I nuovi Santi esempio di cammino nelle Fede

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E’ sempre una giornata di festa quando la Chiesa celebra santi o beati. Pregare è lottare e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi”. Con queste parole Papa Francesco ha voluto ricordare il valore della preghiera nella Messa in Piazza San Pietro per la proclamazione di sette nuovi santi. Pregare “non per vincere la guerra, ma per vincere la pace”.

Erano circa 80 mila le persone presenti per rendere omaggio a José Sánchez del Río, Salomone Leclercq, José Gabriel del Rosario Brochero, Manuel González García, Lodovico Pavoni, Alfonso Maria Fusco ed Elisabetta della Santissima Trinità.

Tra i nuovi santi ci sono due martiri: José Sánchez del Río, un ragazzo di appena 14 anni, ucciso nel 1928 durante la rivoluzione anticattolica in Messico e la conseguente rivolta dei “cristeros”. Ha resistito ai torturatori che volevano fargli rinnegare la fede. Sul suo corpo gli viene trovato un biglietto per la mamma: “Ti prometto che in Paradiso preparerò un buon posto per tutti voi. Il tuo José muore in difesa della fede cattolica e per amore di Cristo Re e della Madonna di Guadalupe”.
José Sánchez del Río nacque il 28 marzo 1913 a Sahuayo, nello stato di Michoacán, Messico. Allo scoppio della cosiddetta “guerra cristera”, nel 1926, i suoi fratelli si unirono alle forze ribelli al regi-me, violento e anticristiano, che si era instaurato nel Paese. Anche José venne arruolato. A Sahuayo il cattolicesimo era molto vivo e per questo il movimento dei “Cristeros” vi era molto radicato. I sacerdoti che vivevano da clandestini rimasero a Sahuayo durante tutta la persecuzione, non abbandonando mai il loro gregge, celebrando l’Eucaristia di nascosto e amministrando i sacramenti, ai quali il ragazzo José partecipava assiduamente. In quegli anni, spesso si parlava dei pri-mi martiri cristiani e molti giovani erano desiderosi di seguire le loro orme. Durante una violenta battaglia, il 25 gennaio 1928, José fu catturato e condotto nella sua città natale, dove venne imprigionato nella chiesa parrocchiale, ormai profanata e devastata dai federali. Gli fu proposto di fuggire per evitare la condanna a morte, ma rifiutò. Nei giorni della prigionia, al fine di fargli rinnegare la fede per salvarsi, fu torturato e costretto ad assistere all’impiccagione di un altro ragazzo che era stato imprigionato insieme con lui. Scuoiatagli la pianta dei piedi, venne costretto a raggiungere a piedi il cimitero dove, posto davanti alla fossa in cui sarebbe stato sepolto, fu pugnalato non mortalmente e gli fu chiesto di rinnegare nuovamente la sua fede. Ma José, a ogni ferita che gli veniva inferta, gridava: «Viva Cristo Re! Viva la Madonna di Guadalupe!». Infine fu giustiziato con un colpo di pistola. Era il 10 febbraio 1928. Aveva quasi quindici anni. Tre giorni prima aveva scritto alla mamma: «Affidati alla volontà di Dio. Io muoio contento perché sto morendo a fianco di Nostro Signore». Nel 2005, il Papa Benedetto XVI lo ha annoverato tra i beati.

E venne ucciso nel 1792 durante la Rivoluzione francese il primo martire lassalliano, Salomone Leclercq: anche lui preferisce dipendere da Dio e non dai potenti di turno. Nacque a Boulogne-sur-Mer il 14 novembre 1745. Suo padre era un ricco commerciante. Nicola frequentò la scuola a indirizzo commerciale che i Fratelli delle Scuole Cristiane dirigevano in quella città.Il padre gli trovò un lavoro nelle vicinanze di Boulogne e poi lo inviò a Parigi alle dipendenze di un suo amico commerciante. L’ambiente che frequentava a Parigi non piaceva a Nicola. Così, ritornato a Boulogne, manifestò al padre il desiderio di seguire l’esempio dei suoi maestri. Il 25 marzo del 1767 entrò al noviziato di Saint-Yon a Rouen. Pronunciò i voti nel 1769 e nel settembre del 1770 fu inviato ad insegnare a Maréville. Emise la professione perpetua nel 1772. Nel 1777 fu nominato “procuratore” di quella grande casa che, tra scuola, alunni interni, soggetti in formazione e un settore per soggetti difficili inviati dal tribunale, contava circa 1000 presenze. Nel 1787 partecipò al capitolo generale, del quale fu nominato segretario. Al termine dei lavori capitolari fu chiamato a svolgere la stessa funzione alle dirette dipendenze del superiore generale. Nel 1791, nel pieno degli anni turbinosi e violenti della rivoluzione, i Fratelli furono obbligati ad abbandonare le loro sedi. Fratel Salomone vestì civilmente nella speranza di non essere riconosciuto e rimase a custodire la casa dove era il consiglio generale della congregazione. Il 15 agosto 1792, però, le guardie invasero la casa di Rue Neuve, lo arrestarono e lo condussero al convento dei carmelitani di rue de Vaugirard, trasformato in prigione. Il 2 settembre fu giustiziato sui gradini del giardino interno del convento per aver rifiutato di giurare fedeltà alla Costituzione civile del clero. Fratel Salomone, insieme ad altri 190 compagni martiri, fu beatificato dal Papa Pio XI, il 17 ottobre 1926.

Caro a Papa Francesco è il “Cura Brochero” (José Gabriel del Rosario Brochero), sacerdote argentino con l’odore delle pecore che tra il 1800 e il 1900 percorre su una mula distanze enormi per portare ai più poveri la consolazione di Gesù.
José Gabriel del Rosario Brochero nacque a Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) il 16 marzo 1840, quarto di dieci fratelli, in una famiglia profondamente cristiana. Il 5 marzo 1856 entrò nel Collegio Seminario “Nostra Signora di Loreto” e il 4 novembre 1866 fu ordinato presbitero. Durante i primi anni di sacerdozio, gli fu affidato l’incarico di aiutante nella cura pastorale presso la cattedrale di Córdoba, dove svolse il proprio ministero durante l’epidemia di colera che colpì la città. Conseguito il dottorato in filosofia presso l’Università di Cordoba, fu nominato Prefetto degli Studi del Seminario Maggiore. Nel 1869 venne incaricato della cura pastorale della vasta zona di San Alberto a Córdoba, un’area vastissima, senza strade né scuole, con pochi abitanti che vivevano disseminati lungo la catena Sierras Grandes, versando in uno stato di miseria morale e materiale. Ma egli non si abbatté e da quel momento dedicò la sua esistenza ad annunziare il Vangelo, a educare e ad aiutare gli abitanti, in particolare i più poveri ed emarginati, facendo edificare chiese, scuole, strade e ottenendo l’apertura di sedi postali e bancarie, e l’estensione della rete ferroviaria. Divulgò la pratica degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio, ottenendo numerose conversioni. Nel 1877 inaugurò una casa per esercizi spirituali, che avrebbe accolto oltre 40.000 persone. Dopo essersi dedicato, senza risparmio di energie, alle attività pastorali, nel 1908 dovette lasciare l’incarico di parroco per aver contratto la lebbra durante le visite agli ammalati colpiti dal morbo. Visse alcuni anni con la sorella nel suo paese natale. In seguito alle sollecite richieste dei suoi vecchi fedeli, però, fece ritorno alla pro-pria casa a Villa del Transito (Córdoba), dove morì di lebbra, cieco, il 26 gennaio 1914. Il 14 settembre 2013, il Santo Padre Francesco lo ha annoverato tra i beati.

Proclamato santo anche il vescovo spagnolo di Palencia Manuel González García, morto nel 1940, fondatore dell’Unione Eucaristica Riparatrice e della Congregazione delle Suore Missionarie Eucaristiche di Nazareth, promotore del culto eucaristico e noto come il “vescovo dei Tabernacoli abbandonati”.
Manuel González García nacque a Siviglia e concluse i suoi giorni a Palencia, dove riposa sotto il Tabernacolo della Cattedrale. Come sacerdote (ordinato nel 1901) esercitò il suo ministero a Siviglia e a Huelva. Fu Vescovo di Malaga (consacrato nel 1916) e Palencia. Fondò opere sociali in Huelva e costruì un nuovo seminario a Malaga. Nel 1931, a causa dell’incendio della sua residenza, lasciò Malaga e guidò la Diocesi da Gibilterra e Madrid. Nel 1935 Pio XI gli assegnò la sede palentina; lì consumò l’offerta della sua vita a immagine del Buon Pastore, senza perdere la bontà nello sguardo e il sorriso sulle labbra. Nel 1902, nella parrocchia di Palomares del Río, ricevette la grazia che avrebbe polarizzato tutta la sua vita. Egli stesso racconta: «Andai direttamente al Tabernacolo. Lì la mia fede vedeva un Gesù silenzioso, tanto paziente, che mi guardava, che mi diceva molto e mi chiedeva di più. Uno sguardo nel quale si rifletteva tutta la tristezza del Vangelo: la tristezza di non avere riparo, il tradimento, la negazione, l’abbandono di tutti». A seguito di questa esperienza mistica, il 4 marzo 1910 a Huelva fondò il primo ramo della Famiglia Eucaristica Riparatrice (formata da laici, consacrati e sacerdoti), con lo scopo di dare e cer-care una risposta di amore a Cristo Eucaristia. Fondò anche due riviste di azione eucaristica: “El Granito de Arena” (per gli adulti) e “RIE” (per i bambini), e scrisse libri di preghiera, formazione sacerdotale e catechesi.«Per i miei passi non voglio che un sentiero, quello che porta al Tabernacolo, e camminando per quel sentiero incontrerò affamati e poveri di molte classi… e farò discendere su di loro la gioia della Vita». Queste parole tracciano il profilo del nuovo santo. Con ragione Papa San Giovanni Paolo II lo ha proposto come «modello di fede eucaristica».

C’è poi il sacerdote bresciano Lodovico Pavoni, fondatore della Congregazione dei Figli di Maria Immacolata. Durante la rivoluzione industriale del 1800 con i suoi “frati operai” insegna ai giovani emarginati la fede e il lavoro.
Lodovico Pavoni nacque a Brescia l’11 settembre 1784. Visse in un’epoca caratterizzata da profondi rivolgimenti politici e sociali. Dal periodo della sua infanzia e adolescenza si ricorda il suo spirito di pietà, la sensibilità verso i bisognosi, l’attenzione verso i ragazzi poveri, l’intelligenza vivace e acuta. Rispondendo alla chiamata del Signore, si orientò al sacerdozio e fu ordinato presbitero il 21 febbraio 1807. Si distinse subito per una straordinaria dedizione ai giovani, a favore dei quali fondò l’Istituto di San Barnaba, dove accolse i ragazzi in stato di maggior necessità, in un ambiente che diventò per loro famiglia e luogo di educazione alla vita, alla fede e al lavoro. Durante il colera del 1836 il Pavoni aprì la casa ai ragazzi rimasti orfani a causa dell’epidemia. Nel 1841 accolse nell’Istituto anche i sordomuti.
A sostegno e per la continuità dell’Istituto, Lodovico Pavoni andava coltivando il pensiero di formare una congregazione religiosa. Ottenuto nel 1843 il decreto dal Papa Gregorio XVI, giunse finalmente l’approvazione imperiale nel 1846. L’anno seguente padre Pavoni emise la sua professione religiosa, insieme con i primi fratelli della nuova Congregazione dei Figli di Maria Immacolata. La sua vita fu segnata da una grande passione educativa; anzi, il Pavoni svolse un vero ruolo di precursore in campo pedagogico, congiungendo strettamente l’attività educativa a quella lavorativa: il lavoro, e non soltanto lo studio, diventava mezzo educativo. Il giorno dopo lo scoppio in Brescia delle “Dieci Giornate”, il 24 marzo 1849, padre Lodovico, per accompagnare sotto la pioggia i suoi ragazzi nel tentativo di metterli in salvo da saccheggi e violenze, contrasse una broncopolmonite che lo portò alla morte all’alba del 1° aprile. Il Papa San Giovanni Paolo II lo annoverò tra i Beati nel 2002.

Il sacerdote salernitano Alfonso Maria Fusco, fondatore della Congregazione delle Suore di San Giovanni Battista, vicino ai contadini del Sud dimenticati dopo l’unità d’Italia nacque il 23 marzo 1839 ad Angri (SA), nella diocesi di Nocera dei Pagani, da famiglia profondamente religiosa. La sua vocazione-missione maturò nel contesto storico della seconda metà dell’800. Il meridione d’Italia viveva allora momenti drammatici a causa del nuovo assetto politico costituitosi dopo l’unificazione del Paese. Ordinato sacerdote il 29 maggio del 1863, si dedicò all’educazione e alla cura dei fanciulli che brulicavano per le strade di Angri; dava loro una seria formazione religiosa, culturale e professionale, perché fossero autentici cristiani ed esperti professionisti, capaci di assumere un ruolo operativo nel contesto sociale. Don Alfonso fu un uomo che seppe guardare oltre, che comprese l’importanza dell’istruzione anche per le donne, in una società in cui la donna non veniva riconosciuta nella sua dignità. Esercitò il ministero sacerdotale nella Chiesa locale con assiduità e zelo. Si dedicò all’apostolato delle confessioni, alla predicazione e all’animazione catechetica e liturgica della gioventù, nonché alle missioni rurali. Fu paziente, umile e obbediente alla volontà di Dio, che accolse con amore anche nelle difficoltà. Pose al centro della sua vita e della sua missione l’Eucaristia. In Gesù Eucaristico trovava la sua forza e la sua gioia. Coltivò un amore filiale verso Maria SS. Addolorata alla quale ricorreva con fiducia in ogni sua necessità. Il 26 settembre 1878, in risposta ad un forte appello interiore, confidando nella Divina Provvidenza, fondò la Congregazione delle Suore di San Giovanni Battista per l’evangelizzazione, l’educazione e la promozione dei bambini e dei giovani prevalentemente poveri, bisognosi e a rischio. Si spense serenamente ad Angri il 6 febbraio 1910, lasciando grande fama di santità. Il 7 ottobre 2001, Papa San Giovanni Paolo II lo proclamò Beato.

Dulcis in fundo la mistica francese Elisabetta della Santissima Trinità, Carmelitana scalza, morta nel 1906 a 26 anni tra indicibili dolori a causa del morbo di Addison offrendo tutto per la salvezza delle anime e per gli scoraggiati.
Elisabetta Catez nacque il 18 luglio 1880 nel campo di Avor, presso Bourges in Francia, e fu battezzata quattro giorni dopo. Nel 1887, pochi anni dopo il trasferimento della famiglia a Digione, il padre morì. Il 19 aprile 1891 ricevette la Prima Comunione: quel giorno ella cominciò una dura lotta per “vincersi per amore”, imparando a dominare il suo temperamento volitivo, ardente e impetuoso. Sempre più intimamente attratta da Cristo, nel 1894 emise privata-mente il voto di verginità. Sentendosi chiamata alla vita religiosa, chiese alla madre il permesso di entrare al Carmelo di Digione; obbediente alla madre, che si opponeva proibendole di frequentare il monastero, lo poté fare soltanto il 2 agosto del 1901. Abile e premiata pianista, gioiosa e attiva nella vita parrocchiale e sociale della sua città, visse il tempo che la separava dall’entrata al Carmelo imparando a trovare l’amato Cristo in ogni cosa, donando soltanto a Lui il suo cuore, seppure impegnata in varie attività, partecipe di feste danzanti, coinvolta nelle amicizie. Nel monastero, dove l’8 dicembre 1901 vestì l’abito religioso prendendo il nome di Elisabetta della Trinità, crebbe la sua unione con la Santissima Trinità nelle profondità della sua anima. Guardando a Maria imparò a custodire sempre più la presenza del Dio vivente e a fare ogni giorno con generosità la volontà del Signore, contemplando il “troppo grande amore” manifestato in Gesù Crocifisso. Pochi mesi dopo la professione religiosa, celebrata l’11 gennaio del 1903, si manifestarono i primi sintomi del morbo di Addison, che la condusse alla morte fra atroci dolori. Tutto accettò con sentimenti di pace e abbandono fiducioso alla misericordia di Dio, come occasione propizia per conformarsi allo Sposo crocifisso, nell’attesa ardente di inoltrarsi nella gioia trinitaria della comunione dei santi. Morì a ventisei anni, il 9 novembre 1906.

Queste le parole del Pontefice che hanno contraddistinto l’omelia domenicale: “ All’inizio dell’odierna celebrazione abbiamo rivolto al Signore questa preghiera: «Crea in noi un cuore generoso e fedele, perché possiamo sempre servirti con lealtà e purezza di spirito» (Orazione Colletta). Noi, da soli, non siamo in grado di formarci un cuore così, solo Dio può farlo, e perciò lo chiediamo nella preghiera, lo invochiamo da Lui come dono, come sua “creazione”. In questo modo siamo introdotti nel tema della preghiera, che è al centro delle Letture bibliche di questa domenica e che interpella anche noi, qui radunati per la canonizzazione di alcuni nuovi Santi e Sante. Essi hanno raggiunto la meta, hanno avuto un cuore generoso e fedele, grazie alla preghiera: hanno pregato con tutte le forze, hanno lottato, e hanno vinto.
Pregare, dunque. Come Mosè, il quale è stato soprattutto uomo di Dio, uomo di preghiera. Lo vediamo oggi nell’episodio della battaglia contro Amalek, in piedi sul colle con le braccia alzate; ma ogni tanto, per il peso, le braccia gli cadevano, e in quei momenti il popolo aveva la peggio; allora Aronne e Cur fecero sedere Mosè su una pietra e sostenevano le sue braccia alzate, fino alla vittoria finale.
Questo è lo stile di vita spirituale che ci chiede la Chiesa: non per vincere la guerra, ma per vincere la pace! Nell’episodio di Mosè c’è un messaggio importante: l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro. La stanchezza è inevitabile, a volte non ce la facciamo più, ma con il sostegno dei fratelli la nostra preghiera può andare avanti, finché il Signore porti a termine la sua opera.
San Paolo, scrivendo al suo discepolo e collaboratore Timoteo, gli raccomanda di rimanere saldo in quello che ha imparato e in cui crede fermamente (cfr 2 Tm 3,14). Tuttavia anche Timoteo non poteva farcela da solo: non si vince la “battaglia” della perseveranza senza la preghiera. Ma non una preghiera sporadica, altalenante, bensì fatta come Gesù insegna nel Vangelo di oggi: «pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Questo è il modo di agire cristiano: essere saldi nella preghiera per rimanere saldi nella fede e nella testimonianza. Ed ecco di nuovo una voce dentro di noi: “Ma Signore, com’è possibile non stancarsi? Siamo esseri umani… anche Mosè si è stancato!…”. E’ vero, ognuno di noi si stanca. Ma non siamo soli, facciamo parte di un Corpo! Siamo membra del Corpo di Cristo, la Chiesa, le cui braccia sono alzate giorno e notte al Cielo grazie alla presenza di Cristo Risorto e del suo Santo Spirito. E solo nella Chiesa e grazie alla preghiera della Chiesa noi possiamo rimanere saldi nella fede e nella testimonianza.
Abbiamo ascoltato la promessa di Gesù nel Vangelo: Dio farà giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui (cfr Lc 18,7). Ecco il mistero della preghiera: gridare, non stancarsi, e, se ti stanchi, chiedere aiuto per tenere le mani alzate. Questa è la preghiera che Gesù ci ha rivelato e ci ha donato nello Spirito Santo. Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, non è evadere in una falsa quiete egoistica. Al contrario, pregare è lottare, e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi. E’ lo Spirito Santo che ci insegna a pregare, che ci guida nella preghiera, che ci fa pregare come figli.
I santi sono uomini e donne che entrano fino in fondo nel mistero della preghiera. Uomini e donne che lottano con la preghiera, lasciando pregare e lottare in loro lo Spirito Santo; lottano fino alla fine, con tutte le loro forze, e vincono, ma non da soli: il Signore vince in loro e con loro. Anche questi sette testimoni che oggi sono stati canonizzati, hanno combattuto la buona battaglia della fede e dell’amore con la preghiera. Per questo sono rimasti saldi nella fede, con il cuore generoso e fedele. Per il loro esempio e la loro intercessione, Dio conceda anche a noi di essere uomini e donne di preghiera; di gridare giorno e notte a Dio, senza stancarci; di lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi, e di pregare sostenendoci a vicenda per rimanere con le braccia alzate, finché vinca la Divina Misericordia”.

Una giornata all’insegna di uomini di Fede, di personaggi che con coraggio hanno combattuto la buona battaglia, persone che hanno saputo dare il giusto senso alla loro vita ed in grado di offrire spunti interessanti a chi nel 2016 si ritrova un ‘mondo stanco’ con un gregge spesso alla deriva bisognoso di esempi da seguire, di gesti da emulare, di rappresentanti di quella FEDE che troppo spesso viene accantonata e messa in secondo piano per dare supremazia alle cose ed all’ego umano.

Raffaele Dicembrino




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