Papa Francesco e la visita pastorale bolognese

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E’ stata una visita pastorale densa d’incontri quella di Papa Francesco a Bologna. Neppure il maltempo ha fermato una folla festante che lo ha voluto accompagnare dal primo all’ultimo minuto del suo soggiorno bolognese.
In Piazza Maggiore si è svolto l’incontro del Pontefice con il mondo del lavoro e i disoccupati.
“Voi rappresentate parti sociali diverse, spesso in discussione anche aspra tra loro, ma avete imparato che solo insieme si può uscire dalla crisi e costruire il futuro. Solo il dialogo, nelle reciproche competenze, può permettere di trovare risposte efficaci e innovative per tutti, anche sulla qualità del lavoro, in particolare l’indispensabile welfare. È quello che alcuni chiamano il ‘sistema Emilia’. Cercate di portarlo avanti. C’è bisogno di soluzioni stabili e capaci di aiutare a guardare al futuro per rispondere alle necessità delle persone e delle famiglie”.
“Non pieghiamo mai la solidarietà alla logica del profitto finanziario, anche perché così la togliamo – potrei dire la rubiamo – ai più deboli che ne hanno tanto bisogno. Cercare una società più giusta non è un sogno del passato ma un impegno, un lavoro, che ha bisogno oggi di tutti”.
Parla con dolore della disoccupazione giovanile e di “tanti che hanno perduto il lavoro e non riescono a reinserirsi sono realtà alle quali non possiamo abituarci, trattandole come se fossero solamente delle statistiche. E questa è la tentazione”:
“L’accoglienza e la lotta alla povertà passano in gran parte attraverso il lavoro. Non si offre vero aiuto ai poveri senza che possano trovare lavoro e dignità. Questa è la sfida appassionante, come negli anni della ricostruzione dopo la guerra, che tanta povertà aveva lasciato. Il recente ‘Patto per il lavoro’, che ha visto tutte le parti sociali, e anche la Chiesa, firmare un comune impegno per aiutarsi nella ricerca di risposte stabili, non di elemosine, è un metodo importante che auspico possa dare i frutti sperati”.
Per il Vescovo di Roma la crisi economica “ha una dimensione europea e globale” ed “è anche crisi etica, spirituale e umana”: “Alla radice c’è un tradimento del bene comune, da parte sia di singoli sia di gruppi di potere. È necessario quindi togliere centralità alla legge del profitto e assegnarla alla persona e al bene comune. Ma perché tale centralità sia reale, effettiva e non solo proclamata a parole, bisogna aumentare le opportunità di lavoro dignitoso”.

Dopo la recita dell’Angelus il Papa ha reso omaggio al sacerdote salesiano Titus Zeman, beatificato ieri a Bratislava in Slovacchia, che “si unisce alla lunga schiera dei martiri del XX secolo”. Morì infatti nel 1969 “dopo essere stato per lungo tempo in carcere a causa della sua fede e del suo servizio pastorale”. “La sua testimonianza ci sostenga nei momenti più difficili della vita e ci aiuti a riconoscere, anche nella prova, la presenza del Signore”.

Il Papa ha quindi ricordato che “in questa domenica culmina la settimana dedicata in modo particolare alla Parola di Dio, in occasione della ricorrenza, ieri, della memoria di San Girolamo, grande maestro della Sacra Scrittura”. “Impegniamoci – ha sollecitato Francesco – a leggere e meditare la Bibbia, specialmente il Vangelo”.
Un saluto è andato poi ai fedeli convenuti nel Santuario di Pompei per la tradizionale Supplica alla Madonna del Rosario, presieduta oggi dal presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Bassetti. Infine un augurio domenicale a tutti i “bolognesi nativi e ‘adottivi”.

Al momento del pranzo l’incontro con i poveri, i rifugiati ed i detenuti: “Cari fratelli e sorelle,
che gioia vederci in tanti in questa casa! È proprio come la casa di nostra Madre, la casa della misericordia, la Chiesa che tutti accoglie, specialmente quanti hanno bisogno di un posto.
Siete al centro di questa casa. La Chiesa vi vuole al centro. Non prepara un posto qualsiasi o diverso: al centro e assieme. La Chiesa è di tutti, particolarmente dei poveri. Siamo tutti degli invitati, solo per grazia. È un mistero di amore gratuito di Dio che ci vuole suoi, qui, non per merito, ma per suo amore.

In questa casa normalmente si celebra il mistero dell’Eucaristia, la mensa sulla quale è deposto il pane e il vino che diventano il Corpo e il Sangue di Gesù, spezzato e versato per la moltitudine di uomini che Egli ama. Che strana la matematica di Dio: si moltiplica solo se si divide! Apparecchiamo sempre una mensa di amore per chi ne ha bisogno. La carità non è mai a senso unico, è sempre circolare e tutti donano e ricevono qualcosa. Tutti riceviamo e tutti sappiamo e possiamo donare tanto. Gesù non scarta nessuno, non disprezza. Lui ha sete e ci chiede di dargli da bere perché cammina con noi e soffre con noi. E proprio noi abbiamo quella brocca, magari un po’ usata, che può dargli acqua, che è il nostro cuore! La nostra vita è sempre preziosa e tutti abbiamo qualcosa da dare agli altri.
Al termine vi verrà consegnato il cibo più prezioso, il Vangelo, la Parola di quel Dio che tutti portiamo nel cuore, che per noi cristiani ha il volto buono di Gesù. È per voi! È rivolto proprio a chi ha bisogno! Prendetelo tutti e portatelo come segno, sigillo personale di amicizia di Dio che si fa pellegrino e senza posto per prepararlo a tutti.

Siamo tutti dei viandanti, dei mendicanti di amore e di speranza, e abbiamo bisogno di questo Dio che si fa vicino e si rivela nello spezzare del pane.
Questo pane di amore che oggi condividiamo portatelo anche voi ad altri. Regalate a tutti simpatia e amicizia. È l’impegno che possiamo avere tutti. Ce n’è un grande bisogno. Voi avete una sensibilità particolare nel cogliere la dimensione umana perché sapete che cosa è la fragilità, il bisogno di tendere le mani, di farsi aiutare mettendo da parte l’orgoglio.

Il “Padre nostro” che reciteremo alla fine è davvero la preghiera dei poveri. La richiesta del pane, infatti, esprime l’affidamento a Dio per i bisogni primari della nostra vita. Quanto Gesù ci ha insegnato con questa preghiera esprime e raccoglie la voce di chi soffre per la precarietà dell’esistenza e per la mancanza del necessario. Ai discepoli che chiedevano a Gesù di insegnare loro a pregare, Egli ha risposto con le parole dei poveri che si rivolgono all’unico Padre in cui tutti si riconoscono come fratelli. Il “Padre nostro” è una preghiera che si esprime al plurale: il pane che si chiede è “nostro”, e ciò comporta condivisione, partecipazione e responsabilità comune. In questa preghiera tutti riconosciamo l’esigenza di superare ogni forma di egoismo per accedere alla gioia dell’accoglienza reciproca.
Oggi possiamo condividere il nostro pane quotidiano. E tutti ne vogliamo ringraziare Dio”.
A seguire l’incontro con i Sacerdoti, i Religiosi, i Seminaristi del Seminario Regionale e i Diaconi Permanenti: “Ringrazio per la vostra presenza: per me è una consolazione stare con i consacrati, con i sacerdoti, con i diaconi, con quelli che portano avanti – in parte, ci sono anche i laici, ma in gran parte – l’apostolato della Chiesa, e con i religiosi perché sono quelli che cercano di darci la testimonianza dell’anti-mondanità. Grazie tante”.
Quindi ha risposto ad alcune domande: “Il centro della domanda è la fraternità nella vita dei presbiteri. Questa fraternità si esprime nel presbiterio. Andiamo anche oltre. A volte, scherzando tra i religiosi e i sacerdoti diocesani, i diocesani dicono: “Io sono dell’ordine che ha fondato San Pietro” – cioè dell’ordine vero -, “voi, vi ha fondato il santo tale, il beato tale…”. E’ così, no? Ma qual è il centro, qual è proprio il nocciolo della spiritualità della vita del presbitero diocesano? La diocesanità. Noi non possiamo giudicare la vita di un presbitero diocesano senza domandarci come vive la diocesanità. E la diocesanità è una esperienza di appartenenza: tu appartieni a un corpo che è la diocesi. Questo significa che tu non sei un “libero”, come nel calcio, non sei un libero – nel calcio amatoriale c’è il libero –. No, non sei un “libero”. Sei un uomo che appartiene a un corpo, che è la diocesi, alla spiritualità e alla diocesanità di quel corpo; e così è anche il consiglio presbiterale, il corpo presbiterale. Credo che questo lo dimentichiamo tante volte, perché senza coltivare questo spirito di diocesanità diventiamo troppo “singoli”, troppo soli con il pericolo di diventare anche infecondi o con qualche… – diciamolo delicatamente – nervosismo, un po’ innervositi per non dire nevrotici, e così un po’ “zitelloni”. E’ il prete solo, che non ha quel rapporto con il corpo presbiterale. “Vae soli!”, dicevano i Padri del deserto (cfr Ecclesiaste 4,10 Vulg.), “guai a chi è solo”, perché finirà male. E per questo è importante coltivare, far crescere il senso della diocesanità, che ha anche una dimensione di sinodalità con il vescovo. Quel corpo ha una forza speciale e quel corpo deve andare avanti sempre con la trasparenza. L’impegno della trasparenza, ma anche la virtù della trasparenza. La trasparenza cristiana come la vive Paolo, cioè il coraggio di parlare, di dire tutto. Paolo sempre andava avanti con questo coraggio, usava la parola “parresia”, andare avanti… Il coraggio di parlare; e anche il coraggio della pazienza, di sopportare, di portare-su, sulle spalle: la hypomenein, la hypomoné. Le due virtù che Paolo usava per fare la descrizione dell’uomo di Chiesa. E questo coraggio di parlare e coraggio di pazienza ci vuole, è necessario per vivere la diocesanità. Il coraggio di parlare. “Ma no, è meglio non parlare…”. Io ricordo, quando ero studente di filosofia, un vecchio gesuita, furbacchione, buono ma un po’ furbacchione, mi consigliò: “Se tu vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, sempre; ma parla sempre oscuro”. E’ un modo di ipocrisia clericale, diciamo così. “No, la penso così, ma c’è il vescovo, o c’è quel vicario, c’è quell’altro… meglio stare zitti… e poi la “cucino” con i miei amici”. Questo è mancanza di libertà. Se un sacerdote non ha libertà di pan-rein, di parresia, non vive bene la diocesanità; non è libero, e per vivere la diocesanità ci vuole libertà. E poi l’altra virtù è sopportare. Sopportare il vescovo, sempre. Tutti i vescovi abbiamo le nostre [mancanze], tutti; ognuno di noi ha i suoi difetti… Sopportare il vescovo. Sopportare i fratelli: quello non mi piace quello che dice… guarda questo, guarda quello… E’ interessante, quello che non ha la libertà di parlare, il coraggio di parlare davanti a tutti, ha l’atteggiamento “basso” di sparlare di nascosto. Non ha la pazienza di sopportare in silenzio, non ha la pazienza di “portare-su” in silenzio. E noi dobbiamo fare del tutto per avere la virtù di dire le cose in faccia, con prudenza, ma dirle. E’ vero, se io non sono d’accordo col fratello in una riunione, non devo dire “tu sei un disgraziato”, no, ma “io non sono d’accordo perché penso così e così”, senza insultare. Ma dire quello che penso, liberamente. E poi, se c’è qualcuno che mi annoia e viene sempre con le solite storie e rovina forse una riunione… la pazienza, la pazienza di sopportare. In questo ci aiuta tanto pensare a Dio che in Gesù Cristo è entrato in pazienza, cioè ha sopportato tutti noi”………………. Poi, io vorrei parlare di due vizi, vizi che ci sono dappertutto – non so, forse a Bologna non ci sono, grazie a Dio, ma dappertutto si vedono, non tutti, alcuni.

Uno è pensare il servizio presbiterale come carriera ecclesiastica. Nella vita dei santi – quelle antiche – si diceva: “E a quell’età sentì la chiamata alla carriera ecclesiastica”. E’ un modo di dire di altri tempi. Ma io non mi riferisco a questo, mi riferisco a un vero atteggiamento “arrampicatore”. Questo è “peste” in un presbiterio. Ci sono due “pesti” forti: questa è una. Gli arrampicatori, che cercano di farsi strada e sempre hanno le unghie sporche, perché vogliono andare su. Un arrampicatore è capace di creare tante discordie nel seno di un corpo presbiterale. Pensa alla carriera: “Adesso finisco in questa parrocchia e mi daranno un’altra più grande…”. E’ interessante: l’arrampicatore, quando finisce in una e il vescovo gliene dà un’altra non tanto “alta”, più “bassa”, si offende. Si offende! “Ma no: a me tocca quella!”. Non ti tocca niente, a te tocca soltanto il servizio. Le cose dobbiamo dirle così, chiaramente. Gli arrampicatori fanno tanto male all’unione comunitaria del presbiterio, tanto male, perché sono in comunità ma fanno così per andare avanti loro.

L’altro vizio frequente è il chiacchiericcio. “Ma quello…” – “Hai visto questo…” – “Si dice di questo…” – “Si dice di questo…”. E la fama del fratello prete viene sporcata, finisce sporcata, la fama si rovina. Distruggere la fama degli altri. Il chiacchiericcio è un vizio, un vizio “di clausura”, diciamo noi. Quando c’è un presbiterio dove ci sono tanti uomini con l’anima chiusa, c’è il chiacchiericcio, sparlare degli altri. “Ti ringrazio, Signore, perché non sono come gli altri, e neppure come quel pubblicano” (cfr Lc 18,11), “grazie a Dio che non sono come quello!”. Questa è la musica del chiacchiericcio, anche del chiacchiericcio clericale. L’arrampicamento e il chiacchiericcio sono due vizi propri del clericalismo.
Come può esprimersi e crescere questa esigenza evangelica di fraternità nella vita dei presbiteri? Vivendo la diocesanità, con il coraggio di parlare chiaro sempre e di sopportare gli altri; con un buon rapporto con il popolo di Dio, sia davanti, per indicare il cammino, sia in mezzo, nella vicinanza delle opere di carità, sia dietro, per guardare come va il popolo e aiutare quelli che sono in ritardo; e fuggendo da ogni forma di clericalismo, perché i due vizi più brutti che ha il clericalismo sono l’arrampicamento e il chiacchiericcio.
Non so se ho risposto alla domanda… Diocesanità, questo è il carisma proprio di un sacerdote diocesano, e diocesanità significa questo che ho detto. Grazie.
Incontrando gli studenti e il Mondo accademico ha parlato dell’importanza delle università e di come sia impegnativo esserne parte:…………….. L’Università è sorta qui per lo studio del diritto, per la ricerca di ciò che difende le persone, regola la vita comune e tutela dalle logiche del più forte, della violenza e dell’arbitrio. È una sfida attuale: affermare i diritti delle persone e dei popoli, dei più deboli, di chi è scartato, e del creato, nostra casa comune.

Non credete a chi vi dice che lottare per questo è inutile e che niente cambierà! Non accontentatevi di piccoli sogni, ma sognate in grande. Voi, giovani, sognate in grande! Sogno anch’io, ma non solo mentre dormo, perché i sogni veri si fanno ad occhi aperti e si portano avanti alla luce del sole. Rinnovo con voi il sogno di «un nuovo umanesimo europeo, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia»; di un’Europa madre, che «rispetta la vita e offre speranze di vita»; di un’Europa «dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile» (Discorso per il conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016). Sogno un’Europa “universitaria e madre” che, memore della sua cultura, infonda speranza ai figli e sia strumento di pace per il mondo. Grazie”.
Dulcis in fundo la celebrazione della Santa Messa: “Celebro con voi la prima Domenica della Parola: la Parola di Dio fa ardere il cuore (cfr Lc 24,32), perché ci fa sentire amati e consolati dal Signore. Anche la Madonna di San Luca, evangelista, può aiutarci a comprendere la tenerezza materna della Parola «viva», che tuttavia è al tempo stesso «tagliente», come nel Vangelo di oggi: infatti penetra nell’anima (cfr Eb 4,12) e porta alla luce i segreti e le contraddizioni del cuore.

Oggi ci provoca mediante la parabola dei due figli, che alla richiesta del padre di andare nella sua vigna rispondono: il primo no, ma poi va; il secondo sì, ma poi non va. C’è però una grande differenza tra il primo figlio, che è pigro, e il secondo, che è ipocrita. Proviamo a immaginare cosa sia successo dentro di loro. Nel cuore del primo, dopo il no, risuonava ancora l’invito del padre; nel secondo, invece, nonostante il sì, la voce del padre era sepolta. Il ricordo del padre ha ridestato il primo figlio dalla pigrizia, mentre il secondo, che pur conosceva il bene, ha smentito il dire col fare. Era infatti diventato impermeabile alla voce di Dio e della coscienza e così aveva abbracciato senza problemi la doppiezza di vita. Gesù con questa parabola pone due strade davanti a noi, che – lo sperimentiamo – non siamo sempre pronti a di dire sì con le parole e le opere, perché siamo peccatori. Ma possiamo scegliere se essere peccatori in cammino, che restano in ascolto del Signore e quando cadono si pentono e si rialzano, come il primo figlio; oppure peccatori seduti, pronti a giustificarsi sempre e solo a parole secondo quello che conviene.

Questa parabola Gesù la rivolse ad alcuni capi religiosi del tempo, che assomigliavano al figlio dalla vita doppia, mentre la gente comune si comportava spesso come l’altro figlio. Questi capi sapevano e spiegavano tutto, in modo formalmente ineccepibile, da veri intellettuali della religione. Ma non avevano l’umiltà di ascoltare, il coraggio di interrogarsi, la forza di pentirsi. E Gesù è severissimo: dice che persino i pubblicani li precedono nel Regno di Dio. È un rimprovero forte, perché i pubblicani erano dei corrotti traditori della patria. Qual era allora il problema di questi capi? Non sbagliavano in qualcosa, ma nel modo di vivere e pensare davanti a Dio: erano, a parole e con gli altri, inflessibili custodi delle tradizioni umane, incapaci di comprendere che la vita secondo Dio è in cammino e chiede l’umiltà di aprirsi, pentirsi e ricominciare.
Cosa dice questo a noi? Che non esiste una vita cristiana fatta a tavolino, scientificamente costruita, dove basta adempiere qualche dettame per acquietarsi la coscienza: la vita cristiana è un cammino umile di una coscienza mai rigida e sempre in rapporto con Dio, che sa pentirsi e affidarsi a Lui nelle sue povertà, senza mai presumere di bastare a sé stessa. Così si superano le edizioni rivedute e aggiornate di quel male antico, denunciato da Gesù nella parabola: l’ipocrisia, la doppiezza di vita, il clericalismo che si accompagna al legalismo, il distacco dalla gente. La parola chiave è pentirsi: è il pentimento che permette di non irrigidirsi, di trasformare i no a Dio in sì, e i sì al peccato in no per amore del Signore. La volontà del Padre, che ogni giorno delicatamente parla alla nostra coscienza, si compie solo nella forma del pentimento e della conversione continua. In definitiva, nel cammino di ciascuno ci sono due strade: essere peccatori pentiti o peccatori ipocriti. Ma quel che conta non sono i ragionamenti che giustificano e tentano di salvare le apparenze, ma un cuore che avanza col Signore, lotta ogni giorno, si pente e ritorna a Lui. Perché il Signore cerca puri di cuore, non puri “di fuori”.
Vediamo allora, cari fratelli e sorelle, che la Parola di Dio scava in profondità, «discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Ma è pure attuale: la parabola ci richiama anche ai rapporti, non sempre facili, tra padri e figli. Oggi, alla velocità con cui si cambia tra una generazione e l’altra, si avverte più forte il bisogno di autonomia dal passato, talvolta fino alla ribellione. Ma, dopo le chiusure e i lunghi silenzi da una parte o dall’altra, è bene recuperare l’incontro, anche se abitato ancora da conflitti, che possono diventare stimolo di un nuovo equilibrio. Come in famiglia, così nella Chiesa e nella società: non rinunciare mai all’incontro, al dialogo, a cercare vie nuove per camminare insieme.

Nel cammino della Chiesa giunge spesso la domanda: dove andare, come andare avanti? Vorrei lasciarvi, a conclusione di questa giornata, tre punti di riferimento, tre “P”. La prima è la Parola, che è la bussola per camminare umili, per non perdere la strada di Dio e cadere nella mondanità. La seconda è il Pane, il Pane eucaristico, perché dall’Eucaristia tutto comincia. È nell’Eucaristia che si incontra la Chiesa: non nelle chiacchiere e nelle cronache, ma qui, nel Corpo di Cristo condiviso da gente peccatrice e bisognosa, che però si sente amata e allora desidera amare. Da qui si parte e ci si ritrova ogni volta, questo è l’inizio irrinunciabile del nostro essere Chiesa. Lo proclama “ad alta voce” il Congresso Eucaristico: la Chiesa si raduna così, nasce e vive attorno all’Eucaristia, con Gesù presente e vivo da adorare, ricevere e donare ogni giorno. Infine, la terza P: i poveri. Ancora oggi purtroppo tante persone mancano del necessario. Ma ci sono anche tanti poveri di affetto, persone sole, e poveri di Dio. In tutti loro troviamo Gesù, perché Gesù nel mondo ha seguito la via della povertà, dell’annientamento, come dice san Paolo nella seconda Lettura: «Gesù svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7) Dall’Eucaristia ai poveri, andiamo a incontrare Gesù. Avete riprodotto la scritta che il Card. Lercaro amava vedere incisa sull’altare: «Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo quello terrestre?». Ci farà bene ricordarlo sempre. La Parola, il Pane, i poveri: chiediamo la grazia di non dimenticare mai questi alimenti-base, che sostengono il nostro cammino.




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