PIANO MARSHALL – Il 5 giugno 1947 il segretario di Stato americano George C. Marshall, durante un discorso sulla situazione economica mondiale al Graduated Students Club di Harvard, annunciò la proposta del governo USA di lanciare l’European Recovery Program (ERP): un vasto programma di aiuti economici all’Europa mirato non soltanto all’immediata ricostruzione ma pensato allo scopo di un forte rilancio delle economie europee, di una maggiore integrazione politico-economica tra le stesse e tra esse e gli Stati Uniti,
Perché Piano Marshall e non piano Truman? Due le ragioni: l’anno di approvazione del ERP coincideva con le elezioni politiche USA; il Congresso era a maggioranza repubblicana. George Kennan, ambasciatore USA a Mosca, temeva che l’Europa cadesse sotto il dominio sovietico e per questa ragione nel 1949 fu istituita la NATO, con 12 stati aderenti.
L’ERP aveva obiettivi strategici e geopolitici, come il contenimento dell’influenza sovietica; doveva servire a ricostruire la distruzione dell’Europa, evitando la sua frammentazione e l’instabilità politica; aveva il compito di aprire un mercato per l’economia USA. Come osservò nel 1947 il segretario di Stato J. Byrnes, predecessore di Marshall, povertà e fame potevano portare solo proteste politiche, tirannia e aggressioni.
Per Marshall, l’ERP era “un obbligo morale, nel nostro interesse, di fare quello che possiamo per aiutare l’Europa”. Così fu presentato l’ERP, poi approvato dal Congresso con voto congiunto di democratici e repubblicani e con una dotazione di 13 miliardi di dollari dell’epoca, circa 150 miliardi di dollari oggi, pari al 10% del bilancio federale, destinati alla fornitura di cibo, carbone, acciaio, petrolio, fertilizzanti, macchinari industriali, risorse finanziarie (prestiti e sovvenzioni a stati e imprese). Per l’Italia, il terzo beneficiario dopo Gran Bretagna e Francia, il sostegno maggiore fu per il settore industriale, mentre furono esclusi dagli aiuti i settori dell’energia (petrolio) e il trasporto aereo.
Il contributo americano è stato inferiore al 5% del reddito annuale dei 16 paesi beneficiari, esclusa la Spagna. Per essi l’ERP rappresentò “l’iniezione nel braccio nel momento critico”. I risultati sono stati di tipo economico, la ricostruzione e l’attivazione della ripresa economica in Europa, e di tipo politico-strategico. L’ERP è stato un esempio di programmazione, di capacità di analisi economica, politica e amministrativa e di visione strategica, dovuta all’azione di tre comitati istituiti da Truman: il primo per analizzare la compatibilità con le risorse nazionali; il secondo per analizzare l’impatto sull’economia americana; il terzo per analizzare i confini dell’assistenza a paesi stranieri, con attenzione alla sicurezza nazionale. Tuttavia, nell’estate del 1947, prima di assumere le decisioni, il Congresso USA inviò 200 membri in Europa per conoscere la situazione sul campo.
George Marshall era un militare di carriera, era stato 45 anni nell’esercito, capo di Stato maggiore dal 1939 al 1945, ministro della Difesa dal 1950, con grandi capacità amministrative e diplomatiche. Nelle parole di Truman, Marshall è stato l’architetto della vittoria, il più grande uomo della seconda guerra mondiale, che ha saputo andare d’accordo con F.D. Roosevelt, W. Churchill, il Congresso americano, la Marina e lo Stato maggiore. Il 10 dicembre 1953 George Marshall ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Nel discorso di accettazione ricordò i morti del secondo conflitto mondiale e auspicò tre condizioni per la costruzione della pace: una migliore educazione; l’apertura delle nazioni alla cooperazione; lo sviluppo di stati democratici. Ricordò che “i principi della democrazia non fioriscono in stomaci vuoti”. Una lezione da non dimenticare.
Il discorso con cui l’allora segretario di Stato statunitense George Marshall annunciò al mondo la decisione degli Stati Uniti d’America di avviare l’elaborazione e l’attuazione di un piano di aiuti economico-finanziari per l’Europa che poi, per convenzione storiografica, sarebbe stato noto come “Piano Marshall”, fu senza dubbio uno dei momenti più importanti della storia della politica internazionale nell’immediato secondo dopoguerra.
Marshall affermò in quell’occasione che l’Europa avrebbe avuto bisogno, almeno per altri 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte statunitense e che, senza di essi, la gran parte del vecchio continente avrebbe conosciuto un gravissimo deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali. Pur rimanendo sul vago, relativamente a quelli che sarebbero dovuti essere i caratteri del Piano, in primo luogo perché se ne volevano predisporre i termini con gli europei, il segretario di Stato si augurò che da esso sarebbe potuta scaturire non solo una nuova e più proficua epoca nella collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico, ma anche una prima realizzazione di quei progetti europeisti finora caratterizzati da una certa vaghezza utopistica.
L’idea di Marshall, che era stata comunque già sostanzialmente comunicata agli inglesi, venne positivamente accolta dalla Francia, che, però, chiese di estendere gli incontri preparatori anche all’Unione Sovietica che, comunque, dopo un’iniziale manifestazione di interesse, si rifiutò di partecipare al negoziato, obbligando anche tutti i paesi del blocco orientale a fare altrettanto. Lo European Recovery Program (ERP) previde alla fine uno stanziamento di poco più di 14 miliardi di dollari per un periodo di quattro anni. Con l’obiettivo di favorire una prima integrazione economica nel Continente, nacque contestualmente al Programma anche l’Organization for European Economic Cooperation (OEEC, in italiano OECE), organismo sostanzialmente tecnico in cui i programmatori inviati da Washington cercarono di spingere gli europei ad utilizzare gli aiuti non per fronteggiare le contingenze del momento, quanto piuttosto per avviare un processo di trasformazione strutturale dell’economia dei loro Paesi.
Contrariamente a quanto auspicato, pur non opponendosi alla stabilizzazione delle loro valute ed all’implementazione del commercio internazionale specie con gli Stati Uniti, la quasi totalità dei Paesi beneficiari chiese alla Economic Cooperation Administration (ECA), l’ufficio preposto alla collazione degli aiuti, di poter utilizzare i finanziamenti forniti dall’ERP per l’acquisto di generi di prima necessità, prodotti industriali, combustibile e, solo in minima parte, macchinari e mezzi di produzione. Nello stesso tempo diverse centinaia di consiglieri economici statunitensi furono inviati in Europa, mentre fu consentito a studiosi ed esperti europei di visitare impianti industriali e di frequentare corsi d’istruzione negli Stati Uniti. Il Piano terminò nel 1951, come originariamente previsto. I tentativi di prolungarlo per qualche tempo non ebbero effetto a causa dello scoppio della guerra di Corea e della vittoria dei repubblicani nelle elezioni per il Congresso dell’anno precedente.
Per qualche tempo molti economisti statunitensi giudicarono negativamente l’impatto del Piano Marshall sull’economia europea dato che, nella loro opinione, esso aveva prodotto effettivamente una crescita sostenuta, ma grazie al basso costo del lavoro, cosa che – non avendo indotto una contemporanea crescita dei redditi – aveva portato ad un certo ristagno nella spesa e nei consumi. In realtà – come dimostrato dalle analisi più recenti – il Piano consentì all’economia europea di superare un momento di indubbia crisi e favorì una ripresa che già nel 1948 era evidente, consentendo ai Paesi beneficiari di superare l’indice di produzione prebellico già nel momento in cui il flusso di aiuti terminò.
I risultati furono poi senza dubbio positivi, almeno nell’ottica degli Stati Uniti e dei sostenitori dell’economia di mercato, sotto il profilo della diffusione in Europa – favorita da una capillare azione di propaganda – di concetti quali la “libera impresa”, lo “spirito imprenditoriale”, il “recupero di efficienza”, l’”esperienza tecnica” e la “tutela della concorrenza”, allora in alcuni Paesi quasi del tutto assenti. Inoltre esso indicò agli europei che l’interdipendenza poteva costituire una soluzione alle tensioni ed ai conflitti, che da sempre avevano caratterizzato la loro storia. Sul piano interno, poi, l’aiuto statunitense consentì alle fragili democrazie occidentali di rilassare le politiche di austerità e di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni.
Il conseguimento di questi obiettivi strutturali pose una base quanto mai solida anche all’estensione dell’influenza politica degli USA.
La tendenza all’integrazione europea assume una valenza complessiva, caricandosi di significati più direttamente politici e militari: il trattato di Bruxelles (17 marzo 1948) tra i paesi del Benelux, la Francia e la Gran Bretagna, che istituiva un organismo militare comune (L’Unione dell’Europa occidentale) sotto comando inglese, fu seguito poco dopo (4 aprile 1949) dal più organico patto atlantico (North Atlantic Treaty Organisation, NATO) tra quegli stessi Paesi, il Canada, Gli USA, la Norvegia, la Danimarca, l’Italia, il Portogallo, l’Islanda e, successivamente (1951), prima la Grecia e la Turchia, poi (1954) la Germania occidentale.
Con la NATO, l’occidente europeo ritrovava un’unità militare a cui faceva seguire, nel maggio 1949, il primo passo del suo lungo cammino verso l’integrazione politica con l’istituzione del Consiglio d’Europa.
In quello stesso anno, l’8 aprile, gli accordi di Washington tra Francia, Gran Bretagna, e Stati Uniti portarono all’unificazione degli 11 Lander della zona tedesca occupata dagli alleati; nasceva cosi (settembre 1949) la Repubblica Federale Tedesca che ebbe nel liberale Theodor Heuss e nel cristiano-democratico Konrad Adenauer, rispettivamente il suo primo presidente e il suo primo cancelliere.
Un mese dopo, un altro Stato, la Repubblica Democratica Tedesca, si costituiva nella zona d’influenza sovietica con Wilhelm Pieck presidente e Otto Grotewohl capo del governo. La definitiva rottura dell’unità Tedesca, l’impianto irreversibile delle “due” Germanie, poneva veramente fine alla “ ricostruzione” europea mentre si apriva una nuova fase delle relazioni internazionali, una fase che anche i Paesi dell’Europa occidentale avrebbero vissuto all’insegna della “ Guerra Fredda”.
Il 6 aprile 1948 Luigi Einaudi, vice-presidente del Consiglio e ministro del bilanci concesse sull’argomento la seguente intervista precisando che le idee esposte sono condivise dal suo partito.
– Può chiarirci che sia il Piano Marshall, sul quale l’opinione pubblica non ha certo idee molto chiare dopo le interpretazioni ed i commenti più opposti ad esso serbati?
– Il Piano Marshall forse può essere paragonato a una medaglia a due facce. La prima è quella del dono: gli Stati Uniti, durante l’anno 1948, daranno all’Italia circa 700 milioni di dollari corrispondenti, al cambio corrente, a circa 400 miliardi di lire. Nel momento attuale, questo dono è necessario. Mentre, avanti la prima guerra mondiale sovrattutto, e poi anche avanti la seconda, la bilancia dei pagamenti italiani si chiudeva in pareggio (e prima del 1914 si chiudeva in avanzo) le cose sono ora profondamente cambiate dopo la guerra. Sino al 1914 l’Italia ha avuto una bilancia di pagamenti internazionali in attivo. Uno dei fatti più interessanti della storia economica italiana è stato infatti che dal 1860 sino al 1914 l’Italia, che quasi non aveva precedentemente riserve auree presso i suoi istituti di emissione, era riuscita ad ammassarne una superiore a un miliardo di lire – vecchie – e a rimborsare praticamente tutti i debiti contratti all’estero per le guerre d’indipendenza e per la costituzione della sua attrezzatura economica (ferrovie, porti, bonifiche, industrie). Nell’intervallo fra le due grandi guerre la posizione era leggermente peggiorata, ma sino al 1939 la bilancia dei pagamenti internazionali si poteva dire ancora in pareggio. Parecchi fattori contribuivano a questo fatto: le rimesse degli emigranti italiani all’estero, le spese dei turisti stranieri in Italia, i noli della marina mercantile italiana ecc. La seconda guerra ha mutato profondamente questo stato di cose: diminuiti per la distruzione della flotta mercantile, i noli; ridotte moltissimo le rimesse degli emigranti; scemate le spese dei turisti; scomparso praticamente il mercato tedesco che assorbiva la maggior parte dell’esportazione ortofrutticola italiana, la bilancia dei pagamenti internazionali si può dire sia in avanzo all’incirca di quella somma di quattrocento miliardi di lire che costituisce l’ammontare del dono che il Piano Marshall promette all’Italia per l’anno in corso. I doni americani consistono, come è noto, nella fornitura gratuita di frumento, carbone, combustibili liquidi e di quelle altre materie prime di cui l’Italia ha bisogno e che non può pagare col prodotto delle sue esportazioni. Non credo vi possano essere dubbi sull’utilità di tutto questo per l’Italia. Se gli Stati Uniti non facessero questo regalo noi non avremmo frumento abbastanza per alimentare la popolazione italiana e non avremmo i mezzi per procurarci il carbone e i combustibili liquidi necessari all’alimentazione delle nostre industrie. Le conseguenze dirette della mancanza di questo dono sarebbero: deficienza di nutrizione per la popolazione italiana e incremento notevolissimo della disoccupazione.
– E l’altra faccia della medaglia cui lei ha paragonato il Piano Marshall?
– È quella dell’uso imposto al Tesoro italiano per il ricavato della vendita dei prodotti ricevuti. Gli Stati Uniti infatti ne chiedono il pagamento.
– Ma se il Tesoro italiano deve pagarlo, non si tratta più di un dono.
– È sempre un dono. Gli Stati Uniti pretendono che il Tesoro italiano, ricevendo 400 miliardi di lire di frumento, carbone, combustibili e materie prime, ne versi l’intero ammontare – e intiero vuol dire il prezzo completo che si dovrebbe pagare per acquistare queste materie prime negli Stati Uniti o altrove – in un “fondo-lire” presso la Banca d’Italia. Che cioè il Tesoro paghi a sé stesso cosicché l’Italia misuri interamente la portata di questo dono e possa attraverso il Parlamento e gli altri organi incaricati di deliberare in materia, decidere il migliore impiego del denaro accumulato.
– Gli Stati Uniti non mettono nessuna condizione a questo uso?
– Sì, una sola: che gli italiani facciano l’uso che reputeranno migliore di questa somma a proprio beneficio, purché non la usino per tappare i buchi del bilancio corrente dello Stato.
– È ragionevole questa condizione?
– Essa è tale che se non ci fosse gli italiani dovrebbero metterla da se stessi. Se quella somma fosse impiegata a colmare il disavanzo ordinario del bilancio dello Stato essa incoraggerebbe la perpetuazione di tale disavanzo e nel 1952, quando il Piano Marshall avrà termine, l’Italia si troverebbe nella stessa situazione di ora col bilancio in disavanzo e senza aver nulla ricostruito.
– Quale uso quindi l’Italia dovrà fare del denaro del fondo-lire?
– Il popolo italiano lo deciderà, ma esso dovrà necessariamente servire a opere di ricostruzione, ripristino delle ferrovie, dei porti, continuazione delle bonifiche delle strade, potenziamento e rinnovamento degli impianti industriali.
– Sorgerà forse qualche controversia intorno a tali diversi usi?
– Qualche controversia potrà nascere, ed è perfettamente naturale che nasca. In un paese libero dove i problemi d’interesse pubblico sono e debbono essere oggetto di discussione, è naturale che si possano avere opinioni diverse su un argomento. È probabile che l’amministrazione delle Ferrovie dello Stato, che il Ministero dei Lavori Pubblici, che il Ministero dell’Agricoltura cerchino di volgere a proprio beneficio, e cioè a beneficio delle ferrovie, delle strade, dei porti, delle bonifiche, la massima parte di questo dono: ed è altrettanto naturale che l’industria affermi che una cospicua parte dei fondi debba invece essere rivolta al rinnovamento degli impianti industriali e specialmente di quelli distrutti dalla guerra o superati. Il problema potrà essere risolto, come tutti questi problemi debbono risolversi, con la formazione di una graduatoria fra i diversi fini mettendo in prima linea quelli che sono considerati i più importanti e i più urgenti.
– Chi deciderà?
– Dopo la discussione, che dovrebbe essere larga e completa, nell’opinione pubblica deciderà l’unico organo competente in materia: il Parlamento italiano.
– Lei ritiene che ai fini del riassetto dell’economia e del raggiungimento del benessere italiano, l’attuazione del Piano Marshall sia indispensabile e che senza di esso le nostre condizioni sarebbero assolutamente disastrose?
– Dato il disavanzo di cui si è detto, nella bilancia dei pagamenti, sì. E per porre veramente l’alternativa se accettare o meno gli aiuti del Piano Marshall, sarebbe necessario che qualche altro paese potesse fornirci i 400 miliardi di lire di materie prime e di combustibili che ci sono offerti gratuitamente dagli Stati Uniti. Non vedo, invece, in questo momento, che esista un qualsiasi altro paese in grado di far questo. Ma finora nessun altro paese, né tanto meno la Russia, ha mostrato di possedere risorse paragonabili a quelle degli Stati Uniti. Il trattato di commercio più importante concluso fuori dalla loro orbita è quello dell’anno scorso, fra la Russia e la Svezia. Quest’ultima si era impegnata a fornire alla Russia macchinari contro provviste di legnami e di altre materie prime: non dono, ma controprestazione. Per un certo momento parve che questo trattato di commercio fosse tale da assorbire una parte notevole della capacità di produzione della Svezia. I fatti dimostrarono invece che si trattava di una frazione trascurabile del commercio internazionale svedese. Non sembra infatti che la Svezia abbia potuto collocare in Russia più del due per cento delle sue esportazioni. Del resto il commercio internazionale della Russia è sempre stato trascurabile. Prima dell’altra guerra il commercio internazionale dell’Impero russo, che pur copriva un sesto della superficie del globo terracqueo, non giungeva neppure ad eguagliare il commercio internazionale del Belgio; e negli anni recenti non pare che il commercio internazionale della Russia sia diventato più importante. Sembra anzi che sia al di sotto del commercio del Venezuela. Non ritengo perciò che sia pratico indugiarsi, almeno per parecchi anni, sulla possibilità di procurarci da altre fonti, ad oriente del territorio italiano, quelle materie prime e quelle merci che ci sono promesse dal Piano Marshall. Rimane poi sempre una differenza fondamentale: quel poco che potremmo procurarci da altre parti occorrerebbe pagarlo con le nostre esportazioni e già ho detto prima come il nostro problema fondamentale sia il deficit della nostra bilancia dei pagamenti, deficit che in questo anno, e per parecchi anni a venire, potrà essere colmato solo con un dono, quale quello promessoci dal Piano Marshall, o con prestiti che per ora sembra nessun paese possa darci all’infuori degli Stati Uniti.
– Come mai gli Stati Uniti si dispongono a fare tanti doni e prestiti all’Europa?
A parer mio la risposta più semplice è in una verità elementare se non tra gli uomini politici almeno tra gli economisti. Molta gente ritiene che il commercio si fondi su un lucro che qualcuno o qualche paese fa ai danni di altre persone o di altri paesi. Questa è una nozione propria delle epoche e dei popoli che vivono di rapina. Se il commercio deve durare, non può non essere fondato su un principio completamente diverso, ossia sul beneficio che da esso torna a vantaggio di tutti e due i contraenti. Gli Stati Uniti non possono sperare di incrementare produzione e traffici se si trovano di fronte a popoli poveri. Gli Stati Uniti non potranno raggiungere un maggior grado di prosperità finché l’Europa rimane in condizioni di miseria. L’arricchimento dell’Europa è condizione necessaria all’arricchimento, o all’ulteriore arricchimento, degli Stati Uniti. Non esiste contrasto di interessi fra un paese e un altro: ambedue i continenti debbono trarre la loro prosperità da una collaborazione. Vogliamo augurarci che nel 1952, quando il Piano Marshall cesserà, l’Italia e l’Europa abbiano ricostruito la loro attrezzatura economica e possano dire agli Stati Uniti: oramai possiamo fare a meno del vostro aiuto, e facendone a meno saremo in grado di collaborare con voi per la prosperità vostra e nostra, nello stesso tempo.