STORIA – L’ISOLA DELLE ROSE

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STORIA –  In questi giorni si è tornati a parlare dell’Isola delle Rose e della sua storia complicata e ricca di vicissitudini.

L’Isola delle Rose fu un curioso esperimento politico, sociale, culturale. Nell’estate del 1968 Giorgio Rosa, un ingegnere bolognese, inaugurò una struttura in cemento e lamiere in acque internazionali, a poco più di 11 km dalle coste romagnole.

Nelle sue intenzioni la piattaforma doveva essere una micronazione con tanto di presidente, ministeri, lingua autonoma (l’esperanto) e inno nazionale (L’olandese volante di Richard Wagner). Le dimensioni erano limitate, circa 400 metri quadrati. In superficie un albergo, una banca, un bar e attracchi per le barche. Eppure la Insulo de la rozoj, come fu chiamata in esperanto, per un’estate tenne sotto scacco il mondo intero.

 Le piazze occidentali erano occupate da studenti in rivolta. L’America era impantanata in Vietnam e l’Urss aveva appena mandato i carri armati a Praga per reprimere il “socialismo dal volto umano” di Dubcek.

In Italia, intanto, si sperimentavano le gioie del benessere e della libertà. Se a Rimini apriva il Lady Godiva, primo night dove si potevano vedere bellezze locali a seno nudo, il parlamento nazionale se la vedeva con un “governo balneare”, un monocolore Dc durato una stagione e guidato da Giovanni Leone, il futuro presidente della Repubblica.

In questo scenario si mosse Giorgio Rosa, per sua stessa ammissione lontano da posizioni politiche. L’impresa cominciò alla fine degli Anni ’50. Chiesto il permesso alla capitaneria di porto di Rimini di edificare una piattaforma in mare, organizzò il cantiere. Il progetto prevedeva la costruzione sulla terraferma di un telaio di tubi in acciaio da trasportare in galleggiamento in mare aperto, dove poi sarebbe avvenuto il collaudo.

Il primo tentativo fu un disastro, e quella che doveva essere l’embrione dell’Isola delle Rose venne travolta da una mareggiata. L’ingegnere però non si perse d’animo. Ne costruì un’altra e per il 20 agosto 1967 la sua isola fu aperta al pubblico. L’anno successivo, il 1° maggio, ci fu invece l’inaugurazione ufficiale. Frotte di turisti approdarono sulla piattaforma attratti da quello spazio nell’Adriatico che non era più Italia, e nemmeno Iugoslavia, ma una zona libera da ogni giurisdizione nazionale esistente.

I media iniziarono a interessarsene, seminando dubbi sulle reali intenzioni di Giorgio Rosa. C’era chi giurava che l’isola fosse una casa di prostituzione mascherata, chi la sospettava di essere un avamposto della Iugoslavia titina. Altri ancora immaginarono che potesse ospitare una radio privata sul modello dell’inglese Radio Caroline (una radio libera inaugurata da un gruppo di “pirati” a bordo di una vecchia nave danese).

La realtà era molto più prosaica: Giorgio Rosa voleva creare un porto franco, svincolato da ogni ostacolo amministrativo, burocratico ed economico. L’Isola delle Rose era una “città del sole”, il sogno di ogni imprenditore: qui si poteva vivere in libertà, senza leggi restrittive e con negozi, banche e alberghi capaci di essere attrattivi per i turisti e di far guadagnare.

Anni dopo Rosa disse in un’intervista: “A essere sinceri, il mio progetto iniziale era questo: costruire qualcosa che fosse libero da lacci e lacciuoli e non costasse molto. Sulla terraferma la burocrazia era soffocante. Così mi venne un’idea, durante la villeggiatura a Rimini”. E spiegò: “Volevamo aprire un bar e una trattoria. Mangiare, bere e guardare le navi da Trieste che passano vicine, a volte anche troppo. Il ricordo più bello è la prima notte sull’isola in costruzione. Venne un temporale che sembrava portasse via tutto. Ma al mattino tornò il sole, ogni cosa pareva bella e realizzabile. Poi cominciarono i problemi”.

Il nuovo Stato fece in tempo a stampare i suoi francobolli e provò a battere moneta, ma il governo italiano avanzò subito le sue richieste. In Parlamento da destra, da sinistra e dal centro fu un fuoco incrociato che infiammò l’estate del 1968: il Movimento sociale accusò Giorgio Rosa di aver violato il suolo italiano, il ministro dell’Interno denunciò senza mezzi termini il “grave pericolo” rappresentato da questa nazione al di fuori del controllo del diritto internazionale. E se il Servizio segreto militare sospettò che l’isola potesse essere una base per l’attracco dei sommergibili sovietici, a sinistra, il Partito comunista ventilò l’ipotesi che fosse una manovra destabilizzante di Enver Hoxha, dittatore dell’Albania. Risultato: l’utopia dell’Isola delle Rose aveva le ore contate.

Il 24 giugno, a meno di due mesi dall’inaugurazione, la piattaforma fu circondata da polizia e carabinieri: i negozi vennero chiusi e i pochi residenti, tre in tutto, abbandonarono l’isola. Rosa si rivolse direttamente a Saragat per chiederne la restituzione, ma non ebbe alcuna risposta. “Non avevamo risorse, eravamo soli. Quando il Consiglio di Stato diede parere favorevole alla demolizione, non feci ricorso”, affermò tempo dopo la fine dell’avventura.

Il 13 febbraio 1969 gli artificieri della Marina militare minarono i piloni con la dinamite e l’isola piano piano si inabissò. E con lei il sogno di Giorgio Rosa che pragmaticamente archiviò il progetto, preferendo lavorare come ingegnere e progettista nel suo studio di Bologna. “Capii definitivamente che in Italia è impossibile essere liberi, far le cose da solo”, dirà qualche anno prima della morte avvenuta a marzo 2017.