Sono state giornate piene per Papa Francesco quelle che si sono susseguite al termine della visita pastorale in Armenia. Dapprima le celebrazioni in onore dei 65 anni di sacerdozio del Papa Emerito, quindi i patroni di Roma, Pietro e Paolo ed infine l’udienza generale del mercoledì (l’ultima prima della sosta estiva).
Dapprima in Vaticano si è festeggiato il 65.mo anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Papa emerito Benedetto XVI. Nel suo discorso, Papa Francesco ha ricordato che il Pontefice emerito “ha sempre testimoniato e testimonia ancora oggi” l’amore per il Signore. Questo amare – ha detto il Santo Padre – “ci riempie veramente il cuore”, ci fa camminare sicuri anche in mezzo alla tempesta. Poi Benedetto XVI ha ringraziato Francesco. La sua bontà – ha affermato – è il luogo dove abito.
Era il 29 giugno del 1951, solennità dei Santi Pietro e Paolo. Il Papa emerito riceveva l’ordinazione presbiteriale insieme con suo fratello Georg a con altri 42 confratelli. Quella grande festa si è rinnovata oggi in Vaticano, nella Sala Clementina, con l’abbraccio tra i due Pontefici. Papa Francesco ha ricordato, citando le parole di Benedetto XVI, che la teologia è “la ricerca dell’amato”: la cosa decisiva nelle nostre giornate – ha spiegato – “è che il Signore sia veramente presente”: “…Che lo desideriamo, che interiormente siamo vicini a Lui, che Lo amiamo, che davvero crediamo profondamente in Lui e credendo Lo amiamo veramente”.
L’unica cosa veramente decisiva è “avere lo sguardo e il cuore rivolto a Dio”. Lo sguardo amorevole di Benedetto XVI – ha detto Francesco – è anche rivolto verso la Chiesa: “Lei, Santità, continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita; e lo fa da quel piccolo Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano che si rivela in tal modo essere tutt’altro che uno di quegli angolini dimenticati nei quali la cultura dello scarto di oggi tende a relegare le persone quando, con l’età, le loro forze vengono meno”. “È tutto il contrario”, ha affermato il Santo Padre: “E questo permetta che lo dica con forza il Suo Successore che ha scelto di chiamarsi Francesco! Perché il cammino spirituale di San Francesco iniziò a San Damiano, ma il vero luogo amato, il cuore pulsante dell’Ordine, lì dove lo fondò e dove infine rese la sua vita a Dio fu la Porziuncola, la ‘piccola porzione’, l’angolino presso la Madre della Chiesa”.
Papa Francesco si è poi rivolto così al “caro confratello”: “La Provvidenza ha voluto che Lei, caro Confratello, giungesse in un luogo per così dire propriamente ‘francescano’ dal quale promana una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una maturità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me ed a tutta la Chiesa. E anche mi permetto: anche da Lei viene un sano e gioioso senso dell’umorismo. L’augurio con il quale desidero concludere è perciò un augurio che rivolgo a Lei e insieme a tutti noi e alla Chiesa intera: che Lei, Santità, possa continuare a sentire la mano del Dio misericordioso che La sorregge, che possa sperimentare e testimoniarci l’amore di Dio; che, con Pietro e Paolo, possa continuare a esultare di grande gioia mentre cammina verso la meta della fede”.
Benedetto XVI a risposto e ringraziato Papa Francesco con queste parole: “Con questa parola, nelle sue tante dimensioni, è già detto tutto quanto si possa dire in questo momento. ‘Ευχαριστούμεν’ dice un grazie umano, grazie a tutti. Grazie soprattutto a Lei, Santo Padre. La Sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente; più che i Giardini Vaticani, con la bellezza, la Sua bontà è il luogo dove abito e mi sento protetto.c“Che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte”.
E’ intervenuto anche il cardinale Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il quale ha voluto sottolineare che la vera gioia – come ha più volte affermato il Papa emerito – “proviene anzitutto dal fiducioso abbandonarsi” al disegno di Dio. La gioia del Vangelo – ha aggiunto – è “dono del Signore, proviene dal Suo Cuore”:
“Caro Papa Emerito, siamo grati di aver potuto seguire per lunghi anni, insieme a Lei, ciò che il Signore andava realizzando attraverso la Sua azione sacerdotale. Ora chiediamo, con tutto il cuore, che Lui possa portare a compimento ciò che ha operato in Lei e che, fra noi, ha già portato così abbondante frutto. Grazie ancora, di tutto, Santità, e grazie di cuore”.
Il card. Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, ha ricordato che il lungo ministero del Papa emerito prosegue, anche se in un’altra forma, così come Benedetto XVI aveva promesso il 24 febbraio del 2013, dopo aver annunciato la sua decisione “di lasciare in nuove mani la guida della barca di Pietro”: ”Ella allora ci aveva appunto detto: Il Signore mi chiama a salire sul monte, a dedicarmi ancor più alla preghiera ed alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo, è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo finora, ma in modo più adatto alla mia età ed alle mie forze”.
Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della città di Roma, Papa Francesco ha presieduto nella Basilica Vaticana, la Celebrazione Eucaristica e benedetto i sacri palli che ha consegnato ai nuovi arcivescovi metropoliti. Si tratta di 25 presuli dei 5 continenti, 6 sono italiani (mons. Zuppi arcivescovo di Bologna, mons. Lorefice arecivescovo di Palermo, mons. Tisi arcivescovo di Trento, mons. Accrocca arcivescovo di Benevento, mons. Ligorio arcivescovo di Potenza e mons. Piretto arcivescovo di Smirne). Il pallio è simbolo di comunione con il successore di Pietro e della sollecitudine che gli arcivescovi devono avere come pastori che si caricano la pecora sulle spalle.
Nell’omelia il Vescovo di Roma ha osservato: “La Parola di Dio di questa liturgia contiene un binomio centrale: chiusura / apertura. A questa immagine possiamo accostare anche il simbolo delle chiavi, che Gesù promette a Simone Pietro perché possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti che Gesù rimprovera (cfr Mt 23,13). La lettura degli Atti degli Apostoli (12,1-11) ci presenta tre chiusure: quella di Pietro in carcere; quella della comunità raccolta in preghiera; e – nel contesto prossimo del nostro brano – quella della casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro va a bussare dopo essere stato liberato. Rispetto alle chiusure, la preghiera appare come la via di uscita principale: via di uscita per la comunità, che rischia di chiudersi in sé stessa a causa della persecuzione e della paura; via di uscita per Pietro, che ancora all’inizio della sua missione affidatagli dal Signore viene gettato in carcere da Erode e rischia la condanna a morte. E mentre Pietro era in prigione, «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, “strappandolo dalla mano di Erode” (cfr v. 11). La preghiera, come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. E’ la grande via di uscita dalle chiusure.
Anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla della sua esperienza di liberazione, di uscita dal pericolo di essere lui pure condannato a morte; invece il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza perché lui potesse portare a compimento la sua opera di evangelizzazione alle genti (cfr 2 Tm 4,17). Ma Paolo parla di una “apertura” ben più grande, verso un orizzonte infinitamente più vasto: quello della vita eterna, che lo attende dopo aver terminato la “corsa” terrena. E’ bello allora vedere la vita dell’Apostolo tutta “in uscita” grazie al Vangelo: tutta proiettata in avanti, prima per portare Cristo a quanti non lo conoscono, e poi per buttarsi, per così dire, nelle sue braccia, ed essere portato da Lui «in salvo nei cieli, nel suo regno» (v. 18).
Ritorniamo a Pietro. Il racconto evangelico (Mt 16,13-19) della sua confessione di fede e della conseguente missione affidatagli da Gesù ci mostra che la vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi –, si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da sé stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è la preghiera di Gesù: «Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). E altrettanto decisivo è lo sguardo pieno di compassione del Signore dopo che Pietro lo aveva rinnegato tre volte: uno sguardo che tocca il cuore e scioglie le lacrime del pentimento (cfr Lc 22,61-62). Allora Simone Pietro fu liberato dal carcere del suo io orgoglioso, del suo io pauroso, e superò la tentazione di chiudersi alla chiamata di Gesù a seguirlo sulla via della croce.
Come accennavo, nel contesto prossimo del brano degli Atti degli Apostoli c’è un particolare che può farci bene notare (cfr 12,12-17). Quando Pietro si trova miracolosamente libero fuori dal carcere di Erode, si reca alla casa della madre di Giovanni detto Marco. Bussa alla porta, e dall’interno risponde una domestica di nome Rode, la quale, riconosciuta la voce di Pietro, invece di aprire la porta, incredula e piena di gioia insieme corre a riferire la cosa alla padrona. Il racconto, che può sembrare comico – e che può dare inizio al cosiddetto “complesso di Rode” –, ci fa percepire il clima di paura in cui si trovava la comunità cristiana, che rimaneva chiusa in casa, e chiusa anche alle sorprese di Dio. Pietro bussa alla porta. “Guarda!”. C’è gioia, c’è paura… “Apriamo, non apriamo?…”. E lui è in pericolo, perché la polizia può prenderlo. Ma la paura ci ferma, ci ferma sempre; ci chiude, ci chiude alle sorprese di Dio. Questo particolare ci parla della tentazione che sempre esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in sé stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui c’è lo spiraglio attraverso cui può passare l’azione di Dio: dice Luca che in quella casa «molti erano riuniti e pregavano» (v. 12). La preghiera permette alla grazia di aprire una via di uscita: dalla chiusura all’apertura, dalla paura al coraggio, dalla tristezza alla gioia. E possiamo aggiungere: dalla divisione all’unità. Sì, lo diciamo oggi con fiducia insieme ai nostri fratelli della Delegazione inviata dal caro Patriarca Ecumenico Bartolomeo, per partecipare alla festa dei Santi Patroni di Roma. Una festa di comunione per tutta la Chiesa, come evidenzia anche la presenza degli Arcivescovi Metropoliti venuti per la benedizione dei Palli, che saranno loro imposti dai miei Rappresentanti nelle rispettive Sedi.
I santi Pietro e Paolo intercedano per noi, perché possiamo compiere con gioia questo cammino, sperimentare l’azione liberatrice di Dio e testimoniarla a tutti”.
Quindi nell’udienza del mercoledì il Santo Padre ha evidenziato come la misericordia non sia una parola astratta, ma uno stile di vita. Il Papa ha lanciato un forte monito: “Una persona può essere misericordiosa o può essere non misericordiosa; è uno stile di vita. Io scelgo di vivere come misericordioso o scelgo di vivere come non misericordioso”. Poi hq aggiunto: “A volte passiamo davanti a situazioni di drammatica povertà e sembra che non ci tocchino; tutto continua come se nulla fosse, in una indifferenza che alla fine rende ipocriti e, senza che ce ne rendiamo conto, sfocia in una forma di letargo spirituale che rende insensibile l’animo e sterile la vita. La gente che passa, che va nella vita senza accorgersi delle necessità degli altri, senza vedere tanti bisogni spirituali e materiali, è gente che passa senza vivere, è gente che non serve agli altri. Ricordatevi bene, eh? Chi non vive per servire, non serve per vivere”.
Chi nella propria vita ha sperimentato la misericordia del Padre, non può rimanere insensibile di fronte alle necessità dei fratelli. Non ci sono vie di fuga, non si può tergiversare: di fronte a chi ha fame occorre rimboccarsi le maniche. Davanti alle povertà prodotte dalla cultura del benessere del nostro mondo globalizzato – è stato l’auspicio del Papa – non accada che lo sguardo cristiano diventi incapace di mirare all’essenziale.
Ma ecco nel dettaglio le sue parole: “Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Quante volte, durante questi primi mesi del Giubileo, abbiamo sentito parlare delle opere di misericordia! Oggi il Signore ci invita a fare un serio esame di coscienza. E’ bene, infatti, non dimenticare mai che la misericordia non è una parola astratta, ma è uno stile di vita: una persona può essere misericordiosa o può essere non misericordiosa; è uno stile di vita. Io scelgo di vivere come misericordioso o scelgo di vivere come non misericordioso. Una cosa è parlare di misericordia, un’altra è vivere la misericordia. Parafrasando le parole di san Giacomo apostolo (cfr 2,14-17) potremmo dire: la misericordia senza le opere è morta in sé stessa. E’ proprio così! Ciò che rende viva la misericordia è il suo costante dinamismo per andare incontro ai bisogni e alle necessità di quanti sono nel disagio spirituale e materiale. La misericordia ha occhi per vedere, orecchi per ascoltare, mani per risollevare.
La vita quotidiana ci permette di toccare con mano tante esigenze che riguardano le persone più povere e più provate. A noi viene richiesta quell’attenzione particolare che ci porta ad accorgerci dello stato di sofferenza e bisogno in cui versano tanti fratelli e sorelle. A volte passiamo davanti a situazioni di drammatica povertà e sembra che non ci tocchino; tutto continua come se nulla fosse, in una indifferenza che alla fine rende ipocriti e, senza che ce ne rendiamo conto, sfocia in una forma di letargo spirituale che rende insensibile l’animo e sterile la vita. La gente che passa, che va avanti nella vita senza accorgersi delle necessità degli altri, senza vedere tanti bisogni spirituali e materiali, è gente che passa senza vivere, è gente che non serve agli altri. Ricordatevi bene: chi non vive per servire, non serve per vivere.
Quanti sono gli aspetti della misericordia di Dio verso di noi! Alla stessa maniera, quanti volti si rivolgono a noi per ottenere misericordia. Chi ha sperimentato nella propria vita la misericordia del Padre non può rimanere insensibile dinanzi alle necessità dei fratelli. L’insegnamento di Gesù che abbiamo ascoltato non consente vie di fuga: Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo, profugo, malato, in carcere e mi avete assistito (cfr Mt 25,35-36). Non si può tergiversare davanti a una persona che ha fame: occorre darle da mangiare. Gesù ci dice questo! Le opere di misericordia non sono temi teorici, ma sono testimonianze concrete. Obbligano a rimboccarsi le maniche per alleviare la sofferenza.
A causa dei mutamenti del nostro mondo globalizzato, alcune povertà materiali e spirituali si sono moltiplicate: diamo quindi spazio alla fantasia della carità per individuare nuove modalità operative. In questo modo la via della misericordia diventerà sempre più concreta. A noi, dunque, è richiesto di rimanere vigili come sentinelle, perché non accada che, davanti alle povertà prodotte dalla cultura del benessere, lo sguardo dei cristiani si indebolisca e diventi incapace di mirare all’essenziale. Mirare all’essenziale. Cosa significa? Mirare Gesù, guardare Gesù nell’affamato, nel carcerato, nel malato, nel nudo, in quello che non ha lavoro e deve portare avanti una famiglia. Guardare Gesù in questi fratelli e sorelle nostri; guardare Gesù in quello che è solo, triste, in quello che sbaglia e ha bisogno di consiglio, in quello che ha bisogno di fare strada con Lui in silenzio perché si senta in compagnia. Queste sono le opere che Gesù chiede a noi! Guardare Gesù in loro, in questa gente. Perché? Perché così Gesù guarda me, guarda tutti noi”.
Per concludere ha voluto parlare della sua visita pastorale in Armenia: “Nei giorni scorsi il Signore mi ha concesso di visitare l’Armenia, la prima nazione ad avere abbracciato il cristianesimo, all’inizio del quarto secolo. Un popolo che, nel corso della sua lunga storia, ha testimoniato la fede cristiana col martirio. Rendo grazie a Dio per questo viaggio, e sono vivamente grato al Presidente della Repubblica Armena, al Catholicos Karekin II, al Patriarca e ai Vescovi cattolici, e all’intero popolo armeno per avermi accolto come pellegrino di fraternità e di pace.
Fra tre mesi compirò, a Dio piacendo, un altro viaggio in Georgia e Azerbaigian, altri due Paesi della regione caucasica. Ho accolto l’invito a visitare questi Paesi per un duplice motivo: da una parte valorizzare le antiche radici cristiane presenti in quelle terre – sempre in spirito di dialogo con le altre religioni e culture – e dall’altra incoraggiare speranze e sentieri di pace. La storia ci insegna che il cammino della pace richiede una grande tenacia e dei continui passi, cominciando da quelli piccoli e man mano facendoli crescere, andando l’uno incontro all’altro. Proprio per questo il mio auspicio è che tutti e ciascuno diano il proprio contributo per la pace e la riconciliazione.
Come cristiani siamo chiamati a rafforzare tra noi la comunione fraterna, per rendere testimonianza al Vangelo di Cristo e per essere lievito di una società più giusta e solidale. Per questo tutta la visita è stata condivisa con il Supremo Patriarca della Chiesa Apostolica Armena, il quale mi ha fraternamente ospitato per tre giorni nella sua casa.
Rinnovo il mio abbraccio ai Vescovi, ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi e a tutti i fedeli in Armenia. La Vergine Maria, nostra Madre, li aiuti a rimanere saldi nella fede, aperti all’incontro e generosi nelle opere di misericordia. Grazie”.
Raffaele Dicembrino