20 Marzo: il ricordo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

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Il 20 Marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia vengono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Una storia densa di nubi, una storia che manca di un componente importante la verità su quanto accaduto e perché è accaduto.

 

20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono da poco tornati al loro albergo, il Sahafi. Decidono di uscire attraversando la ‘green line’, la linea verde che dal 1991 divide in due la città. Una parte è controllata da Ali Mahdi, l’altra dal generale Aidid. Raggiungono l’hotel Amana e ci rimangono solo pochi minuti. Sono appena tornati dal Nord del Paese, dove hanno incontrato il sultano del Bosaso. Alpi, allora 28enne, e Hrovatin – dirà poi l’inchiesta – hanno saputo di fatti e attività scottanti, connessi con traffici illeciti di armi e rifiuti di vasta proporzione. A poca distanza dall’albergo, da una Land Rover scendono diverse persone armate, almeno sette, e fanno fuoco. Un proiettile di kalashnikov colpisce alla tempia Ilaria Alpi, una raffica raggiunge Hrovatin.

 

La procura di Roma avvia un’inchiesta e viene disposto un esame medico-legale esterno sul corpo della Alpi. L’esame parla di un colpo a bruciapelo alla nuca della giornalista. Il fascicolo viene affidato a Giuseppe Pititto, sostituto procuratore. È lui a verificare che sul cadavere della giornalista non è stata eseguita un’autopsia ma soltanto un esame esterno. Intanto, il 4 luglio 1994 il padre della reporter ricorda che la figlia, poco prima di morire, aveva intervistato il sultano di Bosaso e aveva annotato tutto su un taccuino poi scomparso. Il sultano, Abdullahi Mussa Bogar, viene iscritto nel registro degli indagati il 9 aprile 1996 come mandante del delitto, ma la sua posizione sarà archiviata. Intanto, il 4 maggio 1996, la salma di Ilaria Alpi è riesumata su ordine del pm Giuseppe Pititto per chiarire la dinamica dei fatti e il 25 giugno dello stesso anno la perizia balistica decreta che il colpo che ha ucciso la giornalista fu sparato a distanza, probabilmente con un kalashnikov.

 

Il 12 gennaio del 1998, il cittadino somalo Hashi Omar Hassan si trova a Roma per testimoniare alla commissione sulle presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Viene arrestato per concorso in duplice omicidio volontario e indicato come componente del commando. La richiesta d’arresto è firmata dal pm Franco Ionta che aveva sostituito Pititto e fatto ripartire le indagini. Il pm aveva chiesto la condanna all’ergastolo, ma nel luglio del 1999 Hassan viene assolto. Intanto, per una nuova perizia balistica, i colpi mortali sono stati sparati a bruciapelo, da distanza ravvicinata. Quella di Alpi e Hrovatin sarebbe stata quindi un’esecuzione.

 

Il 24 novembre 2000, poco più di un anno dopo l’assoluzione, la corte d’Assise d’Appello ribalta la sentenza di primo grado e condanna Hassan all’ergastolo. Hassan viene ritenuto colpevole ma i genitori di Ilaria Alpi non si dimostrano soddisfatti: si tratta di “una sentenza nera, non ci accontentiamo di questa verità. Vogliamo i mandanti veri”. L’anno successivo, nell’ottobre del 2001, la Cassazione annulla la sentenza d’appello limitatamente all’aggravante della premeditazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ma conferma la condanna per omicidio volontario e rinvia il procedimento per nuovo esame ad altra sezione della corte d’assise d’appello. Il 26 giugno 2002, la corte di Assise d’Appello di Roma riduce a 26 anni la pena per Hashi Omar Hassan.

 

Il 31 luglio 2003 nasce la Commissione parlamentare d’inchiesta Alpi-Hrovatin. Il presidente è l’avvocato Carlo Taormina. La Commissione dura tre anni, fino al 2006, quando, senza una soluzione unanime, Taormina si fa portavoce della tesi del rapimento fallito e porta avanti un punto di vista che indigna i genitori della vittima. “Ilaria Alpi era lì in vacanza”, e le voci di un’esecuzione sono state messe in giro ad arte, sostiene affermando di essere in possesso di documenti segreti che proverebbero le sue parole. Ufficialmente la Commissione si schiera per l’ipotesi di un tentativo di rapina o di rapimento “conclusosi accidentalmente con la morte delle vittime”. La versione alternativa, invece, ipotizza che la Alpi abbia scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane.

 

Intanto, un anno dopo la chiusura della Commissione, la procura di Roma – il 10 luglio 2007 – chiede l’archiviazione per l’inchiesta sull’omicidio. Il procuratore sostiene che, oltre a quella di Hassan, è impossibile accertare con precisione altre responsabilità. Si tratta di un’ulteriore inchiesta aperta poco dopo la condanna di Hassan e per cui si era ipotizzato il “concorso con ignoti”. Il 14 febbraio 2010, la famiglia Alpi ottiene un’importante vittoria, seppur parziale: il gip Cersosimo boccia la richiesta di archiviazione. Secondo lui, infatti, l’omicidio Alpi era stato appositamente commissionato per evitare che lei e il suo operatore riportassero in Italia quanto scoperto in Somalia. Tre anni dopo, nel 2013, inizia così un altro processo, questa volta a carico di Ali Ahnmed detto “Jelle”. Lui era stato l’accusatore di Hassan e adesso deve rispondere di calunnia al fine di sviare le indagini. Hassan e la mamma di Ilaria Alpi si costituiscono parte civile. Nel 2015, Jelle si trova in fuga all’estero e afferma: “Hassan è innocente, io neanche c’ero. Mi hanno chiesto di indicare un uomo”.

 

Il 16 dicembre 2013, su iniziativa di Laura Boldrini, la presidenza della Camera avvia la desecretazione degli atti delle Commissioni d’inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi. Il 14 gennaio 2014, gli avvocati di Hassan ottengono dalla Corte d’Appello di Perugia la riapertura del caso. C’è l’ok della procura, della Rai e della signora Alpi che si erano costituite parti civili. Il processo si conclude nel 2016, esattamente il 19 ottobre, quando la Corte d’Appello di Perugia assolve il somalo che nel frattempo aveva scontato comunque 17 dei 26 anni che gli erano stati inflitti. La madre della giornalista annuncerà l’anno dopo di voler rinunciare alla ricerca della verità perché “ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben 23 anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili”. Nel luglio del 2017, la Procura della Repubblica di Roma inoltra una richiesta di archiviazione sul caso dell’omicidio di Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuti il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia.

 

Il 17 aprile 2018, durante l’udienza fissata per discutere la richiesta di archiviazione, il pm Maria Rosaria Guglielmi deposita alcune intercettazioni risalenti al 2012, ma trasmesse solo successivamente dalla Procura di Firenze. Si tratta di conversazioni fra persone di origini somale residenti in Italia che, parlando del caso Alpi, affermano: “L’hanno uccisa gli italiani”. Luciana Alpi, al termine della camera di consiglio fissata davanti al giudice Andrea Fanelli, afferma: “Il gip ha fissato una nuova udienza per la discussione e noi faremo di tutto perché questa inchiesta non finisca in archivio. Da troppo tempo siamo in attesa di una verità che non arriva. Andiamo avanti insomma, anche se sono stanca”. L’8 giugno 2018, il pm chiede l’archiviazione delle nuove intercettazioni ritenute sostanzialmente irrilevanti e inutili all’avvio di nuovi accertamenti. Una richiesta però respinta il 26 giugno dal gip di Roma che dispone altri 180 giorni per ulteriori indagini sull’omicidio della giornalista. Una decisione, questa, che arriva appena due settimane dopo la morte di Luciana, la madre di Ilaria, avvenuta il 12 giugno.

 

Il 6 febbraio 2019, la Procura di Roma chiede una nuova archiviazione dell’indagine relativa all’omicidio della giornalista. Per i magistrati si sono “rivelati privi di consistenza gli elementi pervenuti che apparivano idonei, se non all’identificazione degli autori materiali ovvero dei mandanti dell’omicidio, almeno ad avvalorare la tesi più accreditata del movente che ha portato al gesto efferato o ad esplorare l’ipotesi del depistaggio”. Tuttavia, gli avvocati Carlo Palermo e Giovanni D’Amati, che tutelano gli interessi di Annamaria Riccardi, zia di Ilaria, hanno evidenziato che “dal dicembre 2007 al giugno 2017, sul caso della uccisione di Ilaria Alpi, risultano subentrate numerose nuove risultanze, riportate e commentate ovunque, ma non esaminate dal pm. Ovvero sussistono numerosi e importanti altri fatti che avrebbero dovuto essere esaminati da un organo requirente che si era, come noto, trovato di fronte a eccepite ‘secretazioni’ di fonti, di nomi, di atti: atti, inoltre, che oggi appaiono ancor più rilevanti in considerazione della sola recente formulazione di imputazioni sui depistaggi (formulate dopo la intervenuta revisione del processo dalla Corte d’Appello di Perugia)”. Inoltre, anche le altre parti offese, (Fnsi, Ordine dei giornalisti e Usigrai), hanno chiesto che non venga definitivamente archiviato il caso.

 

“Confidiamo che in questi sei mesi la Procura di Roma abbia raccolto elementi utili a chiarire una volta per tutte lo scenario reale del duplice omicidio e soprattutto, aspetto fondamentale, tali da riaprire un’inchiesta che taluni vorrebbero chiusa al più presto, senza colpevoli”.

A parlare è l’avvocato Giulio Vasaturo legale della Federazione nazionale della stampa Italiana e dell’Usigrai (sindacato unitario dei giornalisti la prima, sindacato dei giornalisti Rai, il secondo) che si sono costituite “parti offese” nel procedimento penale.

 

“Anche se non posso rivelare i dettagli dell’inchiesta in corso – continua il legale – posso dire che il nuovo filone di indagine si è concentrato, fra l’altro, sulle attività dell’organizzazione Gladio, operate in Somalia all’inizio degli anni Novanta”.

Vasaturo si riferisce alla struttura paramilitare e di intelligence costituita subito dopo la Seconda guerra mondiale su input degli Stati Uniti contro la “minaccia russa” e attiva in tutti i Paesi della Nato, la cui esistenza in Italia fu resa nota ufficialmente per la prima volta nel 1995 da Giulio Andreotti, sulla scia anche delle indagini sulla strage di Peteano, svolte dall’allora sostituto procuratore di Venezia, Felice Casson.

 

Ma serve illuminare altre pagine buie della vicenda: “Ritorniamo a chiedere la desecretazione di tutti gli atti conservati negli archivi dei servizi segreti. Trascorsi oltre 25 anni dai fatti – attacca Vasaturo – non ha più senso nascondersi dietro il segreto di Stato e occultare prove che possono risultare decisive. Tutto il materiale deve essere messo integralmente a disposizione dell’autorità giudiziaria che deve essere posta nelle condizioni di arrivare finalmente alla verità. Per stracciare una volta per tutte il velo del depistaggio, occorre scoprire cosa è realmente accaduto nelle 48 ore successive all’agguato premeditato in cui hanno perso la vita Ilaria e Miran”.

Al riguardo occorre ricordare che indicazioni utili alle indagini sono scaturite a seguito della pubblicazione integrale, nel 2016, decisa dalla Camera presieduta da Laura Boldrini, dell’archivio integrale dei materiali raccolti sulla vicenda dagli organismi parlamentari e anche della Rai.

https://archivioalpihrovatin.camera.it

 

L’avvocato Giulio Vasaturo è deciso e risoluto. Il suo non è un annuncio, ma un messaggio forte e chiaro, una promessa: “Noi continueremo nel percorso di verità e giustizia intrapreso da Giorgio e Luciana Alpi. E non ci fermeremo fin tanto che non otterremo ciò per cui non abbiamo smesso di lottare, insieme a tante persone, a partire da Mariangela Gritta Grainer, ex deputata e consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi-Hrovatin, diventata punto di riferimento anche sul piano umano di papà Giorgio e mamma Luciana, dai quali ha raccolto il testimone”.

Di Ilaria e Hrovatin si è parlato pure durante la tregiorni dal titolo “Parole non pietre” organizzata a Roma dal 28 febbraio al 1. Marzo scorsi da Articolo 21 con Fnsi e altre associazioni, trainata da Giuseppe Giulietti, attuale presidente Fnsi, fra coloro che sono stati fin dall’inizio del loro calvario accanto ai coniugi Alpi.

 

Ed è in quell’occasione che lo stesso Vasaturo, insieme a Francesco Cavalli, uno dei promotori della Fondazione Ilaria Alpi (?), ha espresso un commosso tributo alla memoria dell’avvocato Domenico D’Amati, storico legale della Fnsi, scomparso di recente: “Senza di lui, noi non saremmo qui. E’ stato suo il merito se siamo andati avanti anche quando tutte le porte erano sbarrate e più si bussava più venivamo respinti. Domenico non ha mai mollato, dando anche a noi la forza di continuare a cercare la verità. Un maestro nella professione e nella vita”.

 

Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l’Italia, superando in tal modo le riserve dell’inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta.

 

Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbero visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane:Ilaria Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate con i gruppi politici locali. Nel novembre precedente l’assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano

 

Ilaria Alpi soffriva di vertigini e temeva il vuoto, ma si era scelta un lavoro in cui l’elicottero è uno dei cosiddetti ferri del mestiere. Aveva un’autentica fobia del vuoto, una vera e propria chenofobia. Ma volava con tranquillità, almeno apparente.

 

Una laurea in lingue e letteratura araba, conseguita con il massimo dei voti presso l’Istituto di Lingue orientali dell’Università La Sapienza di Roma, è stata il suo passaporto verso il Medio Oriente. Le sue corrispondenze dal Cairo per «Paese Sera» raccontavano l’Egitto, non solo dal punto di vista economico e politico, ma anche culturale. Quegli articoli restituiscono al lettore, ancor oggi, un modo diverso di raccontare i paesi arabi:

 

Amava i paesi arabi. E più li conosceva e più desiderava raccontarne i segreti, i costumi, gli stili di vita, le tensioni interiori. Negli anni vissuti al Cairo (all’inizio coabitò con una giornalista egiziana che non parlava una parola né d’inglese né d’italiano) maturò il desiderio di diventare corrispondente da quella città. Aveva imparato a respirarla, l’aria dell’Africa e dell’Islam

Un filo aveva già legato Ilaria a quella terra. Nel 1896 il nonno paterno, Filippo Quirighetti, fu assassinato a La Folet, nei pressi di Mogadiscio. In uno dei primi viaggi in Somalia Ilaria visitò il cippo che ricorda quei morti.

 

La carriera giornalistica di Ilaria inizia nel 1990 quando vince il concorso per giornalisti Rai, la passione per i fatti risale alla metà degli anni Ottanta con le prime collaborazioni per «Paese Sera», «L’Unità», «Rinascita», «Noi Donne», «Italia Radio». Assunta prima a Rai Sat, viene trasferita alla redazione Esteri del Tg3: qui sarà inviata a Parigi, Belgrado, Marocco, Belgrado e per sette volte in Somalia, dal dicembre 1992 al marzo 1994. “Lei però fin da subito si accorse che preferiva approfondire le notizie e non semplicemente ‘darle’ come si usa spesso nelle agenzie e nei quotidiani […]”.Per Giorgio Alpi, il vero sogno di sua figlia era di riuscire a lavorare per un settimanale, dove forse è più facile, almeno così credeva, andare a fondo. “Le sarebbe piaciuto”, aggiunge il padre, “fare la giornalista in un mondo dove a fare notizia sono le cose vere”

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.Il più crudele dei giorni non è solo il titolo del film che ricostruisce la vicenda di Ilaria Alpi, è soprattutto la sintesi di una vicenda giudiziaria che non è né chiusa né chiara. Per l’uccisione di Ilaria e Miran è stato condannato in via definitiva a ventisei anni di carcere uno dei presunti killer, Omar Hashi Hassan. Da tempo, però, numerose testimonianze e documenti mettono in discussione la sua colpevolezza. Ali Rage Ahmed, detto “Gelle”, il principale accusatore di Hassan, è sotto processo per falso e calunnia.

Sull’operatore meno clamore ma alcune dichiarazioni rilasciate dal figlio nel 2014.

 

A volte ne parlano come se non avesse un nome, e mi dispiace. Forse è inevitabile, data la scarsa esposizione mediatica che mia madre e io abbiamo scelto di avere, mentre i genitori di Ilaria Alpi sono stati più attivi. Trieste è una città piccola, ogni volta che mi presentavo mi chiedevano se fossi il figlio del “cineoperatore ucciso in Somalia”. Mia madre non voleva che crescessi come “l’orfano di Miran Hrovatin”. Mi ha protetto, ed è stata la scelta giusta. Ho avuto una vita serena».

 

Ha seguito la vicenda giudiziaria?

«È un tema che per lungo tempo non ho voluto affrontare. O forse ho solo accettato la versione ufficiale perché era più digeribile. Crescendo, mi sono accorto che lasciava ombre. Ci sono tante storie che si intrecciano, in Somalia. Capri espiatori. E fa paura pensare che forse ci sono forze occulte, che operano dove non dovrebbero».

 

Mia madre ha fatto della memoria di mio padre le fondamenta del resto della nostra vita, separandola dalla vicenda giudiziaria. Non ce ne siamo disinteressati, è chiaro, ma non abbiamo nemmeno vissuto solo per quello. Siamo già stati vittime, quel giorno».

 

C’è chi ha dipinto suo padre come uno sprovveduto.

«Era un professionista, aveva lavorato a lungo nei Balcani. Credo non fosse del tutto cosciente degli scenari che si stavano sviluppando in Somalia. Forse lì la situazione era più complessa di quanto si potesse immaginare da lontano. La sua idea era di andare a filmare le truppe Onu che si ritiravano. Poi, lui e Ilaria si sono trovati in mezzo a cose più grandi di loro».

 

Di suo padre si ha un’immagine schiva.

«Hanno fatto un film anni fa (Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni, ndr), senza consultare noi familiari, e questo forse ha contribuito: mio padre era diverso da come appare lì. Per diventare operatore di guerra, serve stomaco. E attributi. Lui affrontava tutto con umanità, ma anche con una certa spensieratezza. Era indispensabile, per poter resistere a quello che vedeva, per bilanciare l’amarezza del suo lavoro. Era allegro, estroverso. Un po’ stravagante».

 

In che senso?

«Non era un hippy, ma neanche il classico padre che si alza alle sette, si rade, mette la cravatta e va in ufficio, a sedersi dietro a una scrivania. Teneva la barba lunga, inforcava gli occhiali da sole, saliva in moto e correva al suo lavoro creativo con il sorriso. Era un uomo maturo che non aveva perso la voglia di vivere con leggerezza».




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