Papa Francesco udienza generale

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L’udienza generale di Papa Francesco è tornata ad incentrarsi sulla Speranza cristiana che deve essere fonte del conforto reciproco e della pace
“Cari fratelli e sorelle, buongiorno!” ha esordito il vescovo di Roma: “Mercoledi scorso abbiamo visto che san Paolo, nella Prima Lettera ai Tessalonicesi, esorta a rimanere radicati nella speranza della risurrezione (cfr 5,4-11), con quella bella parola «saremo sempre con il Signore» (4,17). Nello stesso contesto, l’Apostolo mostra che la speranza cristiana non ha solo un respiro personale, individuale, ma comunitario, ecclesiale. Tutti noi speriamo; tutti noi abbiamo speranza, anche comunitariamente. Per questo, lo sguardo viene subito allargato da Paolo a tutte le realtà che compongono la comunità cristiana, chiedendo loro di pregare le une per le altre e di sostenersi a vicenda. Aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza. E non è un caso che cominci proprio facendo riferimento a coloro ai quali è affidata la responsabilità e la guida pastorale. Sono i primi ad essere chiamati ad alimentare la speranza, e questo non perché siano migliori degli altri, ma in forza di un ministero divino che va ben al di là delle loro forze. Per tale motivo, hanno quanto mai bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo di tutti quanti. L’attenzione poi viene posta sui fratelli che rischiano maggiormente di perdere la speranza, di cadere nella disperazione. Noi sempre abbiamo notizie di gente che cade nella disperazione e fa cose brutte… La disperazione li porta a tante cose brutte. Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è avere compatimento: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a chi soffre; una parola, una carezza, ma che venga dal cuore; questa è la compassione. Per chi ha bisogno del conforto e della consolazione. Questo è quanto mai importante: la speranza cristiana non può fare a meno della carità genuina e concreta. Lo stesso Apostolo delle genti, nella Lettera ai Romani, afferma con il cuore in mano: «Noi, che siamo i forti – che abbiamo la fede, la speranza, o non abbiamo tante difficoltà – abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (15,1). Portare, portare le debolezze altrui. Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono – il cristiano mai può dire: me la pagherai!, mai; questo non è un gesto cristiano; l’offesa si vince con il perdono –, a vivere in pace con tutti. Questa è la Chiesa! E questo è ciò che opera la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore. L’amore è forte e tenero. E’ bello.
Si comprende allora che non si impara a sperare da soli. Nessuno impara a sperare da solo. Non è possibile. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda. Questo allora vuol dire che, se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e sorelle ci hanno insegnato a sperare e hanno tenuto viva la nostra speranza. E tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e questo non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto… A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Sono questi nostri fratelli a darci la testimonianza più bella, più forte, perché rimangono fermi nell’affidamento al Signore, sapendo che, al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno questa parola: “Vieni, vieni da me, fratello; vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità”.
Cari amici, se — come abbiamo detto — la dimora naturale della speranza è un “corpo” solidale, nel caso della speranza cristiana questo corpo è la Chiesa, mentre il soffio vitale, l’anima di questa speranza è lo Spirito Santo. Senza lo Spirito Santo non si può avere speranza. Ecco allora perché l’Apostolo Paolo ci invita alla fine a invocarlo continuamente. Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. E’ più difficile sperare che credere, è più difficile. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità, in una perenne Pentecoste, come segni vivi di speranza per la famiglia umana. Grazie”.
Quindi un appello de Pontefice: “ri, a Osaka in Giappone, è stato proclamato Beato Justo Takayama Ukon, fedele laico giapponese, morto martire a Manila nel 1615. Piuttosto che scendere a compromessi, rinunciò ad onori e agiatezze accettando l’umiliazione e l’esilio. Rimase fedele a Cristo e al Vangelo; per questo rappresenta un mirabile esempio di fortezza nella fede e di dedizione nella carità.
Oggi si celebra la Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, quest’anno dedicata in particolare a bambini e adolescenti. Incoraggio tutti coloro che in vari modi aiutano i minori schiavizzati e abusati a liberarsi da tale oppressione. Auspico che quanti hanno responsabilità di governo combattano con decisione questa piaga, dando voce ai nostri fratelli più piccoli, umiliati nella loro dignità. Occorre fare ogni sforzo per debellare questo crimine vergognoso e intollerabile.
Sabato prossimo, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, ricorrerà la 25ª Giornata Mondiale del Malato. La celebrazione principale avrà luogo a Lourdes e sarà presieduta dal Cardinale Segretario di Stato. Invito a pregare, per intercessione della nostra Santa Madre, per tutti gli ammalati, specialmente per quelli più gravi e più soli, e anche per tutti coloro che se ne prendono cura.
Torno alla celebrazione di oggi, la Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta delle persone, che si celebra oggi perché oggi è la festa di santa Giuseppina Bakhita [mostra un opuscolo che parla di lei]. Questa ragazza schiavizzata in Africa, sfruttata, umiliata, non ha perso la speranza e ha portato avanti la fede, e finì per arrivare come migrante in Europa. E lì sentì la chiamata del Signore e si fece suora. Preghiamo santa Giuseppina Bakhita per tutti i migranti, i rifugiati, gli sfruttati che soffrono tanto, tanto.
E parlando di migranti cacciati via, sfruttati, io vorrei pregare con voi, oggi, in modo speciale per i nostri fratelli e sorelle Rohinya: cacciati via dal Myanmar, vanno da una parte all’altra perché non li vogliono… E’ gente buona, gente pacifica. Non sono cristiani, sono buoni, sono fratelli e sorelle nostri! E’ da anni che soffrono. Sono stati torturati, uccisi, semplicemente perché portano avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana. Preghiamo per loro”!.

La Prima Lettera è il primo scritto dell’Apostolo Paolo e di tutto il Nuovo Testamento, rivolto ad una comunità giovanissima, che da pochissimo tempo ha accolto il Vangelo, con grande entusiasmo ed esplosione di frutti. La lettura di 1Ts presenta un particolare interesse per comunità così articolate e impegnate, come le nostre, su molti fronti, tanto da smarrire talvolta l’essenziale della vita cristiana. Essa infatti, raffigurando la situazione di una comunità appena costituita e
del tutto destrutturata ha il vantaggio di cogliere in modo immediato la dinamica essenziale della vita cristiana. Questa si sviluppa, nel sentire della lettera, come vita teologale capace di sgorgare
incessantemente dalla memoria delle sorgenti della fede, di concretizzarsi nell’impegno costante della carità e di aprirsi sempre più alla speranza dell’incontro beato con il Signore, atteso nella vigilanza. Per comprendere il tenore complessivo dello scritto è importante conoscere quali precise circostanze lo hanno dettato al cuore dell’apostolo.
Paolo la compone durante il secondo viaggio missionario nel quale, attraversate alcune comunità
dell’Asia Minore, già visitate nel primo, in seguito ad una visione divina, si spinge sino alla Grecia: da Filippi perviene a Tessalonica e di qui, attraverso Berea, giunge ad Atene e poi a Corinto, da dove avverte la necessità di scrivere la sua prima lettera proprio alla comunità dei Tessalonicesi. La cronologia che è possibile ricostruire dal racconto degli Atti, indica con esattezza, per la composizione dello scritto, la data del 50, anno del proconsolato di Gallione in Acaia (At 17,1-18,6 in relazione a 1Ts 2-3).
Due particolari motivi sembrano spingere Paolo a scrivere la sua prima lettera. Da un lato la
commossa gratitudine al Signore per un esito missionario totalmente al di sopra delle sue aspettative, che ha visto nascere in poco tempo una comunità dinamica e vivace; dall’altro la dura prova subita dalla giovane chiesa, appena generata dall’annuncio del Vangelo, a motivo dall’aggressiva presenza di giudei, i quali, dopo aver ostacolato in modo diretto la predicazione dell’Apostolo a Tessalonica, sembrano mettere a repentaglio, dopo la sua partenza, i frutti della sua stessa azione evangelizzatrice. In angustia per la sorte di quella che egli doveva ritenere forse la «primogenita» tra le sue comunità, Paolo vi aveva già inviato Timoteo da Atene. Le buone notizie da lui riportategli lo inducono a scrivere, da Corinto, una lettera carica di gratitudine al Signore e colma di affetto ed incoraggiamento per i suoi figli, dei quali egli si considera non solo un padre che li ha generati attraverso il Vangelo, ma addirittura una madre premurosa, che nutre ed accompagna le sue creature sino a voler dare loro, insieme al Vangelo di Dio, anche la sua stessa vita (1Ts 2,7-8).
Nella lettera prevalgono dunque i motivi della gioia che si esprime come eucaristia per l’opera
grande di Dio, oltre ogni aspettativa dell’apostolo stesso, che si manifesta nella dinamica della fede, carità e speranza, generate dall’amore di Dio, lo Spirito Santo donato ai credenti in Cristo i cui cuori si aprono all’annuncio del Vangelo. Ben si può cogliere dalle luminose espressioni della lettera come la vita cristiana, suscitata dal Vangelo predicato ed accolto sia tale da diventare essa stessa Vangelo vivente testimoniato a tutti gli uomini.




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