Papa Francesco da Santa Marta: “Vicino alle vittime del Coronavirus

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Nella Messa a Santa Marta,  Papa Francesco ritorna a pregare per i malati e rivolge un nuovo pensiero alle famiglie in questa situazione caratterizzata dalla malattia del coronavirus.

Nell’omelia sottolinea la necessità di accogliere la semplicità di Dio per non cadere nella superbia

 

Papa Francesco celebra la Messa in diretta streaming da Casa Santa Marta anche questa settimana per manifestare la sua vicinanza ai fedeli che non possono partecipare all’Eucaristia a causa dell’emergenza coronavirus. Stamattina, introducendo la celebrazione ha continuato a pregare per i malati e le famiglie.

 

“Continuiamo a pregare per gli ammalati. Penso alle famiglie, chiuse, i bambini non vanno a scuola, forse i genitori non possono uscire; alcuni saranno in quarantena. Che il Signore li aiuti a scoprire nuovi modi, nuove espressioni di amore, di convivenza in questa situazione nuova. È un’occasione bella per ritrovare i veri affetti con una creatività nella famiglia. Preghiamo per la famiglia, perché i rapporti nella famiglia in questo momento fioriscano sempre per il bene”.

 

Nell’omelia, Francesco ha commentato le letture del giorno tratte dal secondo Libro dei Re (2 Re 5, 1-15) e dal Vangelo di Luca (Lc 4, 24-30). Di seguito il testo dell’omelia secondo una nostra trascrizione:

 

In ambedue i testi che oggi la Liturgia ci fa meditare c’è un atteggiamento che attira l’attenzione, un atteggiamento umano, ma non di buono spirito: lo sdegno. La gente di Nazareth cominciò ad ascoltare Gesù, le piaceva come parlava, ma poi qualcuno ha detto: “Ma questo in quale università ha studiato? Questo è figlio di Maria e Giuseppe, questo ha fatto il falegname! Cosa viene a dirci?”. E il popolo si sdegnò. Entrano in questa indignazione (cfr Lc 4,28). E questo sdegno li porta alla violenza. E quel Gesù che ammiravano all’inizio della predica è cacciato fuori, per buttarlo giù dal monte (cfr v. 29).

 

Anche Naamàn – uomo buono era questo Naamàn, aperto alla fede –, ma quando il profeta gli manda a dire di bagnarsi sette volte nel Giordano si sdegna. Ma come mai? «Ecco, io pensavo, certo verrà fuori stando in piedi, invocherà il nome del Signore suo Dio, agiterà la sua man verso la parte malata e mi toglierà la lebbra. Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi là e purificarmi? Si voltò e se ne partì adirato» (II Re 5,11-12). Con sdegno.

 

Anche a Nazareth c’era gente buona; ma cosa c’è dietro questa gente buona che li porta a questo atteggiamento di sdegno? E a Nazareth peggio: la violenza. Sia la gente della sinagoga di Nazareth che Naamàn pensavano che Dio si manifestasse soltanto nello straordinario, nelle cose fuori dal comune; che Dio non poteva agire nelle cose comuni della vita, nella semplicità. Sdegnavano il semplice. Loro si sdegnavano, disprezzavano le cose semplici. E il nostro Dio ci fa capire che Lui agisce sempre nella semplicità: nella semplicità, nella casa di Nazareth, nella semplicità del lavoro di tutti i giorni, nella semplicità della preghiera… Le cose semplici. Invece, lo spirito mondano ci porta verso la vanità, verso le apparenze…

 

E ambedue finiscono nella violenza: Naamàn era molto educato, ma sbatte la porta in faccia al profeta e se ne va. La violenza, un gesto di violenza. La gente della sinagoga incomincia a riscaldarsi, a riscaldarsi, e prende la decisione di uccidere Gesù, ma incoscientemente, e lo cacciano via per buttarlo giù. Lo sdegno è una tentazione brutta che porta alla violenza.

 

Mi hanno fatto vedere, alcuni giorni fa, su un telefonino, un filmato della porta di un palazzo che era in quarantena. C’era una persona, un signore giovane, che voleva uscire. E la guardia gli ha detto che non poteva. E lui lo ha preso a pugni, con uno sdegno, con un disprezzo. “Ma chi sei tu, ‘negro’, per impedire che io me ne vada?”. Lo sdegno è l’atteggiamento dei superbi, ma dei superbi …  con una povertà di spirito brutta, dei superbi che vivono soltanto con l’illusione di essere più di quello che sono. È un “ceto” spirituale, la gente che si sdegna: anzi, tante volte questa gente ha bisogno di sdegnarsi, di indignarsi per sentirsi persona.

 

Anche a noi può succedere questo: “lo scandalo farisaico”, lo chiamano i teologi, cioè  scandalizzarmi di cose che sono la semplicità di Dio, la semplicità dei poveri, la semplicità dei cristiani, come per dire: “Ma questo non è Dio. No, no. Il nostro Dio è più colto, è più saggio, è più importante. Dio non può agire in questa semplicità”. E sempre lo sdegno ti porta alla violenza; sia alla violenza fisica sia alla violenza delle chiacchiere, che uccide come quella fisica.

 

Pensiamo a questi due passi: lo sdegno della gente nella sinagoga di Nazareth e lo sdegno di Naamàn, perché non capivano la semplicità del nostro Dio.

 

Sulla semplicità e Dio è interessante questo scritto di frate Alessandro.

“Il beato padre Francesco, ricolmo ogni giorno più della grazia dello Spirito Santo, si adoperava a formare con grande diligenza e amore i suoi nuovi figli, insegnando loro con principi nuovi, a camminare rettamente e con passo fermo sulla via della santa povertà e della beata semplicità”. (Tommaso da Celano, Vita prima di san Francecso, XI 26). Così Tommaso da Celano, nel suo ritrarre Francesco d’Assisi, parla di lui sottolineando la capacità di essere educatore di altri con uno stile di semplicità. Semplicità del cuore indica una attitudine che non ha nulla a che fare con l’impreparazione, la superficialità o la spontaneità senza riflessione.

 

Per Francesco semplicità è impegnativo cammino di ricerca di ciò che è essenziale nell’esistenza. E’ tensione a non farsi distrarre nell’ascolto di una presenza di Dio che si fa vicina nella natura e nelle persone. Com’è racchiuso nella sua etimologia  – ‘sine plica’ – semplicità è essere senza pieghe, liberati da quegli ostacoli che impediscono di custodire e ricercare ciò che è realmente più importante e rischia di essere perso di vista o soffocato.

 

La via della semplicità è quella dei poeti che non si lasciano sommergere dalle troppe parole, ma cercano di liberarsi dall’appesantimento di parole inutili,  e da quelle superflua per cercare parole vere. Il loro lavoro consiste nella faticosa concentrazione sull’essenziale, nel liberarsi da pesi inutili e dalla complicazione che impedisce di orientarsi. “Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne, ma piuttosto dobbiamo essere semplici, umili e puri” (Epistola ad Fideles II, 45)

 

Il modo di pregare e di contemplare di Francesco, e il suo modo di agire possono essere riassunti nell’attitudine di semplicità. Essa comporta un decentramento, la disponibilità ad uno sguardo non centrato su di sé, ma aperto all’altro. Semplicità si incontra con umiltà, con la scelta di stare legati alla terra della propria vita. Partecipi di una vita più grande di cui respirare l’ampiezza, e sensibili ad accontentarsi di poco. La semplicità è attitudine di chi non ha bisogno di troppe cose, e non ne diventa schiavo, ma di chi sa godere di tutte le cose belle e utili vivendo la leggerezza di liberarsi dal superfluo, di ciò che appesantisce e impedisce di muoversi.

 

E’ la semplicità scoperta con gioia da Francesco. Un brano della ‘Leggenda dei tre compagni’ ne è testimonianza: “Ma un giorno, mentre ascoltava la Messa, udì le istruzioni date da Cristo quando inviò i suoi discepoli a predicare: che cioè per strada non dovevano portare né oro, né argento, né pane, né bastone, né calzature, né veste di ricambio. alessandro cortesi

  1. Alessandro Cortesi, O.P.

Comprese meglio queste consegne dopo, facendosi spiegare il brano dal sacerdote. Allora, raggiante di gioia esclamò: E’ proprio quello che bramo realizzare con tutte le mie forze! E fissando nella memoria quelle direttive, s’impegnò ad eseguirle lietamente … Mise tutto il suo entusiasmo a bene intendere e realizzare i suggerimenti della nuova grazia. Ispirato da Dio, cominciò ad annunziare la perfezione del Vangelo, predicando a tutti la penitenza, con semplicità”. (Leggenda dei tre Compagni, 25)

 

Si può trovare traccia nelle parole della regola non bollata sul modo concreto in cui Francesco intendeva la semplicità. Si delinea lo stile chiesto ai suoi frati, ma che può essere stile di ognuno che si scopre nella vita servo semplice (e non inutile) in relazione con altri: “Tutti i frati cerchino di seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che nient’altro ci è consentito di avere, di tutto il mondo, come dice l’apostolo, se non il cibo e le vesti e di questi ci dobbiamo accontentare. E devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada”. (Regola non bollata,  IX, 1-3)

 

C’è una semplicità da coltivare e riscoprire in un contesto culturale in cui prevalgono attitudini di conquista e di dominio, in cui la vita si trova appesantita di tante cose superflue che separano e conducono ad escludere. Semplicità è orizzonte per non  perdere di vista la dimensione dell’agire umano come servizio e aperto alla relazione.

 




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