestivamente avvertito da una brigatista dell’arrivo delle macchine del presidente, si sarebbe inserito sulla strada e avrebbe bloccato, fermandosi bruscamente allo stop con la sua auto, la scorta di Moro. L’auto utilizzata avrebbe esposto una targa CD (corpo diplomatico) per evitare sospetti tra gli uomini della scorta. La targa, rubata nel 1973 a un funzionario venezuelano, era arrivata alle Brigate Rosse tramite Valerio Morucci che l’aveva consegnata all’organizzazione nel settembre 1976.

Quindi l’incrocio di via Stresa e la parte bassa di via Fani sarebbero stati presidiati e sbarrati da altri tre brigatisti con due macchine: sul lato sinistro della strada, altri quattro militanti, travestiti da avieri Alitalia e armati di mitra, posizionati dietro le siepi di un bar chiuso per restauri all’angolo di via Fani, il bar Olivetti, sarebbero intervenuti di sorpresa sulle auto dell’uomo politico e avrebbero eliminato la scorta. Un’altra auto con un brigatista a bordo, pronta in via Stresa, avrebbe quindi caricato l’ostaggio insieme ad alcuni terroristi e sarebbe partita subito verso via Trionfale.

Per organizzare e portare a termine un’operazione così complessa sarebbe stato necessario impegnare l’intera colonna romana: inoltre furono richiamati nella capitale alcuni brigatisti esperti delle altre colonne del Nord. Alla fine del 1977 scese a Roma da Torino Raffaele Fiore «Marcello» che rimase nella capitale per alcuni giorni. Contemporaneamente da Milano ritornò Franco Bonisoli: in quest’occasione si svolse in un villino a Velletri una prima riunione con i militanti regolari della colonna, tra cui Morucci, Gallinari, Moretti, la Balzerani e la Faranda, in cui vennero discussi i dettagli dell’azione e vennero analizzati una serie di problemi tecnici. Fiore si recò anche sui luoghi previsti per l’agguato in compagnia di Morucci e Moretti.

Nel febbraio 1978 si tenne nel villino di Velletri un’importante direzione strategica delle Brigate Rosse con la partecipazione di militanti di tutte le colonne: da Torino arrivarono Fiore, Nadia Ponti «Marta» e due irregolari; venne definitivamente decisa l’azione contro Aldo Moro, denominata in codice all’interno dell’operazione «Fritz», e vennero studiati i risvolti politici del sequestro. Prospero Gallinari raccontò che durante quella riunione, a cui parteciparono anche i militanti scelti per l’azione di via Fani, si svolse nel giardino della villa l’unica esercitazione generale per studiare movimenti e tempi dell’operazione. Tra il 22 e il 23 febbraio iniziarono i sopralluoghi sistematici dei brigatisti nel luogo scelto per l’agguato per valutare sul terreno i problemi operativi.

Nella prima settimana di marzo ritornò a Roma Raffaele Fiore, che partecipò con Morucci e Bonisoli ad alcune prove con le armi sulla riva del mare, alloggiando i primi giorni a Velletri per poi trasferirsi nell’appartamento di Bruno Seghetti. La decisione definitiva del comitato esecutivo fu presa una settimana prima del 16 marzo e, a dire dei brigatisti, fu presa indipendentemente dal calendario dei lavori parlamentari e dalle notizie sugli sviluppi della formazione del nuovo governo Andreotti. Uno dei brigatisti presenti in via Fani, Franco Bonisoli, dichiarò che la decisione di rapire il presidente democristiano «fu presa una settimana prima, fu fissato un giorno, poteva essere il 15, poteva essere il 17.».

Il giorno inizialmente stabilito era il 15 marzo: il rinvio fu dovuto a difficoltà per il reperimento delle auto necessarie e anche al fatto che i brigatisti avevano notato che il 15 marzo, essendo mercoledì, la zona era perlustrata da guardie giurate della Mondialpol.

La coincidenza con la presentazione del nuovo Governo quindi secondo i brigatisti fu casuale: Morucci ha rievocato in sede processuale che il 16 marzo era il primo giorno che il gruppo si recava in via Fani per tentare di portare a compimento l’agguato e il sequestro La sera precedente i componenti del gruppo brigatista si erano riuniti, e durante la notte Raffaele Fiore e Bruno Seghetti eseguirono un ultimo compito, recandosi in via Brunetti 42 e squarciando le quattro gomme del furgone Ford Transit del fioraio Antonio Spiriticchio che, parcheggiando con il suo automezzo tutte le mattine per lavoro all’incrocio di via Fani, avrebbe potuto intralciare l’azione e correre il rischio di essere coinvolto nel conflitto a fuoco.

Appuntamento in via Fani

La notte del 16 marzo Mario Moretti, che a suo dire non riuscì a dormire, rimase in via Gradoli con Barbara Balzerani; Morucci e Bonisoli erano in via Chiabrera insieme ad Adriana Faranda[, Gallinari dormì con Anna Laura Braghetti in via Montalcini, mentre Fiore passò la notte a Borgo Vittorio nell’abitazione di Bruno Seghetti, insieme al quale in precedenza aveva squarciato le gomme dell’autoveicolo del fioraio Spiriticchio. Fu Moretti che controllò preliminarmente se quel mattino Aldo Moro fosse nella sua abitazione: il brigatista passò davanti alla casa del presidente, dove vide le auto della scorta pronte ad accompagnare l’uomo politico, e successivamente si portò in via Fani dove avvertì i suoi compagni che l’azione era confermata.

Nei loro racconti i quattro brigatisti del gruppo di fuoco, Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli ricordano che nelle prime ore della mattina del 16 marzo indossarono pesanti maglioni scuri a giro collo, giubbotti antiproiettile e impermeabili azzurri a doppio petto su cui erano stati cuciti i fregi dell’Alitalia, sotto cui nascosero i loro mitra inizialmente trasportati in borse di cuoio con marchio Alitalia. Tutti e quattro avevano berretti azzurri con visiera con i fregi della compagnia di bandiera italiana, acquistati alcuni giorni prima in un negozio di via Firenze da una donna, che si appurò in seguito essere Adriana Faranda.

I componenti del nucleo brigatista arrivarono in via Fani in piccoli gruppi intorno alle 8:45. Valerio Morucci «Matteo», armato con un mitra FNAB-43 e una pistola Browning HP, e Franco Bonisoli «Luigi», con un altro FNAB-43 e una pistola Beretta M51, si mossero su una Fiat 127 che poi abbandonarono nei pressi del mercato Trionfale e salirono su una Autobianchi A112 con la quale arrivarono in via Stresa, quindi si diressero a piedi sul luogo dell’agguato che raggiunsero per primi. Poco dopo arrivarono anche gli altri due brigatisti travestiti da avieri, Prospero Gallinari «Giuseppe», che aveva un mitra TZ45 e una pistola Smith & Wesson Model 39, e Raffaele Fiore «Marcello», con una pistola mitragliatrice Beretta M12 e una pistola Browning HP; i quattro si portarono con calma dietro le siepi del bar Olivetti, chiuso per lavori, con le saracinesche abbassate, poste all’angolo della strada nei pressi dello stop di via Fani su via Stresa. Secondo Raffaele Fiore, i quattro brigatisti si divisero in due coppie poco distanti tra loro, fingendo di chiacchierare; egli ha rievocato anche la grande tensione presente e l’attenzione messa per controllare eventuali situazioni imprevist.

Nello stesso tempo anche gli altri brigatisti raggiunsero le posizioni stabilite. Mario Moretti «Maurizio», armato con un mitra Beretta MAB 38 e una pistola Browning HP, era a bordo della Fiat 128 con targa CD ferma sulla destra di via Fani subito dopo via Sangemini, pronto a muovere verso l’incrocio di via Stresa: in precedenza, dopo essere arrivato in compagnia della Balzerani, aveva percorso a piedi via Fani per controllare che tutti fossero ai loro posti[76]. Su una Fiat 128 bianca Alessio Casimirri «Camillo» e Alvaro Lojacono «Otello», che disponevano di un fucile M1 cal. 30, erano in attesa sullo stesso lato di via Fani, poco più avanti di Moretti. Dall’altra parte dell’incrocio di via Stresa era ferma una Fiat 128 blu, rivolta con il muso verso la direzione da cui era previsto l’arrivo delle auto dell’onorevole Moro: a bordo di quest’auto c’era Barbara Balzerani «Sara», armata con una mitraglietta Vz 61 Skorpion. In via Stresa, fermo contromano sul lato sinistro della strada, a pochi metri dall’incrocio c’era Bruno Seghetti «Claudio» alla guida di una Fiat 132 blu: questa vettura avrebbe dovuto tornare indietro in retromarcia e caricare a bordo l’ostaggio; infine una A112 era ferma senza occupanti sul lato destro di via Stresa a venti metri dall’incrocio.

Alle ore 9:00 circa Rita Algranati «Marzia», la giovane ragazza appostata all’inizio di via Fani, vide arrivare il convoglio delle auto dell’onorevole Moro e con un mazzo di fiori in mano fece il segnale convenuto allertando Mario Moretti: subito dopo abbandonò il luogo dell’azione su un ciclomotore. Moretti quindi, appena vide arrivare le auto, partì a sua volta e riuscì a inserirsi nel momento giusto proprio davanti al convoglio del presidente, rallentò opportunamente l’andatura evitando tuttavia di farsi superare, sorpassò una Fiat 500 che procedeva lentamente e le macchine di Moro superarono a loro volta e lo seguirono subito dietro. Allo stop su via Stresa, Moretti si arrestò, fermandosi leggermente di traverso per occupare la maggior parte della carreggiata.

Riguardo alla fase iniziale dell’agguato le ricostruzioni di Valerio Morucci e quelle di Moretti e Fiore sono parzialmente discordanti: mentre Morucci riferì che la fermata allo stop di via Fani della Fiat 128 CD guidata da Moretti provocò un immediato tamponamento a catena con la Fiat 130 dell’onorevole Moro e l’Alfetta della scorta, Moretti e Fiore ricordano invece che inizialmente non ci fu alcun tamponamento e che le auto del presidente democristiano si fermarono regolarmente dietro la Fiat 128 CD apparentemente senza sospettare alcun pericolo; Moretti notò anche che l’appuntato Ricci gli segnalò di ripartire.

Lo scontro a fuoco

I quattro brigatisti travestiti da avieri, non appena videro arrivare le tre auto nei pressi dell’incrocio di via Fani, cominciarono a uscire da dietro le siepi del bar Olivetti e quindi estrassero i mitra dalle loro borse e si portarono il più rapidamente possibile al centro della strada per avvicinarsi al massimo alle auto e aprire immediatamente il fuoco. «Matteo» (Morucci) e «Marcello» (Fiore) si mossero verso la Fiat 130 del presidente, mentre «Giuseppe» (Gallinari) e «Luigi» (Bonisoli) si avvicinarono all’Alfetta: in pochi istanti i quattro brigatisti raggiunsero le auto ferme e iniziarono a sparare da distanza estremamente ravvicinata con le loro armi automatiche, cogliendo completamente di sorpresa gli agenti di scorta. Valerio Morucci sparò attraverso il parabrezza con l’FNAB-43 e colpì ripetutamente il maresciallo Leonardi, ma Raffaele Fiore (che aveva il compito di uccidere l’autista della Fiat 130, appuntato Ricci) dopo pochi colpi ebbe il suo mitra M12 (teoricamente l’arma più moderna a disposizione dei terroristi) inceppato: egli sostituì il caricatore ma non riuscì a riprendere il fuoco e di conseguenza l’appuntato Ricci non venne subito eliminato.

Contemporaneamente anche gli altri due brigatisti si avvicinarono all’Alfetta: aprirono il fuoco subito contro la scorta; anche la fiancata sinistra dell’auto fu raggiunta da molti colpi. Sarebbe stato proprio l’immediato, grave ferimento dell’agente Rivera che innescò il tamponamento a catena; l’autista della l’Alfetta colpito rilasciò la frizione e l’auto quindi tamponò la Fiat 130 che a sua volta fece un movimento in avanti e colpì la 128 CD con Moretti rimasto alla guida. Alle spalle delle due auto dell’onorevole Moro si erano intanto portati Casimirri e Lojacono che bloccarono il traffico lungo via Fani con la loro Fiat 128 bianca e provvidero a intimidire con le armi le poche persone presenti sul luogo e il figlio del giornalaio dell’edicola posta lungo via Fani].

Il cadavere dell’appuntato Domenico Ricci, autista di Aldo Moro, riverso sul posto guida della Fiat 130; sul sedile posteriore si scorgono alcuni effetti personali di Moro.

Nel frattempo anche Barbara Balzerani si era subito portata all’incrocio di via Stresa e con la mitraglietta Skorpion controllò e bloccò il flusso delle auto da quella direzione mentre alle sue spalle infuriava il conflitto a fuoco. Anche i due brigatisti impegnati contro l’Alfetta ebbero problemi con le loro armi: Gallinari riuscì a sparare per alcuni secondi prima che anche il suo mitra si inceppasse, egli quindi continuò a sparare con la sua pistola Smith&Wesson M39, mentre Bonisoli sparò circa un caricatore contro gli agenti dell’Alfetta.

Secondo i racconti di Moretti, Fiore e Morucci, l’appuntato Ricci ebbe il tempo di effettuare alcuni disperati tentativi di sfuggire alla trappola: mentre Fiore cercava di risolvere i problemi del suo M12, Morucci, dopo aver sparato al maresciallo Leonardi, si trovò in difficoltà con il suo FNAB-43 e si spostò per alcuni secondi verso l’incrocio di via Stresa per tentare di disinceppare la sua arma. L’appuntato Ricci fece varie volte delle manovre per svincolare la Fiat 130 ma, bloccato posteriormente dall’Alfetta e anteriormente dalla Fiat 128 CD non riuscì a trovare una via d’uscita. Moretti, che avrebbe dovuto intervenire all’incrocio per aiutare la Balzerani, invece rimase dentro l’auto, inserì il freno a mano e tenne premuto il freno a pedale cercando di mantenere il blocco; il tentativo dell’appuntato Ricci di passare sulla destra fu impedito anche dalla casuale presenza sul bordo della strada da quel lato di una Mini Minor parcheggiata.

Entro pochi secondi Valerio Morucci riuscì a risolvere i problemi tecnici del suo mitra, riuscendo quindi a ritornare verso la Fiat 130 e sparare altre raffiche ravvicinate che uccisero l’appuntato Ricci: nel frattempo mentre l’agente Rivera e il vicebrigridiere Zizzi erano stati ripetutamente colpiti, l’agente Iozzino, posto sul sedile posteriore destro dell’Alfetta e quindi relativamente meno esposto al fuoco da sinistra dei brigatisti, riuscì a uscire dall’auto e a rispondere al fuoco con la sua pistola Beretta 92 esplodendo alcuni colpi. Sia Gallinari che Bonisoli spararono contro l’agente Iozzino: secondo il racconto di Moretti, sarebbe stato Bonisoli che, dopo aver esaurito il caricatore del suo mitra FNAB-43, aveva riaperto il fuoco con la sua pistola Beretta 51, a colpire mortalmente l’agente di polizia verosimilmente già raggiunto in precedenza da altri proiettili dei due brigatisti. Bonisoli si sarebbe mosso per aggirare da sinistra l’agente Iozzino, che cadde riverso supino sul piano stradale. Secondo il racconto di Morucci, Bonisoli avrebbe quindi raggiunto, ormai al termine del conflitto a fuoco, il lato destro della strada dove sparò altri colpi verso l’Alfetta e ritornò, passando da quel lato, verso l’incrocio di via Stresa

Fuga da via Fani

Il conflitto a fuoco era finito e Raffaele Fiore aprì subito la portiera posteriore sinistra della Fiat 130 ed estrasse l’onorevole Moro dall’auto: l’impronta della mano di grandi dimensioni che fu rilevata dai periti sulla portiera sarebbe appartenuta proprio a Fiore. L’uomo politico era abbassato sul sedile posteriore, apparentemente illeso, silenzioso e fortemente scosso. Egli non oppose alcuna resistenza e Fiore, uomo di robusta costituzione fisica, lo afferrò per un braccio e, aiutato anche da Moretti che, uscito finalmente dalla Fiat 128 CD, si era portato sulla strada, lo trascinò in direzione della Fiat 132 blu con alla guida Bruno Seghetti. Quest’ultimo si era portato subito in retromarcia da via Stresa in via Fani e si affiancò alla Fiat 130: Fiore fece entrare l’ostaggio nell’autovettura e lo fece sdraiare, nascosto da una coperta, sui sedili posteriori, dove salì egli stesso, mentre Moretti si pose nel sedile anteriore destro. Seghetti partì subito con la 132 blu lungo via Stresa in direzione di via Trionfale con a bordo Fiore, Moretti e l’ostaggio.

In questa fase i brigatisti non seguirono esattamente lo schema stabilito che prevedeva che l’auto destinata a guidare il convoglio fosse la 128 blu, seguita dalla 132 blu e dalla 128 bianca; Morucci, scosso dalla violenza dell’azione, mostrò una certa indecisione, perse tempo e venne sollecitato da Gallinari ad affrettarsi dato che la Fiat 132 era già partita; Morucci quindi prese due delle cinque borse dell’onorevole Moro dalla Fiat 130 e si diresse alla Fiat 128 blu ferma nella parte bassa di via Fani dove erano già in attesa Barbara Balzerani sui sedili posteriori e Franco Bonisoli sul posto del passeggero. Le due borse, che secondo i brigatisti contenevano medicinali, tesi di laurea, lettere di raccomandazione e un progetto di riforma delle forze dell’ordine, furono caricate sulla Fiat 128 blu, Morucci si mise alla guida dell’auto e finalmente partì a sua volta, seguendo a circa 50 metri di distanza le altre macchine lungo via Trionfale. Subito dietro l’auto guidata da Seghetti con l’ostaggio a bordo, viaggiava in questa prima fase della fuga la Fiat 128 bianca di Casimirri e Lojacono su cui era salito anche Gallinari. Sul piano stradale rimase abbandonata una borsa in cuoio nera, su cui era stata applicata dai brigatisti la scritta Alitalia, che Morucci aveva utilizzato per nascondere il suo mitra

Fuga dei brigatisti

Le tre auto si diressero a forte velocità lungo via Stresa quindi proseguirono per via Trionfale attraverso piazza Monte Gaudio: secondo il racconto di Morucci, egli con la Fiat 128 blu in un primo tempo recuperò il terreno perduto e passò in testa al convoglio come previsto dal piano iniziale. Raffaele Fiore riferì che durante il tragitto le loro macchine incrociarono un’auto della polizia a sirene spiegate che non si accorse di nulla. I brigatisti avevano studiato una deviazione del percorso per evitare possibili inseguimenti e far perdere le loro tracce: il piano ebbe successo, dopo aver percorso via Trionfale e aver attraversato largo Cervinia, le tre auto effettuarono una svolta repentina su via Belli, una strada secondaria parzialmente occultata dalla vegetazione, quindi imboccarono via Casale de Bustis, un’altra strada secondaria il cui accesso era chiuso da una sbarra bloccata da una catena.

Per effettuare la svolta verso via Belli, Morucci si allargò troppo, perse nuovamente terreno, fu superato dalle altre auto e ritornò in coda al gruppo; di conseguenza fu la Fiat 132 blu che giunse per prima alla sbarra; uno degli occupanti dell’auto scese e con una tronchese ruppe la catena e sollevò la sbarra permettendo l’accesso a via Casale de Bustis. Le tre auto poterono quindi percorrere questa strada, quindi proseguirono e raggiunsero via Massimi.

In via Massimi era già predisposta una Citroën Dyane azzurra su cui salì Seghetti che prese la testa del convoglio, mentre Moretti passò alla guida della Fiat 132 blu dove erano Moro e Raffaele Fiore: poco più avanti, in via Bitossi, era invece pronto un furgone grigio chiaro.  Morucci quindi lasciò la Fiat 128 blu, prese le due borse di Moro e passò alla guida del furgone; tutti gli automezzi proseguirono per via Bernardini. Le tre auto originarie dei brigatisti, il furgone con Morucci alla guida e la Dyane guidata da Seghetti percorsero via Serranti e raggiunsero finalmente piazza Madonna del Cenacolo, il punto scelto per il trasbordo dell’ostaggio; qui Aldo Moro venne fatto scendere e, sotto la copertura fornita dalle auto affiancate, fu fatto salire da Moretti e Fiore attraverso il portello laterale del furgone e fatto entrare in una cassa di legno già pronta nel veicolo alla cui guida passò Mario Moretti; Morucci e Seghetti precedettero con la Dyane il furgone lungo la seconda parte del percorso di fuga, mentre le altre auto, la Fiat 132 blu, la Fiat 128 blu e la Fiat 128 bianca furono portate tutte e tre in via Licinio Calvo e abbandonate. Secondo il racconto dei brigatisti, quindi, in piazza Madonna del Cenacolo, tra le 9:20 e le 9:25, il gruppo si sciolse e i brigatisti effettuarono il cambio delle auto. Essendo Aldo Moro visibile nella Fiat 132, fu questo il momento più rischioso del piano di fuga dei brigatisti, ma in questa fase l’allarme generale non era ancora scattato e quindi il trasbordo venne completato senza difficoltà o interferenze.

Fiore, Bonisoli e la Balzerani, dopo aver raggiunto via Licinio Calvo, si allontanarono a piedi, lasciando i loro mitra dentro la Fiat 132 blu, quindi Raffaele Fiore e Franco Bonisoli, armati di pistole, discesero le scalette sottostanti che portavano in viale delle Medaglie d’Oro-Piazza Belsito: da lì si recarono alla stazione Termini con i mezzi pubblici dove presero il treno per Milano. Durante il viaggio in treno i due non ebbero alcuna notizia dello sviluppo degli eventi e poterono solo scambiarsi alcune impressioni e cercare di sondare i commenti delle persone: giunti a Milano i due si divisero e Fiore proseguì in treno fino a Torino. I mitra vennero raccolti da Alessio Casimirri che con le armi si recò, accompagnato da Rita Algranati, in auto al mercato di via Trionfale dove incontrò Raimondo Etro e Bruno Seghetti, ai quali consegnò le pistole automatiche: Seghetti si allontanò trasportando le armi nascoste in un carrello della spesa.

Secondo il racconto dei brigatisti, da piazza Madonna del Cenacolo il furgone guidato da Moretti, con il sequestrato nella cassa di legno, e la Dyane con Morucci e Seghetti si diressero con un percorso particolarmente tortuoso fino al parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi, nella zona Sud-Ovest di Roma, che raggiunsero senza difficoltà dopo circa venti minuti. Morucci ha descritto il complicato percorso lungo strade private e la zona delle vecchie fornaci, quindi i due automezzi avrebbero tagliato la circonvallazione, superato un solo semaforo, percorso la via dei vecchi casali, l’antica strada del porto fluviale, infine una stretta strada fino al vialone e quindi al grande supermercato. Nel parcheggio sotterraneo la cassa con il sequestrato fu trasferita senza difficoltà e senza destare sospetti dal furgone su un Citroën Ami 8 già in attesa. Le ricostruzioni brigatiste di questa fase non sono molto chiare, sembra tuttavia che nel parcheggio fosse già pronto Prospero Gallinari e forse anche Germano Maccari: furono Moretti e Gallinari che portarono la Ami 8 con la cassa con il sequestrato fino in via Montalcino 8, l’appartamento affittato da Anna Laura Braghetti per fungere da luogo di detenzione di Aldo Moro. Entro trentacinque minuti dal momento del sequestro Moretti e Gallinari raggiunsero la cosiddetta «prigione del popolo».

Dal racconto dei brigatisti sembra che Seghetti e Morucci lasciarono l’ostaggio a Mario Moretti ancor prima del completamento del trasbordo della cassa con il sequestrato nel parcheggio sotterraneo della Standa: essi, controllato che non ci fossero problemi nel parcheggio, ripartirono subito con la Dyane e raggiunsero Trastevere dove Morucci scese a piedi mentre Seghetti parcheggiò l’auto e si allontanò a sua volta. Valerio Morucci alle ore 10:10 da una cabina telefonica effettuò la prima telefonata all’ANSA rivendicando a nome delle Brigate Rosse il sequestro e l’«annientamento» delle «teste di cuoio di Cossiga» e alle ore 10:30 rientrò da solo in via Chiabrera dove era in attesa Adriana Faranda, alla quale apparve scosso e fortemente provato.

Analisi degli aspetti controversi della ricostruzione dell’agguato[

Le vittime di via Fani; in alto Oreste Leonardi, in basso da sinistra: Raffaele IozzinoFrancesco ZizziGiulio RiveraDomenico Ricci.

Nei pochi minuti dell’agguato in via Fani, solo l’agente Iozzino riuscì, essendo seduto nel sedile posteriore destro dell’Alfetta – e quindi nel punto più lontano rispetto ai quattro brigatisti travestiti da avieri – a uscire dall’auto e rispondere al fuoco con la sua pistola. Gli altri componenti della scorta furono tutti uccisi o feriti mortalmente all’interno delle auto e furono ritrovati accasciati sui sedili senza aver potuto neppure impugnare le loro armi che peraltro non erano a portata di mano: il maresciallo Leonardi teneva la sua pistola in un borsello riposto sotto il sedile anteriore. Questa mancata prontezza all’uso delle armi fu un grave errore degli uomini della scorta. Sono state analizzate le ragioni di questa mancanza di reazione della scorta. Si è parlato, senza giungere a conferme definitive, della possibile disattivazione da parte brigatista degli stop della Fiat 128 CD: è stata ventilata perfino l’ipotesi che gli aggressori fossero persone conosciute dagli uomini della scorta, in particolare dal maresciallo Leonardi, che quindi in un primo tempo non ritennero di avere nulla da temere da costoro. Questa tesi è stata respinta da Valerio Morucci, il quale ha affermato che in particolare il maresciallo Leonardi, trovandosi sul sedile anteriore destro, non avrebbe in ogni caso potuto vedere nulla, dato che a suo dire sul lato destro della strada non c’era alcun brigatista.

I cadaveri dell’appuntato Domenico Ricci e del maresciallo Oreste Leonardi.

In teoria gli agenti della scorta erano addestrati ed esperti: Raffaele Iozzino era un tiratore scelto, il maresciallo Leonardi era un ex-paracadutista, Ricci era in servizio da molti anni come autista di Moro; inoltre disponevano di armi moderne, le pistole semiautomatiche Beretta 92 calibro 9 e tre pistole mitragliatrici Beretta M12. Sembra tuttavia dalle risultanze documentali e dalle testimonianze raccolte, che l’addestramento non fosse molto curato e che il personale incaricato della protezione dell’onorevole Moro non avesse la percezione di un imminente pericolo: durante il servizio le armi erano tenute con la sicura attivata mentre i mitra, la cui manutenzione era insufficiente, erano riposti nel bagagliaio. Inoltre il 16 marzo 1978 la scorta sull’Alfetta era guidata per la prima volta dal vicebrigadiere Francesco Zizzi che, provenendo da incarichi amministrativi, non aveva esperienze precedenti come caposcorta. I due capiscorta che si alternavano nel servizio erano il brigadiere di P.S. Rocco Gentiluomo e il brigadiere di P.S. Ferdinando Pallante: in teoria il compito il 16 marzo sarebbe spettato al brigadiere Gentiluomo che però era in ferie e aveva richiesto il giorno precedente al vicebrigadiere Zizzi di sostituirlo per una settimana.

Dal punto di vista operativo inoltre è stato rilevato come l’auto della scorta viaggiasse troppo vicino alla Fiat 130 dell’onorevole Moro, il che rese inevitabile il tamponamento tra gli autoveicoli e l’impossibilità di trovare spazio per svincolare le auto: secondo la moglie del presidente, Eleonora Moro, il maresciallo Leonardi aveva evidenziato ripetutamente la necessità di mantenere maggiori distanze tra le auto; si erano già in precedenza verificati incidenti durante i trasferimenti; apparentemente però le direttive fornite agli uomini della scorta richiedevano che la loro auto «tallonasse» la Fiat 130 del presidente. Le disposizioni di servizio per le scorte non prevedevano che le armi d’ordinanza fossero impugnate durante il percorso: questo era previsto solo in caso di effettivo pericolo immediato, invece in caso di sosta prolungata delle auto per problemi del traffico, gli uomini della scorta sarebbero dovuti uscire immediatamente dall’auto e schierarsi armi in mano a protezione della macchina della personalità scortata. Di fatto gli agenti evidentemente non percepirono affatto una situazione di pericolo immediato allo stop di via Fani e furono quindi colti di sorpresa dai brigatisti «avieri».

La pistola Beretta 92 era l’arma individuale a disposizione degli agenti della scorta.

Aldo Moro non disponeva di un’auto blindata, nonostante fosse preoccupato per l’incolumità sua e dei suoi familiari e avesse chiesto anche per loro una protezione. A questo riguardo è stato evidenziato come il Ministero dell’Interno in quel periodo disponesse di 28 auto blindate che però erano state distribuite con criteri sorprendenti, assegnandole alcune a persone poco note non esposte a pericoli di attentati politici. La moglie dell’appuntato Ricci testimoniò in sede processuale che il marito era a conoscenza di una richiesta presentata per disporre di un’auto blindata e che Ricci nel dicembre 1977 era in ansiosa attesa dell’arrivo di questo mezzo. Peraltro deve essere rilevato che il 16 marzo 1978 neppure il Presidente del Consiglio Andreotti disponeva di un’auto blindata.

Si ipotizzò inoltre che gli uomini della scorta tenessero i mitra nel portabagagli per via di certe prevenzioni di Moro nei confronti delle armi. Quando Severino Santiapichi, presidente della Corte d’assise durante il processo, chiese spiegazioni al riguardo, la vedova del presidente DC rispose: «Non era affatto un’idea di mio marito, assolutamente no, era il fatto tragico che questa gente le armi non le sapeva usare perché non facevano mai esercitazioni di tiro, non avevano abitudine a maneggiarle, tanto che il mitra stava nel portabagagli. Leonardi ne parlava sempre. “Questa gente – diceva – non può avere un’arma che non sa usare. Deve saperla usare. Deve tenerla come si deve. La deve tenere a portata di mano. La radio deve funzionare, invece non funziona.” Per mesi si è andati avanti così. Il maresciallo Leonardi e l’appuntato Ricci non si aspettavano un agguato, in quanto le loro armi erano riposte nel borsello e uno dei due borselli, addirittura, era in una foderina di plastica.»

In sintesi quindi si può ritenere che la mancata reazione della scorta non sia riconducibile a motivazioni misteriose ma sia stata causata in primo luogo dall’effetto sorpresa dell’agguato brigatista che colse totalmente impreparati gli agenti e in secondo luogo dalla loro insufficiente preparazione al compito assegnato. Lo stesso maresciallo Leonardi, la persona da molti anni più vicina a Moro e uomo di grande esperienza militare, che pur avrebbe manifestato preoccupazioni per la sicurezza dell’uomo politico e per la mancanza di mezzi e le carenze di addestramento del personale, venne colto di sorpresa da un attacco di violenza e subitaneità completamente inattesa. Il maresciallo Leonardi infatti venne trovato accasciato, in parte voltato sul fianco, all’interno della Fiat 130 in posizione apparentemente naturale: egli non avrebbe tentato alcuna reazione; secondo Valerio Morucci Leonardi si sarebbe unicamente preoccupato di salvaguardare la vita dell’onorevole Moro cercando di farlo abbassare. Tuttavia la vedova del maresciallo, Ileana Leonardi, ricordò che il marito «ultimamente andava in giro armato perché si era accorto che una macchina lo seguiva».

La perizia stabilì che in via Fani avevano sparato sei armi dei brigatisti, quattro mitra e due pistole, oltre alla pistola d’ordinanza dell’agente Iozzino che esplose due colpi: le armi dei terroristi avrebbero esploso almeno 91 colpi di cui furono ritrovati i bossoli, mentre i proiettili ritrovati furono 68, e 23 risultarono dispersi. Di questi 68 proiettili ritrovati, 61 raggiunsero i bersagli: 27 colpirono la Fiat 130 e 34 l’Alfetta di scorta. Di questi 61 quelli che colpirono effettivamente gli uomini della scorta furono 45, ovvero il 49% del totale di 91, mentre 23 non raggiunsero gli agenti e altri 23 non furono rintracciati. I 45 proiettili raggiunsero: l’appuntato Ricci, 8 colpi, il maresciallo Leonardi, 9 colpi, l’agente Rivera, 8 colpi, il vicebrigadiere Zizzi, 3 colpi, e l’agente Iozzino, 17 colpi.

I periti inoltre affermarono che verosimilmente gli agenti Rivera e Iozzino e l’appuntato Ricci sarebbero stati raggiunti anche da «colpi di grazia» a distanza ravvicinata: infine sottolinearono la capacità dimostrata dai brigatisti di annientare la scorta lasciando illeso il rapito. Queste conclusioni della perizia del 1978, che facevano propria in pratica la famosa definizione di Franco Piperno sulla cosiddetta «geometrica potenza» dimostrata dai brigatisti nell’agguato, sembra che non tengano nel dovuto conto le reali modalità operative adottate dai brigatisti del nucleo di fuoco.

Sbucando fuori dalle siepi del bar Olivetti i quattro brigatisti travestiti da avieri, Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli, percorsero in pochi attimi i circa cinque metri di carreggiata che li dividevano dalle auto dell’onorevole Moro, essendo via Fani larga in quel punto non più di dieci metri, e poterono quindi aprire il fuoco direttamente sui bersagli da una distanza ravvicinata che, secondo le valutazioni di Pietro Benedetti – autore insieme a Domenico Salza della perizia degli anni novanta – avrebbe consentito anche a persone non specialiste di colpire agevolmente con armi automatiche gli uomini della scorta senza mettere in pericolo la vita dell’uomo politico. Adriana Faranda affermò davanti alla Commissione Stragi che «a quella distanza era quasi impossibile sbagliare» e che con i mitra non era stato neppure necessario mirare. Inoltre dalle perizie risulterebbero anche traiettorie intrasomatiche dall’alto in basso sui cadaveri di Ricci e Leonardi: il fatto dimostrerebbe che i brigatisti «avieri» Morucci e Fiore discesero lungo la leggera pendenza di via Fani e, proprio per evitare il rischio di colpire Moro, si portarono fino a pochi centimetri dalla Fiat 130, sparando all’in giù verso gli agenti. I cosiddetti «colpi di grazia» riferiti da alcune ricostruzioni, non sarebbero altro quindi che colpi esplosi a distanza particolarmente ravvicinata dai brigatisti.

Il numero reale dei componenti del gruppo brigatista in via Fani, la loro identità e la loro dislocazione sul luogo dell’azione sono stati fin dall’inizio elementi fortemente discussi e fonti di grandi diatribe e valutazioni ampiamente discordanti in sede processuale, pubblicistica e storica. I brigatisti, collaboranti o comunque interessati a descrivere i fatti di via Fani, hanno fornito nel corso del tempo informazioni spesso contraddittorie, non del tutto attendibili, e hanno mostrato una notevole reticenza riguardo a questo argomento decisivo.

Nel 1994 Mario Moretti, nel suo libro di memorie, descrisse la presenza di un decimo componente, una donna – identificata in un secondo tempo in Rita Algranati – che avrebbe avvistato per prima le auto del politico democristiano e segnalato l’arrivo del convoglio: infine comparve anche il nome di Raimondo Etro, di cui venne ritenuta probabile la presenza nella zona il 16 marzo con il compito di raccogliere dopo l’agguato le armi utilizzate dal gruppo di fuoco. Tuttavia, sulla base delle risultanze processuali e dell’inchieste delle commissioni parlamentari, le versioni dei brigatisti, modificate numerose volte durante gli anni, non sono state ritenute del tutto esaurienti: in questa sede, e anche a livello pubblicistico, si è continuato a ritenere che il numero dei partecipanti in via Fani sia stato più alto.

In particolare, oltre a ipotizzare la presenza di altre persone all’incrocio di via Stresa in appoggio della Balzerani e di un’altra persona già a bordo della Fiat 128 blu su cui sarebbero fuggiti Morucci, Balzerani e Bonisoli, è stato ritenuto soprattutto altamente probabile che altri due terroristi fossero presenti a bordo di una moto Honda, come riferito fin dall’inizio da almeno tre testimoni (tra cui l’ingegnere Alessandro Marini che, a bordo di un motorino all’incrocio di via Fani con via Stresa, avrebbe visto i due sulla moto, ricevendo anche dei colpi di mitra che colpirono il suo parabrezza). Anche l’agente della polizia stradale non in servizio Giovanni Intrevado che, con la sua Fiat 500, venne bloccato all’incrocio di via Stresa da una donna armata di mitra senza poter intervenire, riferì di aver visto una moto di «grossa cilindrata» con due uomini a bordo. La presenza di altri militanti su una moto Honda è invece sempre stata smentita dai brigatisti. Raimondo Etro ha smentito di essere stato uno dei passeggeri della Honda ed ha affermato che Alessio Casimirri lo aveva informato della presenza imprevista di una moto che non aveva nulla a che fare con il commando brigatista.

Inoltre dal racconto di alcuni testimoni, tra cui lo stesso ingegner Marini, e dalle risultanze delle perizie sui cadaveri, in sede processuale si sono raggiunte conclusioni parzialmente discordanti rispetto alla versione dei brigatisti sulla esatta modalità dell’agguato: queste ricostruzioni prevederebbero la presenza di un altro uomo a bordo della Fiat 128 CD accanto a Moretti. Sarebbe stato quest’uomo, secondo la perizia del processo del 1993, che sarebbe sceso dal lato destro della Fiat 128 CD e avrebbe aperto il fuoco dalla destra della strada colpendo subito mortalmente il maresciallo Leonardi. Questa ricostruzione permetterebbe di spiegare le direzioni dei colpi rilevate dalle perizie sui corpi del maresciallo Leonardi, 9 colpi rinvenuti con orientamento da destra a sinistra, dell’agente Rivera, 5 colpi da destra a sinistra, e forse dell’agente Iozzino e del vicebrigadiere Zizzi, su cui le perizie sono più incerte. Sull’identità di questo ipotetico brigatista in azione sul lato destro della strada non si è giunti a conclusioni realmente attendibili, anche se lo scrittore Manlio Castronuovo ritiene che fosse Riccardo Dura, brigatista genovese particolarmente determinato, morto nel 1980 nello scontro di via Fracchia a Genova.

I brigatisti hanno sempre escluso la presenza di loro militanti sul lato destro della strada e hanno evidenziato che essi aprirono il fuoco solo dalla sinistra per evitare gravi rischi di incidenti fortuiti con la possibilità di colpirsi tra loro per errore. In effetti deve essere rilevato che la maggior parte dei testimoni oculari riferirono soltanto di aver visto un numero variabile di «avieri» sparare dal lato sinistro della strada contro le auto ferm. Riguardo alla eventuale presenza di Riccardo Dura in via Fani, Valerio Morucci la escluse decisamente in sede processuale rivelando che il brigatista genovese effettivamente era stato in un primo tempo compreso nel gruppo con il ruolo di aiutare Barbara Balzerani all’incrocio di via Stresa, ed era anche giunto a Roma dove abitava nell’appartamento di quest’ultima, ma alcuni giorni prima dell’agguato si decise di rinunciare alla sua partecipazione.

DUBBI SULLA FUGA

Le circostanze della fuga dei brigatisti hanno suscitato dubbi, e le ricostruzioni fornite dai terroristi non hanno mancato di provocare incredulità e scetticismo tra inquirenti, storici e giornalisti. Secondo i racconti dei brigatisti, in via Bitossi sarebbe state parcheggiate preventivamente, senza occupanti a bordo, il furgone su cui era previsto il trasbordo dell’ostaggio e la Citroën Dyane: questo particolare è sembrato sorprendente perché proprio in via Bitossi stazionava sempre l’autoradio del Commissariato di Monte Mario che ogni giorno fungeva da scorta del magistrato Walter Celentano. Inoltre i due agenti dell’autoradio, Nunzio Sapuppo e Marco Di Bernardino, dichiararono di non ricordare alcun furgone presente quella mattina in via Bitossi.

Il 16 marzo 1978 la centrale operativa della Questura, dopo aver ricevuto il primo allarme, allertò per prima proprio questa autopattuglia che partì subito da via Bitossi e raggiunse in pochi minuti via Fani percorrendo però un percorso via Pietro Bernardini, piazza Ennio, via della Camilluccia e via Stresa che impedì di incrociare le auto in fuga dei terroristi. Abbandonando via Bitossi, quindi, gli agenti non poterono intercettare i brigatisti che furono liberi di salire sul furgone e la Dyane. Non è sembrato molto chiaro perché fosse stata allertata per prima proprio quell’autopattuglia in servizio di scorta, dato che, secondo la testimonianza di un agente della Polizia stradale non in servizio presente casualmente, Renato Di Leva, in via Stresa sarebbe stata presente un’altra auto di servizio, che viaggiava con i segnali di allarme accesi, e che avrebbe incrociato le auto dei brigatisti. Non è stata mai chiarita l’effettiva presenza nella zona di una seconda auto della polizia nei primi minuti dopo il sequestro.

La testimonianza di Francesco Pannofino, all’epoca giovane studente universitario e presente vicino all’edicola in via Fani nei momenti dell’agguato, aggiunge ulteriori dubbi. Pannofino riferì che nei primi minuti dopo la fine della sparatoria, vide una berlina Alfa Romeo (un’Alfetta o un’Alfasud) di colore bianco, da cui scesero alcuni uomini in borghese con la paletta della polizia, i quali una volta arrivati sul luogo avrebbero dato segno di disperazione alla vista dei colleghi morenti. Dalla documentazione fotografica di quella mattina sembrerebbe di identificare proprio un’Alfasud, parcheggiata sul lato sinistro di via Fani, con una targa del Ministero dell’Interno. Non si hanno notizie precise neppure di questa circostanza, né sull’identità di questo personale in borghese che sarebbe giunto ancor prima dell’autopattuglia di Monte Mario.

Inoltre alcuni scrittori hanno messo in dubbio tutto il percorso di fuga riferito dai brigatisti nei loro racconti, soprattutto la decisiva deviazione su via Casale de Bustis che permise di far perdere le tracce. Inizialmente molti testimoni segnalarono le tre auto in fuga: un ex agente di polizia, Antonio Buttazzo, trovandosi vicino a via Fani, assistette al conflitto a fuoco e quindi seguì per un tratto con la sua auto la Fiat 132 dei terroristi con il sequestrato a bordo. Giunto in largo Cervinia, Buttazzo vide giungere un’auto della polizia a cui indicò la direzione di fuga dei terroristi, ma i poliziotti non riuscirono a riprendere l’inseguimento, apparentemente proprio perché i brigatisti deviarono bruscamente su via Belli-via Casale de Busti.

Anche l’ultima parte del percorso di fuga, fino a via Montalcini 8, presenta alcuni dubbi. Dai racconti dei brigatisti risulta che ai Colli Portuensi era già in attesa Prospero Gallinari: non è chiaro però come egli potesse essere già arrivato e con quali mezzi fosse giunto nel parcheggio sotterraneo da piazza Madonna del Cenacolo dove il gruppo iniziale si era diviso. C’è inoltre contraddizione su chi fosse effettivamente presente ai Colli Portuensi, oltre a Gallinari, per il trasbordo finale di Moro sull’auto di Anna Laura Braghetti. Secondo Moretti nel parcheggio erano in attesa Gallinari e la stessa Braghetti, secondo quest’ultima invece fu Germano Maccari che si recò all’appuntamento mentre lei sarebbe rimasta in ansiosa attesa in casa. Maccari infine riferì che egli non si mosse dall’abitazione e che l’auto con il sequestrato fu condotta in via Montalcini solo da Moretti e Gallinari,

 

Dalle informazioni raccolte dopo i fatti e dalle testimonianze posteriori di una serie di personaggi, sembrerebbe che prima del 16 marzo 1978 fossero stati rilevati alcuni segni inquietanti per la sicurezza di Aldo Moro. Una moto e appostamenti sospetti furono notati nelle vicinanze dello studio dell’uomo politico, il maresciallo Leonardi sembra che avesse manifestato forti preoccupazioni, le minacce delle Brigate Rosse verso gli uomini della DC erano sempre più esplicite, nell’ambiente del Movimento e dell’estremismo di sinistra romano erano diffuse voci di una imminente, spettacolare azione delle BR nella capitale. Un equivoco studente sovietico, Sergeij Sokolov, risultato poi un agente del KGB, ebbe contatti con Moro nell’ambito universitario, mentre un oscuro personaggio statunitense, Ronald Stark, avrebbe fornito ai carabinieri informazioni sul possibile sequestro di un importante uomo politico a Roma, apparentemente senza provocare alcun allarme.

Inoltre durante la stessa giornata del 16 marzo alcuni testimoni segnalarono che Renzo Rossellini avrebbe annunciato l’agguato e il sequestro di Aldo Moro, dall’emittente radiofonica Radio Città Futura, intorno alle ore 8:15-8:20, quindi ancor prima dello svolgimento dei fatti: uno dei testimoni ricordò di aver ascoltato la frase «Forse rapiscono Moro». Rossellini ha sempre smentito questa circostanza e ha affermato che egli effettivamente aveva parlato nelle sue trasmissioni, sulla base di considerazioni personali e di voci diffuse negli ambienti estremistici, solo di un prevedibile incremento dell’attività terroristica in corrispondenza con la nuova fase politica, senza fare alcun nome. Non essendo disponibili registrazioni della trasmissione di Radio Città Futura, non si è potuto giungere a conclusioni definitive. Durante il processo emerse poi che il Ministero dell’Interno registrava 24 ore su 24 Radio Città Futura e altre radio private vicino agli ambienti extraparlamentari, e che nei dieci minuti che precedettero il rapimento ci fu un vuoto di registrazione.

Nel corso degli anni sono state svolte approfondite indagini su tutti questi fatti senza riscontrare alcun collegamento con gli eventi del sequestro e con le Brigate Rosse. Risultò che Sokolov era stato anche controllato dai servizi segreti italiani, ma senza riscontrare nulla. Stark invece era un personaggio torbido e la sua storia rimane di dubbia attendibilità. In pratica, tutti i cosiddetti «segnali premonitori» sul momento non sembrarono molto allarmanti, nel quadro della situazione reale italiana degli anni settanta, e solo «a posteriori», dopo i tragici fatti, sono stati considerati potenzialmente importanti per prevenire l’attacco eversivo.

Alcune circostanze hanno favorito il sorgere di sospetti sulla possibile presenza in via Fani di componenti estranee alle Brigate Rosse e sull’eventualità che i servizi segreti italiani fossero a conoscenza in anticipo dell’agguato e avessero evitato di intervenire per prevenirlo.

Nel 1990 l’agente del SISMI Pierluigi Ravasio rivelò per la prima volta che il suo superiore diretto all’interno del servizio segreto militare, colonnello Camillo Guglielmi, era stato presente in via Fani nel momento dell’agguato il 16 marzo 1978. Dalle indagini subito espletate risultò in effetti che il colonnello Guglielmi quella mattina si stava recando in via Stresa 117 verso le ore 9:30. L’ufficiale peraltro disse di aver seguito vie laterali e di non essersi affatto accorto dell’agguato di cui avrebbe avuto notizia solo dopo essere arrivato a casa del collega, colonnello D’Ambrosio, da cui aveva ricevuto, a suo dire, un invito a pranzo. La circostanza della presenza di un ufficiale del SISMI nei pressi di via Fani il mattino del 16 marzo 1978 ha sollevato notevoli dubbi: alcuni hanno ritenuto che questo fatto confermasse che i servizi segreti erano preventivamente a conoscenza delle intenzioni dei brigatisti o addirittura che personale dei servizi fosse direttamente coinvolto. Si è inoltre affermato che Guglielmi avrebbe anche espletato il ruolo di addestratore del personale di Gladio a Capo Marrargiu in Sardegna.

In realtà, non esistono elementi concreti di conferma e inoltre deve essere rilevato che al momento dei fatti il colonnello Guglielmi non era ancora alle dipendenze del SISMI, ma era a disposizione della Quarta brigata carabinieri e prestava servizio a Modena. Lo stesso Ravasio, all’epoca, non era ancora un agente del SISMI, né di Gladio.

Un altro elemento di sospetto è risultato dalla singolare vicenda di Bruno Barbaro, cognato del colonnello Fernando Pastore Stocchi, dirigente della base di Capo Marrargiu e collaboratore del generale Vito Miceli. Barbaro possedeva un ufficio nel palazzo ad angolo tra via Fani e via Stresa: poco prima del 16 marzo 1978 avrebbe ceduto questo locale a dei giovani non meglio identificati che vi sarebbero rimasti fino a dopo il sequestro. È stata ventilata l’ipotesi che si trattasse di personale dei servizi, ma non è stato trovato alcun riscontro documentale per avvalorare questi sospetti.

Esiste inoltre il sorprendente racconto di Antonino Arconte, ex agente della cosiddetta «Gladio delle centurie», struttura segreta denominata anche «SuperSID» all’interno dell’organizzazione Gladio, comandata dal generale Vito Miceli. Arconte ha rivelato che il 2 marzo 1978 ricevette l’ordine di recarsi in Libano per organizzare insieme a un altro agente, colonnello Mario Ferraro, trattative segrete tramite i palestinesi, con le Brigate Rosse per favorire la liberazione di Aldo Moro. Il responsabile del progetto sarebbe stato il colonnello Stefano Giovannone, persona conosciuta anche dallo stesso Moro che lo citò nelle sue lettere dalla prigionia come possibile intermediario. Da questo racconto si evincerebbe quindi che quindici giorni prima di via Fani i servizi erano già a conoscenza delle intenzioni delle Brigate Rosse, ma non avrebbero fatto nulla per bloccare il loro piano.

Il racconto di Arconte presenterebbe contraddizioni e aspetti inattendibili: in primo luogo il colonnello Ferraro nel 1978 non era affatto presente in Libano, dove giunse solo nel 1986; la procedura che sarebbe stata adottata per eseguire la missione – viaggio in nave fino a Beirut – sembrerebbe molto lenta e poco pratica ai fini di un compito così urgente e importante; le disposizioni di segretezza dei documenti da consegnare, lettera scritta non in codice, sembrerebbero molto superficiali; l’autenticità dei documenti presentati da Arconte non è stata confermata con certezza; non esistono altre fonti che possano confermare il racconto.

Il pentito di ‘ndrangheta Saverio Morabito ha affermato che anche la ‘ndrangheta era coinvolta, in particolare sul luogo si trovava Antonio Nirta, che aveva legami con il carabiniere Francesco Delfino, poi diventato generale dei servizi segreti.

I brigatisti coinvolti nel sequestro di Aldo Moro hanno sempre negato la presenza di componenti esterni alla loro organizzazione, anche quando questo aggravava la loro posizione di imputati, affermando: «Il colpo di via Fani l’abbiamo deciso ed eseguito noi, e soltanto noi. E siamo stati noi e soltanto noi a decidere di ucciderlo».

Il bilancio finale dell’agguato di via Fani fu di cinque morti e un ostaggio. Quei cinque cadaveri furono cinque macigni che pesarono, nei due mesi successivi, sulle polemiche tra i sostenitori della fermezza e quelli della trattativa: prevalse la linea dura e la loro morte fu tra le ragioni che impedirono allo Stato di scendere a patti con il terrorism




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