Scandalo Watergate: iniziano le udienze

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Watergate – Watergate è una parola che è entrata nel linguaggio comune per indicare una vicenda o una scoperta imbarazzante e scandalosa. E’ sovente usata come termine di paragone, per verificare la gravità di una verità improvvisa ritenuta grave al punto da poter minare un qualsiasi sistema. Lo scandalo Watergate ebbe un significato terribilmente importante, non solo per la civiltà statunitense ma per tutto il mondo occidentale: con esso si esplorò, come mai era stato fatto fino ad allora e grazie al contributo degli organi di informazione, il lato oscuro della democrazia; con esso si guardò negli occhi quel demone logorante e tentatore presente in qualsiasi sistema di potere.
Il 17 Maggio del 1972 è una data importante per tale scandalo perchè ebbero inizio le udienze nel Senato degli Stati Uniti. Lo scandalo si sviluppò nel contesto della crisi politico-sociale presente da anni negli Stati Uniti a seguito soprattutto delle vicende della guerra del Vietnam. L’affare Watergate si prolungò con una serie di eventi sempre più clamorosi per circa due anni.


Il 17 giugno del 1972 era un giorno come tanti. A Washington, DC, capitale degli Stati Uniti d’America, non era successo nulla di particolare che valesse la pena raccontare, se non fosse stato per quel pezzetto di nastro adesivo che Frank Willis – una guardia di sicurezza che lavorava nel ‘Watergate’ un lussuoso complesso con albergo, residence ed uffici – notó nella porta che dal piano terra portava al parcheggio sotterraneo del grande albergo. Era un nastro comune, attaccato da abili mani per fare in modo che la porta restasse aperta. Quasi senza pensarci Frank lo staccò e riprese tranquillo il suo giro di controllo negli edifici. La storia e il mondo avrebbero forse preso sentieri diversi se Frank Willis non fosse nuovamente passato, poco dopo, davanti a quella porta; un altro pezzo di nastro era stato attaccato, qualcuno voleva proprio che quella porta rimanesse aperta. Fu a quel punto che il ‘vigilante’ si insospettì; pensando che qualche ladro si fosse intrufolato nel palazzo, alzó il telefono e decise che quella di chiamare la polizia era decisamente una buona idea.
Piú o meno in quegli stessi istanti il sergente Paul Leeper e i poliziotti Carl Shoffler e John Barret stavano dirigendosi, vestiti in abiti civili e a bordo di un auto ‘civetta’, verso Georgetown – il quartiere più vivace di Washington, i cui bar e ristoranti frequentati da studenti, politici e bella gente erano spesso terreno di caccia per l’antidroga o la buoncostume – quando, erano esattamente le 1 e 52 del mattino, la radio di bordo gracchiò l’allerta ‘porte aperte’: un possibile tentativo di rapina era in corso nell’elegante complesso del Watergate. Una rapida conversione ad ‘U’ e nel giro di un paio di minuti i tre poliziotti vestiti ‘casual’ si trovavano nella lobby del Watergate per incontrarsi con l’agente della ‘security’ Willis.
“Se pensate che siamo saltati dalla macchina e che siamo entrati correndo nell’albergo vi sbagliate”, ha raccontato tempo dopo il sergente Leeper; aggiungendo a sua giustificazione che “c’erano talmente tanti allarmi di rapina in quei giorni a Washington e il novanta-novantacinque per cento finivano per rivelarsi sempre falsi”. I tre poliziotti del ‘Washington Police Department’ non potevano certo immaginare di avere allo stesso tempo ragione e torto marcio: perché quella era sì una ‘falsa rapina’, ma dietro alla ‘intrusione con effrazione’ perpetrata nell’elegante complesso della capitale degli ‘States’ si nascondeva una vicenda che sarebbe passata alla storia e che avrebbe costretto alle dimissioni l’uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti: fu in quella notte del 17 giugno 1972 che il ‘caso Watergate’ ebbe inizio.
Leeper, Shoffler e Barret cominciarono il giro di ispezione del grande complesso iniziando dai ventinove uffici della ‘suite’ al sesto piano dove il partito democratico aveva messo in piedi il quartier generale della sua campagna elettorale.
Quando i tre poliziotti entrarono nella stanza occupata abitualmente dalla segretaria di Stanley Griegg (il Vicepresidente del partito) un uomo scattò in piedi da dietro una scrivania, braccia alzate urlando: “non sparate”. Gli agenti rimasero di sasso: davanti a loro c’erano cinque uomini in giacca e cravatta, di mezza età, che indossavano guanti da chirurgo, erano dotati di walkie talkie ed avevano strane apparecchiature elettroniche.
‘Deep Throat’, ‘Gola Profonda’, era il nome in codice che Bob Woodward aveva dato al suo informatore segreto che gli rivelava, suggeriva o confermava i ‘segreti’ del Watergate e il sempre più profondo coinvolgimento del presidente Richard Nixon.
Un nome, ‘gola profonda’ preso in prestito da una pellicola per ‘adulti’ molto popolare (e discussa) negli anni Settanta, ma che era anche – come ha raccontato lo stesso Woodward e come ha confermato l’allora direttore del Washington Post Bill Bradlee – un gioco di parole con la frase ‘deep background’ che, nel gergo giornalistico-politico americano, sta a precisare una fonte che non si deve assolutamente riconoscere, neanche definendola ‘fonte Fbi’ o più semplicemente ‘fonte governativa’.
A sentire i racconti di Bob Woodward ‘Gola Profonda’, durante tutto il ‘caso Watergate’ era molto nervoso, ed aveva temuto più volte che la sua reale identità potesse essere scoperta. Oggi sappiamo perfettamente perchè: ‘Deep Throat’ altri non era che W. Mark Felt, a quei tempi ‘numero due’ del Federal Bureau of Investigation (Fbi), il leggendario servizio segreto interno creato e diretto per oltre quaranta anni da Edgar J. Hoover.
Per capire i legami di Woodward con Felt occorre fare un passo indietro di qualche anno. Prima di diventare un famoso reporter (il Watergate gli fece vincere il Pulitzer e gli diede notorietà internazionale) in quell’estate del 1969, Bob Woodward stava servendo la patria come tenente della ‘US Navy’, la Marina degli Stati Uniti. Era stato assegnato al Pentagono come ‘watch officer’, l’uomo che doveva monitorare le comunicazioni del sistema ‘Teletype’ per il comandante delle operazioni navali Ammiraglio Thomas H. Moorer; un militare che successivamente divenne anche il ‘Joint Chief of Staff’, il numero uno delle forze armate Usa.


Woodward aveva un compito catalogato ‘top secret’ ed aveva libero accesso al cosiddetto ‘SPECAT’ (Special Category), dove transitavano “messaggi di inusuale sensibilità”. Inoltre per il suo lavoro era anche in grado di accedere al ‘Top Secret Crypto’, le informazioni crittografiche dei codici di comunicazione. Stando a quanto lo stesso Woodward racconta nel suo ultimo libro – ‘The Secret Man’, the Story of Watergate’s Deep Throat’, pubblicato dopo che Felt ha ammesso di essere ‘Gola Profonda’ – in realtà, al di là delle sue sigle altosonanti il lavoro al Pentagono non gli permetteva “alcun accesso speciale a questioni e documenti di intelligence, che venivano fatti circolare su differenti e separati canali di comunicazione”.
Quel lavoro gli dava peró la possibilità di frequentare spesso i luoghi del potere. E quando, una sera, ci fu da portare una busta ‘urgente’ alla Casa Bianca, Woodward si offrì, come spesso gli capitava, volontario.
Fu lì, in una sala dell’edificio in cui si decidono spesso i destini del mondo, mentre aspettava di essere ricevuto per fare la sua consegna, che il tenente di Marina Robert Upshur Woodward fece la sua conoscenza con l’uomo che gli avrebbe cambiato la vita. ‘Mark Felt’, il numero due del Fbi si presentò semplicemente con nome e cognome, non avendo alcuna voglia (racconta sempre Woodward nel suo libro) di intavolare alcun tipo di colloquio con quel tenentino della ‘US Navy’.
Fu solo grazie alla insistenza, e alla faccia tosta, del futuro ‘reporter’ del Post che in quella attesa, più lunga del previsto – Felt doveva probabilmente incontrare qualcuno molto in alto, se i funzionari della Casa Bianca lo facevano aspettare come fosse un comune mortale – riuscì alla fine a strappare qualche notizia sul conto dell’uomo che gli stava seduto accanto. Il ghiaccio si sciolse perchè Woodward cominciò a raccontare della sua carriera universitaria al ‘George Washington’, lo stesso college della capitale Usa dove Felt negli anni Trenta aveva frequentato la ‘Law School’.
Sia come sia, Woodward riuscì a farsi dare un numero di telefono e la promessa di poter incontrare di nuovo Felt per avere “qualche consiglio” sul suo futuro che Woodward sperava fosse lontano dalla carriera militare. Da quella sera iniziò a chiamarlo spesso, tanto che alla fine riuscì a creare una sorta di amicizia, quasi un rapporto padre-figlio o tutore-studente che pochi anni dopo avrebbe dato i suoi frutti: sotto forma del più grande ‘scoop’ giornalistico della storia americana.
Bob Woodward divenne un ‘reporter’ del Washington Post il venerdì 15 settembre del 1971. Un anno prima aveva clamorosamente fallito una settimana di prova nel prestigioso giornale – il capo redattore (ed anche Felt che stava diventando sempre di più il suo mentore) gli aveva consigliato di lasciar perdere con il giornalismo – ma lui, testardo, aveva trovato posto in un piccolo giornale del Maryland (“The Montgomery County Sentinel”) dove si era messo in luce facendo piccoli ‘scoop’ locali e in un paio di occasioni dando anche quello che in gergo giornalistico si chiama un “buco” al Washington Post che lo aveva respinto.
Lo stesso caporedattore della cronaca metropolitana che gli aveva consigliato di cambiare mestiere, si rese conto dell’errore e a circa un anno di distanza dal primo colloquio lo presentò al direttore Bill Bradlee che ne decise l’assunzione.
Nel giorno esatto del suo colloquio con il famoso ‘Editor in Chief’ del ‘Post’ Howard Hunt – un consigliere di Nixon alla Casa Bianca – aveva guidato un ‘burglary team’ (una ‘squadra-ladri’) negli uffici dello psichiatra di Daniel Ellsberg, l’uomo che aveva dato al ‘New York Times’ i ‘Pentagon Papers’: i rapporti del Pentagono sulla guerra in Vietnam che furono fino al Watergate il più grande scoop giornalistico dell’epoca.
Il 2 maggio 1972 Edgar J. Hoover – boss indiscusso del Fbi e per anni l’uomo più potente dell’America del Novecento – morì, lasciando un vuoto difficilissimo da colmare.
Quando Felt, che di Hoover era stato un uomo di fiducia tanto da essere stato promosso ai vertici del Bureau, ebbe la notizia fu sicuro che sarebbe toccato a lui prenderne il posto come successore. Ma si sbagliava di grosso.
Il presidente Nixon già da tempo si fidava poco del Fbi e decise che era giunto il momento di mettere a capo dell’intelligence interna un suo uomo di fiducia.
La scelta cadde su Patrick Gray, un ‘assistant attorney general’, vice ministro della Giustizia, che già si era occupato di coprire qualche malefatta dell’amministrazione ed era entrato a suo tempo in contrasto anche con qualche agente del Fbi, facendo innervosire più d’una volta lo stesso Hoover.
Per Felt lo shock fu grande, anche se riuscì a mascherarlo in pubblico sempre piuttosto bene. Ma forse quella decisione di Nixon non fu estranea alla sua ‘collaborazione’, come ‘Gola Profonda’, al Watergate. Nonostante lo smacco Felt si rimboccò le maniche e divenne nei fatti – anche se formalmente era il ‘numero due’ – il capo operativo del Fbi; Gray era infatti troppo impegnato a viaggiare per visitare i ‘field office’ e per cercare di capire come funzionasse la delicata macchina del Fbi, lui che tutto era tranne che uno ‘special agent’ e che non godeva certo di grande popolarità tra gli uomini che doveva guidare.
Quel 17 giugno del 1972 erano passate sei settimane dalla morte di Hoover e quando i cinque ‘ladri’ fecero irruzione nel Watergate, Gray era appunto fuori città. Il ‘supervisor’ notturno si rese subito conto che il rapporto che doveva trasmettere era importante – si trattava pur sempre degli uffici del partito democratico – e alle sette del mattino decise di chiamare Felt a casa: “Cinque uomini in giacca e cravatta con le tasche piene di biglietti da cento dollari, che avevano auricolari e materiale fotografico e di spionaggio elettronico sono stati arrestati dentro il quartier generale del partito democratico al Watergate circa alle 2 e 30”. “Che diavolo stavano facendo”, chiese Felt, fiutando subito una grana. “Si tratta di una faccenda un pò complicata, rispose il ‘supervisor’, credo sia meglio che ci incontriamo nel suo ufficio”.


Quando Felt seppe che i cinque uomini arrestati avevano guanti da chirurgo, 2300 dollari cash, che erano in carcere ma si rifiutavano di parlare, che non avevano voluto un avvocato, ma che un elegante lawyer si era presentato, del tutto inaspettato, alla discussione in aula sulla cauzione, Felt disse: “Questa storia ha un sacco di implicazioni politiche, la stampa avrá una giornata occupata”. Due ore dopo che il supervisor aveva avvisato Felt, il caporedattore di turno del ‘Post’ chiamò a casa Bob Woodward. Erano le nove di mattina del 17 giugno 1972.
Woodward non era l’unico ‘reporter’ che venne svegliato d’urgenza quella mattina. Il caporedattore aveva ‘fiutato’ la storia e oltre a Woodward – scelto perché si era occupato come tutti i pivellini di ‘nera’, facendo il giro di distretti di polizia ed ospedali (bisogna ricordare che era al Washington Post da appena nove mesi) altri sette reporter vennero ‘buttati’ su quella strana rapina al Watergate; tra questi c’era anche Carl Bernstein che sarebbe diventato l’alter ego di Woodward fino a formare la più famosa coppia di ‘investigative reporter’ del giornalismo mondiale.
Il primo compito che Bob Woodward ebbe quella mattina fu quello di andare nell’aula della Corte dove i cinque ‘ladri’ erano stati portati per ascoltare i capi d’accusa e discutere l’eventuale cauzione. Con una certa sorpresa Woodward notò che un ottimo avvocato, Douglas Caddy, si era presentato in tribunale, ascoltando con estrema attenzione i procedimenti ma negando in un primo tempo di essere l’avvocato dei cinque: sono qui solo per guardare disse più volte, anche se alla fine ammise che aveva già incontrato uno dei cinque, “una volta, ad un ‘social event’, di Washington”. Il comportamento di Caddy insospettì Woodward, che rimase ancora più stupito quando il procuratore Earl Silbert spiegò al giudice che i cinque avevano dato falsi nomi e che la ‘rapina’ – che non aveva fruttato apparentemente alcun bottino – era stata fatta in modo “altamente professionale e con un chiaro intento clandestino”.
Quando il giudice James A. Belsen chiese ai cinque cosa facessero per vivere, uno per tutti rispose, mentre gli altri annuivano: “gli anticomunisti”. Belsen chiese a quello che aveva parlato e che appariva come il ‘capo’ – James McCord – di fare un passo in avanti e ripeté la domanda: “La sua occupazione?” “Consulente per la sicurezza”. Dove? Bisbigliando McCord disse che era appena andato in pensione da un ‘servizio governativo’. Woodward si avvicinò per sentire meglio e potè quindi ascoltare con chiarezza la risposta all’ennesima richiesta di spiegazione (“in quale agenzia di governo?”) fatta dal giudice: “La Cia”, rispose freddamente McCord.
“Cinque uomini, uno dei quali ha detto di essere un ex impiegato della Central Intelligence Agency, sono stati arrestati ieri alle 2 e 30 del mattino in quella che le autorità hanno definito una elaborata congiura per installare microfoni-spia negli uffici del Comitato nazionale Democratico”.
Iniziava così il primo articolo sul Watergate che i lettori del ‘Washington Post’ lessero la mattina del 18 giugno sulla prima pagina del quotidiano. L’articolo aveva la firma di Alfred E. Lewis mentre Woodward e Bernstein comparivano solo come collaboratori insieme ad altri sei nomi, i reporter che si erano occupati del caso il primo giorno. Il ‘Watergate’ del ‘Post’ aveva avuto inizio.


A tutt’oggi non é ancora chiaro cosa abbia spinto i potenti uomini della Casa Bianca a un’operazione di spionaggio del genere. In quell’inizio d’estate del 1972, a meno di cinque mesi dalle elezioni che lo avrebbero visto trionfare a valanga sul candidato democratico George Mc Govern (una delle vittorie più nette e scontate della bicentenaria storia americana) il presidente Nixon veniva dato in vantaggio di circa 19 punti, un margine di assoluta e totale sicurezza per avere la rielezione garantita.
Quell’operazione, già inutilmente rischiosa di per sè, una volta andata male per un banale contrattempo (dovuto però a disattenzione se non dilettantismo dei cinque ‘ladri’) sarebbe costato subito molto cara a Nixon se nei primi mesi dopo il ‘furto’ al Watergate i tentativi di insabbiamento e di depistaggio non fossero andati a buon fine.
A 49 anni di distanza nessuno sa bene nean-che che cosa i ‘ladri’ stessero veramente cercando. L’unica cosa certa è che stavano tentando di riparare una ‘cimice’ – che avevano installato tre settimane prima – in un telefono, che stavano frugando in mezzo ai documenti e che ne stavano fotografando alcuni.
Il Watergate inizia per una questione di soldi – anche se Woodward precisa che la famosa frase attribuita a ‘Gola Profonda’ (“follow the money”) non venne in realtà mai pronunciata, ma lo scopo non era certo quello di arricchirsi; lo rimarcò lo stesso Nixon al momento delle sue dimissioni, quando, poco prima di salire sull’elicottero che lo avrebbe portato definitivamente lontano dalla Casa Bianca disse: “nessun uomo e nessuna donna sono arrivati in questa amministrazione e se ne ripartono avendo qualche bene in più di quelli che già avevano quando arrivarono”.
Aveva ragione. Il Watergate fu soprattutto una storia di (inutile) arroganza del potere e del desiderio di attaccarsi al potere ad ogni costo. Per l’opinione pubblica americana la grande sorpresa fu che molti, troppi, erano stati disposti a sacrificare i principi e i valori fondamentali per queste motivazioni.




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