Papa Francesco in Svizzera all’insegna dell’Ecumenismo

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Papa – Giornata molto importante per il Papa in visita pastorale in Svizzera.
Per un giorno papa Francesco si trasferisce da Roma a Ginevra come pellegrino per incontrare, in occasione del suo 70° anniversario, il Consiglio ecumenico delle Chiese ( World Council of Churches – Wcc), organismo che riunisce più di trecento Chiese cristiane di oltre 110 Paesi, del quale la Chiesa cattolica non è membro ma con cui collabora e opera strettamente fin dal 1965
“L’ecumenismo è ‘una grande impresa in perdita’. Ma si tratta di perdita evangelica, secondo la via tracciata da Gesù”. E’ uno dei passaggi chiave del discorso pronunciato da Papa Francesco durante la preghiera ecumenica, nel Centro Ecumenico di Ginevra. Dinanzi a circa 230 persone, appartenenti al Wcc, il Pontefice ha inaugurato il suo 23.esimo viaggio apostolico rimarcando che il Signore “chiede unità”; “il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità”. Certo, riconosce, si potrebbe obiettare che camminare insieme, senza alcun “ripiegamento autoreferenziale”, sia una sorta di lavoro “in perdita”, ma i discepoli di Cristo devono “camminare secondo lo Spirito, purificando il cuore dal male, scegliendo con santa ostinazione la via del Vangelo e rifiutando le scorciatoie del mondo”.
L’essere umano è una creatura “in cammino”, perennemente in uscita: “da quando esce dal grembo della madre a quando passa da un’età della vita a un’altra; dal momento in cui lascia la casa dei genitori fino a quando esce da questa esistenza terrena”. Ma camminare, sottolinea Papa Bergoglio, “è una disciplina, una fatica, servono pazienza quotidiana e allenamento costante”; bisogna “rinunciare a tante strade per scegliere quella che conduce alla meta e ravvivare la memoria per non smarrirla”.
“Camminare richiede l’umiltà di tornare sui propri passi e la cura per i compagni di viaggio, perché solo insieme si cammina bene. Camminare, insomma, esige una conversione continua di sé. Per questo tanti vi rinunciano, preferendo la quiete domestica, dove curare comodamente i propri affari senza esporsi ai rischi del viaggio”.
“Se ogni uomo è un essere in cammino”, tanto più questo vale per un cristiano, chiamato a seguire il “tracciato inaugurato dal Battesimo”, invece di “soddisfare il desiderio della carne”. Questo, in concreto, chiarisce il Pontefice, significa non “provare a realizzarsi inseguendo la via del possesso, la logica dell’egoismo”, che porta inevitabilmente l’uomo a perdere “di vista i compagni di viaggio”, mentre “sulle strade del mondo regna una grande indifferenza”.
“Spinto dai propri istinti, diventa schiavo di un consumismo senza freni: allora la voce di Dio viene messa a tacere; allora gli altri, soprattutto se incapaci di camminare sulle loro gambe, come i piccoli e gli anziani, diventano scarti fastidiosi; allora il creato non ha più altro senso se non quello di soddisfare la produzione in funzione dei bisogni”.
Dinanzi ai membri del Consiglio ecumenico delle Chiese, a 70 anni dalla nascita, Papa Francesco chiede di “calarsi nella storia col passo di Dio”, “non col passo rimbombante della prevaricazione”, ma con quello dell’amore evangelico. Le divisioni tra cristiani, infatti, “sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana”, e oggi “troppo facilmente” il cammino ecumenico “si arresta davanti alle divergenze che persistono”.
“Le distanze non siano scuse, è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio! Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme: ecco la nostra strada maestra”.
Gesù, che per amore “si è fatto pellegrino” tra gli uomini, ancora oggi ci ricorda che i “muri della separazione” sono stati abbattuti e “ogni inimicizia” è stata vinta, e che “camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo”. E’ difficile, conclude Papa Bergoglio, “sopire le animosità e coltivare la comunione”, è ostico “uscire da contrasti e rifiuti reciproci alimentati per secoli”, ma i discepoli del Figlio di Dio sono chiamati a perseguire l’unità, con ostinazione, perché la divisione porta solo “guerre e distruzioni”.
Al Suo arrivo, il Papa è stato accolto dal Presidente della Confederazione Svizzera, Alain Berset, con il quale ha successivamente avuto un incontro di circa venti minuti. Erano presenti in aeroporto anche due ex Guardie Svizzere Pontificie in divisa e due bambini, in abito tradizionale, che hanno offerto un omaggio floreale al Papa. Il Papa si poi recato al Centro ecumenico Wcc a bordo di una utilitaria, una Fiat Tipo. Lo scopo del “pellegrinaggio ecumenico a Ginevra” in occasione del settantesimo anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese è “specialmente incrementare il dialogo”. Lo ha scritto lui stesso al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricordando tuttavia che nella cittaà della Svizzera intende anche “incontrare la comunità cattolica”. “Mi è caro rivolgere a Lei, signor Presidente – si legge el consueto messaggio del Pontefice indirizzato al Capo dello Stato al momento del decollo – il mio deferente saluto, che accompagno con fervidi auspici per il benessere spirituale, civile e sociale cui invio volentieri la mia benedizione”. Durante il viaggio, parlando con i giornalisti, il Papa ha ribadito che si tratta di “un viaggio verso l’unità. Desiderio di unità”, ha ripetuto facendo riferimento al cammino ecumenico al centro di questo suo ventitreesimo viaggio internazionale. “Grazie per il vostro lavoro, per tutto quello che farete per il successo del viaggio ” ha aggiunto il Papa rivolto ai giornalisti.
Dopo pranzo secondo appuntamento ecumenico alle 15.45.
…”Biblicamente, settant’anni evocano un periodo di tempo compiuto, segno di benedizione divina. Ma settanta è anche un numero che fa affiorare alla mente due celebri passi evangelici. Nel primo, il Signore ci ha comandato di perdonarci non fino a sette, ma «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22). Il numero non indica certo un termine quantitativo, ma apre un orizzonte qualitativo: non misura la giustizia, ma spalanca il metro di una carità smisurata, capace di perdonare senza limiti. È questa carità che, dopo secoli di contrasti, ci permette di stare insieme, come fratelli e sorelle riconciliati e grati a Dio nostro Padre. Se siamo qui è anche grazie a quanti ci hanno preceduto nel cammino, scegliendo la via del perdono e spendendosi per rispondere alla volontà del Signore: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Spinti dall’accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di credere nell’unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura. È vero quanto affermava un antico padre nella fede: «Se davvero l’amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore, allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l’unità» (S. Gregorio di Nissa, Omelia 15 sul Cantico dei Cantici). Siamo i beneficiari della fede, della carità e della speranza di tanti che, con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni. Grazie allo Spirito Santo, ispiratore e guida dell’ecumenismo, la direzione è cambiata e una via tanto nuova quanto antica è stata indelebilmente tracciata: la via della comunione riconciliata, verso la manifestazione visibile di quella fraternità che già unisce i credenti.
Il numero settanta offre un secondo spunto evangelico. Richiama quei discepoli che, durante il ministero pubblico, Gesù inviò in missione (cfr Lc 10,1) e che vengono celebrati nell’Oriente cristiano. Il numero di questi discepoli rimanda a quello delle nazioni conosciute, elencate agli inizi della Scrittura (cfr Gen 10). Che cosa ci suggerisce questo? Che la missione è rivolta a tutti i popoli e che ogni discepolo, per essere tale, deve diventare apostolo, missionario. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti «perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Permettetemi, cari fratelli e sorelle, di manifestarvi, oltre al vivo ringraziamento per l’impegno che profondete per l’unità, anche una preoccupazione. Essa deriva dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine. Eppure il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione.
Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il Popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’Apostolo Paolo: «Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Questo è l’unico nostro vanto: la «conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6), donataci dallo Spirito vivificante. Questo è il tesoro che noi, fragili vasi di creta (cfr v. 7), dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Non saremmo fedeli alla missione affidataci se riducessimo questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo (cfr Mt 25,25).
Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un nuovo slancio evangelizzatore. Siamo chiamati a essere un popolo che vive e condivide la gioia del Vangelo, che loda il Signore e serve i fratelli, con l’animo che arde dal desiderio di dischiudere orizzonti di bontà e di bellezza inauditi a chi non ha ancora avuto la grazia di conoscere veramente Gesù. Sono convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi. Come alle origini l’annuncio segnò la primavera della Chiesa, così l’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica. Come alle origini, stringiamoci in comunione attorno al Maestro, non senza provare vergogna per i nostri continui tentennamenti e dicendogli, con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
Cari fratelli e sorelle, ho desiderato partecipare di persona alle celebrazioni di questo anniversario del Consiglio anche per ribadire l’impegno della Chiesa Cattolica nella causa ecumenica e per incoraggiare la cooperazione con le Chiese-membri e con i partner ecumenici. A questo riguardo vorrei soffermarmi anch’io un poco sul motto scelto per questa giornata: Camminare – Pregare – Lavorare insieme.
Camminare: sì, ma verso dove? Sulla base di quanto detto, suggerirei un duplice movimento: in entrata e in uscita. In entrata, per dirigerci costantemente al centro, per riconoscerci tralci innestati nell’unica vite che è Gesù (cfr Gv 15,1-8). Non porteremo frutto senza aiutarci a vicenda a rimanere uniti a Lui. In uscita, verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del Vangelo all’umanità sofferente. Potremmo chiederci se stiamo camminando davvero o soltanto a parole, se presentiamo i fratelli al Signore e li abbiamo veramente a cuore oppure sono lontani dai nostri reali interessi. Potremmo chiederci anche se il nostro cammino è un ritornare sui nostri passi o un convinto andare al mondo per portarvi il Signore.
Pregare: anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli, perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano. Quando diciamo “Padre nostro” risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli. La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti. Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri? Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?
Lavorare insieme. A questo proposito vorrei ribadire che la Chiesa Cattolica riconosce la speciale importanza del lavoro che compie la Commissione Fede e Costituzione e desidera continuare a contribuirvi attraverso la partecipazione di teologi altamente qualificati. La ricerca di Fede e Costituzione per una visione comune della Chiesa e il suo lavoro sul discernimento delle questioni morali ed etiche toccano punti nevralgici della sfida ecumenica. Allo stesso modo, la presenza attiva nella Commissione per la Missione e l’Evangelizzazione; la collaborazione con l’Ufficio per il Dialogo Interreligioso e la Cooperazione, ultimamente sull’importante tema dell’educazione alla pace; la preparazione congiunta dei testi per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e varie altre forme di sinergia sono elementi costitutivi di una solida e collaudata collaborazione. Inoltre, apprezzo il ruolo imprescindibile dell’Istituto Ecumenico di Bossey nella formazione ecumenica delle giovani generazioni di responsabili pastorali e accademici di tante Chiese e Confessioni cristiane di tutto il mondo. La Chiesa Cattolica, da molti anni, collabora in quest’opera educativa con la presenza di un professore cattolico nella Facoltà; e ogni anno ho la gioia di salutare il gruppo di studenti che compie la visita di studio a Roma. Vorrei anche menzionare, quale buon segno di “affiatamento ecumenico”, la crescente adesione alla Giornata di preghiera per la cura del creato.

Oltre a ciò, il lavoro tipicamente ecclesiale ha un sinonimo ben definito: diakonia. È la via sulla quale seguire il Maestro, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Il variegato e intenso servizio delle Chiese-membri del Consiglio trova un’espressione emblematica nel Pellegrinaggio di giustizia e di pace. La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti. I deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione, perché «il programma del cristiano è un cuore che vede» (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 31). Vediamo ciò che è possibile fare concretamente, piuttosto che scoraggiarci per ciò che non lo è. Guardiamo anche a tanti nostri fratelli e sorelle che in varie parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, soffrono perché sono cristiani. Stiamo loro vicini. E ricordiamo che il nostro cammino ecumenico è preceduto e accompagnato da un ecumenismo già realizzato, l’ecumenismo del sangue, che ci esorta ad andare avanti.
Incoraggiamoci a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali e di farci assorbire da interessi di parte. Aiutiamo gli uomini di buona volontà a dare maggior spazio a situazioni e vicende che riguardano tanta parte dell’umanità, ma che occupano un posto troppo marginale nella grande informazione. Non possiamo disinteressarci, e c’è da inquietarsi quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato. Ancora più triste è la convinzione di quanti ritengono i propri benefici puri segni di predilezione divina, anziché chiamata a servire responsabilmente la famiglia umana e a custodire il creato. Sull’amore per il prossimo, per ogni prossimo, il Signore, Buon Samaritano dell’umanità (cfr Lc 10,29-37), ci interpellerà (cfr Mt 25,31-46). Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?”
A seguire la Santa Messa, il commiato ed il rientro serale a Roma.




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