San Domenico Savio amico di San Giovanni Bosco

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Domenico Savio – Domenico nacque a Riva di Chieri, in provincia di Torino, il 2 aprile 1842. Il padre era un fabbro ferraio, la mamma una brava sarta. Due anni dopo, per motivi di lavoro, la famiglia si trasferì a Murialdo, a poca distanza da Castelnuovo d’ Asti, paese natale di Don Bosco. Il cappellano Don Giovanni Battista Zucca, rimase colpito dalla precocità spirituale del ragazzino, tanto che decise di ammetterlo a 7 anni – cosa straordinaria per quei tempi – alla prima comunione. Quel giorno (era la domenica di Pasqua del 1849) su un foglietto conservato da lui in un libro di preghiere e trovato poi da Don Bosco, il piccolo Domenico scrisse testualmente: “1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore mi darà licenza. 2. Voglio santificare i giorni festivi. 3. I miei amici saranno Gesù e Maria. 4. La morte, ma non peccati”. Questi propositi furono il suo programma di vita.
All’ inizio del 1853 la famiglia Savio si trasferì, sempre per motivi di lavoro, a Mondonio, un piccolo borgo nei pressi di Castelnuovo, dove il ragazzo terminò le scuole elementari. Il suo maestro, Don Cugliero, riferì in una lettera inviata all’ Archivio salesiano centrale un episodio particolarmente significativo: durante l’ inverno 1853- 54, i ragazzi dovevano portare a scuola, oltre ai libri, un po’ di legna per alimentare la stufa. Due alunni, approfittando del fatto che il maestro non era ancora arrivato, non solo non portarono legna, ma riempirono la stufa di neve, mandando poi sulle furie Don Cugliero che cercò subito il colpevole. I due teppistelli accusarono l’ ignaro Domenico, il quale per castigo fu messo in ginocchio sul pavimento dell’ aula. Alla fine della mattinata però alcuni compagni raccontarono al prete come erano realmente andate le cose. Costui rimase senza fiato e alla domanda perché non si fosse difeso, Domenico gli rispose con semplicità: “Anche il Signore è stato calunniato ingiustamente. E non si è mica ribellato”. Impressionato da quanto accaduto, il sacerdote andò da Don Bosco a Torino per segnalargli questo alunno fuori del comune: “Lei nella sua casa”, gli disse, “difficilmente avrà chi lo superi in talento e virtù. Ne faccia la prova, e troverà un san Luigi”.
Un giorno don Bosco stava lavorando in camera sua, quando un ragazzo entrò in fretta. (E lui stesso che lo racconta).
Presto, venga con me.
Dove vuoi condurmi?
Faccia presto, faccia presto.
Se si fosse trattato di un ragazzo qualsiasi, don Bosco l’avrebbe creduto uno scherzo. Ma quel quattordicenne era Domenico Savio. E don Bosco lasciò il suo lavoro e lo segui. Racconta: «Esce di casa, passa per una via, poi un’altra, e un’altra ancora, ma non si arresta, né fa parola, prende in fine una1tra via, io lo accompagno di porta in porta finché si ferma. Sale una scala, monta al terzo piano e suona una forte scampanellata. – E qua che deve entrare – egli dice e tosto se ne parte».
La porta si apre. Una donna scarmigliata vede il prete e dice con sollievo: Venga in fretta. Mio marito ha avuto la disgrazia di farsi protestante. Adesso sta morendo e chiede per pietà un prete che gli dia l’assoluzione.
Don Bosco si avvicina al letto del malato e gli ridà la pace di Dio. Appena in tempo, perché la morte e già lì, e se lo porta via rapidamente.
Don Bosco torna a casa pensieroso. Come ha saputo Domenico di quel povero malato? «Un giorno – scrive – ho voluto chiedergli come avesse potuto sapere…, ed gli mi guardò con aria di dolore e poi si mise a piangere».
Don Bosco non gli fece più domande del genere. Aveva capito che quel ragazzo parlava con Dio.
Domenico Savio fu il primo ragazzo dell’Oratorio di Cui don Bosco senti il bisogno di scrivere la vita. Era venuto in contatto con lui in maniera quasi casuale. Don Giuseppe Cugliero, suo amico, era insegnante a Mondonio, e si era trovato in classe quella perla di ragazzo. Di salute fragile, di intelligenza buona, di bontà eccezionale. Incontrando don Bosco gliene parlò:
Si chiama Domenico, ma noi lo chiamiamo tutti Minòt. La famiglia e poverissima, il padre fa mille mestieri per tirare avanti. Ma Minòt è un vero san Luigi. Qui all’oratorio puoi avere ragazzi uguali, ma difficilmente ne hai qualcuno che lo possa superare.
Rimasero intesi che don Bosco avrebbe incontrato il padre e Minòt ai Becchi, quando sarebbe andato lasso per la festa della Madonna del Rosario.


Il primo incontro, don Bosco lo descrive nella sua breve biografia. «Era il primo lunedì d’ottobre (2 ottobre 1854) di buon mattino, allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicina. L’aria ridente ma rispettosa, trasse verso di lui i miei sguardi.
Chi sei – gli dissi -, donde vieni?
Io sono Savio Domenico, di Cui le ha parlato don Cugliero mio maestro, e veniamo da Mondonio. Allora lo chiamai in disparte. .. Conobbi in quel giovane (12 anni) un animo tutto del Signore e rimasi non poco stupito. Prima che chiamassi il padre mi disse:
Mi condurrà a Torino per studiare?
Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.
A che può servire questa stoffa?
A fare un bell’abito da regalare al Signore.
Dunque io sono la stoffa: lei ne sia il Sarto, dunque mi prenda con sé e farà un bell’abito pel Signore.
Io temo che la tua gracilità non regga allo studio. (Don Cugliero doveva aver detto che due fratellini di Domenico erano morti pochi giorni dopo la nascita, e che altri tre nati, Raimonda di 7 anni, Maria di 5 e Giovanni di 2, non erano fiori di salute).
Non tema questo. Il Signore mi aiuterà.
Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino che cosa vorrai diventare?
Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente abbracciare lo stato ecclesiastico (= diventare prete).
Bene, ora voglio provare se hai sufficiente capacità per lo studio, prendi questo libretto, oggi Studia questa pagina, domani tornerai per recitarmela.
Mi posi a parlare col padre. Passarono non pill di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: «Se vuole, recito adesso la mia pagina». Non solo aveva letteralmente studiato la pagina, ma comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute. Bravo – gli dissi – , tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Ti condurrò a Torino. Comincia fin dora a pregare Iddio, affinché aiuti me e te a fare la sua santa volontà».
Domenico entrò nell’Oratorio il 29 ottobre 1854.
I ragazzi interni erano più di un centinaio. Alla domenica (e anche nei pomeriggi dei giorni feriali) i prati dell’Oratorio erano invasi da centinaia di ragazzi di ogni genere: venivano a giocare, a imparare qualcosa, a stare con don Bosco, pronti magari a scappare quando era l’ora di andare in chiesa. Tra questi ragazzi, sovente sporchi e maleducati, Domenico fu più che un amico:
«Si prestava volentieri a fare il catechismo ai più piccoli nella chiesa dell’Oratorio», ricorda Bonetti sottolineando: «Fu mio condiscepolo».
Ciò che Domenico portò all’Oratorio fu una dolce e soda devozione alla Madonna.
Gia nella prima Comunione aveva elencato tra i suoi propositi: «I miei amici saranno Gesù e Maria».
A Valdocco, nella prima festa dell’Immacolata che trascorse, ci fu entusiasmo grande. Pio IX, a Roma, dichiarava verità di fede l’Immacolata Concezione di Maria (cioè che essa era stata concepita senza peccato originale).
Domenico, nel pomeriggio di quel giorno, andò all’altare della Madonna, nella chiesa di San Francesco, e si consacro con queste semplici parole: «Maria, vi dono il mio cuore, fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei, ma per pietà fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».
Nel 1856 Domenico ebbe l’idea di fondare la Compagnia dell’Immacolata. I «soci» della Compagnia si sarebbero impegnati a diventare migliori con l’aiuto di Gesù e della Madonna, e si sarebbero sforzati di diventare dei piccoli apostoli tra i compagni, diffondendo gioia e allegria intorno a sé. La Compagnia dell’Immacolata, approvata da don Bosco, fu inaugurata l’8 giugno 1856.
Una delle attività principali della Compagnia fu quella di «curare i clienti». I ragazzi indisciplinati, dallo schiaffo e dall’insulto facile, venivano assegnati ai singoli soci perché funzionassero nei loro riguardi come «angeli custodi». In quei primi tempi caratterizzati dalla scarsità di assistenza, quei ragazzi fecero in silenzio del bene grande all’Oratorio: non permisero che il disordine e la prepotenza s’impossessassero della situazione.
Ma la salute di Domenico (come don Bosco aveva temuto fin dal primo momento) deteriorò rapidamente. Don Bosco lo rimando in famiglia una prima volta nel luglio del 1856, permettendogli di tornare in agosto per gli esami scolastici.
Domenico riprese l’anno scolastico regolare nell’ottobre 1856. Ma presto comparve una febbre ostinata, e uno sfinimento di forze che gli faceva passare frequenti giornate nel lettuccio dell’infermeria. Don Bosco andava sovente a trovarlo, e un giorno gli domando: «C’è qualcosa che ti farebbe piacere adesso?». Domenico guardava i muratori che lavoravano sul tetto di fronte e, tutto arso dalla febbre, rispose: «Mi piacerebbe bere l’acqua fresca nella mestola dei muratori».
Don Bosco non si mise a ridere come davanti alla stranezza di un ragazzo. Scese, sali sul tetto a prendere il secchio dei muratori, tornò nell’infermeria e con la mestola sgocciolante diede da bere a Domenico.
Nel febbraio del 1857 la tosse cominciò a tormentare Domenico, e don Bosco decise di mandarlo nuovamente dai suoi: «A casa ti sederai vicino al focolare, accanto a tua mamma, e la tosse ti passerà. Anche questa brutta febbre se ne dovrà ben andare». Domenico lo fisso con quegli occhi grandi e scosse la testa: «Io me ne vado e non tornerò più. Don Bosco, é l’ultima volta che possiamo parlarci. Mi dica: cosa posso ancora fare per il Signore?». «Offrirgli le tue sofferenze». «E cos’altro ancora?». «Offrigli anche la tua vita». II tono di don Bosco si era fatto grave: sapeva che quell’offerta sarebbe stata accettata.
A Mondonio, dove mamma e papà lo avvolsero nel loro affetto, il medico diagnosticò «infiammazione polmonare» (= polmonite). Ricorse al rimedio allora universale: cavar sangue dalle vene. Per dieci volte, da quel fragile corpo, la lancetta del chirurgo fece sgorgare sangue. Fu letteralmente dissanguato.
Si spense quasi all’improvviso il 9 marzo 1857, mentre parlava col papà e tentava invano di ricordare ciò che il parroco gli aveva detto poche ore prima.
Don Bosco ristampò tante volte la vita di Domenico, e ogni volta che correggeva le bozze non riusciva a frenare le lacrime.
Papa Pio XII lo dichiarò santo il 12 giugno 1954. Il primo santo di 15 anni.
Ai fini della beatificazione la Chiesa cattolica ritiene necessario un miracolo: nel caso di Domenico Savio ha ritenuto miracolose le guarigioni di Maria Consuelo Adelantado Moragas e Albano Sabatino.
Il 1º marzo 1936, a Barcellona, la sedicenne Maria Consuelo Adelantado Morgas, allieva dell’oratorio delle figlie di Maria Ausiliatrice, giocando a palla cadde in malo modo, infortunandosi gravemente al braccio sinistro. Si rivolse inizialmente a un praticone, suo parente, che peggiorò la situazione.
Interpellato successivamente un medico, il dottor Pamarola, fu sottoposta a una radiografia, che evidenziò una duplice frattura del gomito con dislocazione di frammenti ossei e ulcerazione dei tessuti.
Il 22 marzo la giovane raccontò di aver visto in sogno il cardinale Giovanni Cagliero – un quadro del quale era esposto nell’oratorio delle suore – che la invitava a recitare una novena a Domenico Savio, promettendole la guarigione del braccio nella giornata del venerdì successivo. Il 23 marzo la ragazza, inizialmente scettica essendo cresciuta in una famiglia lontana dalla religione, spinta dalla sofferenza iniziò la novena: alle quattro di notte dell’atteso venerdì, improvvisamente non provò più alcun dolore e si accorse che il braccio era sgonfio, privo di ulcerazioni, e poteva usarlo normalmente.
Il processo canonico confermò l’improvvisa e completa guarigione, scientificamente inspiegabile, che papa Pio XII dichiarò miracolosa l’11 dicembre 1949, insieme a quella di Albano Sabatino, un bambino di sette anni di Siano, in provincia di Salerno, guarito in modo improvviso, completo e duraturo da una gravissima setticemia con broncopolmonite bilaterale, accompagnata da nefrite acuta emorragica e meningite settica, la cui guarigione era stata attribuita all’intercessione di Domenico Savio.
I miracoli ufficiali che portarono il beato Domenico Savio alla santificazione furono sanciti dal decreto promulgato il 4 maggio 1954 firmato CAIETANUS Card. CICOGNANI, S.R.C. Praefectus che riporta: “[…] Rev.mi Cardinales, Officiales Praelati Patresque Consultores suam quisque affirmativam protulit sententiam, quam Beatissimus Pater attente auscultavit ratamque habuit. quare edixit: Constare de istantanea perfettaque sanatione cum Mariae Gianfreda Poercelli ab anhaemia acuta ob intraperitonealem haemorrhagian, tum Antoniae Micelli Miglietta a sinusite maxellari purulenta chronica riacutizzata dextera”.
La canonizzazione avvenne il 12 giugno 1954 con papa Pio XII. La cerimonia viene riportata dall’Osservatore Romano n. 136 del 13 giugno 1954, che così scrive a pagina 3: “…Lo stendardo di Domenico Savio lo rappresenta da una parte genuflesso dinanzi alla Vergine; dall’altra mentre conferma dinanzi a San Giovanni Bosco i suoi propositi di vivere santamente. Ed ecco i due miracoli riconosciuti per la Canonizzazione: il primo è avvenuto nella persona della signora Maria Porcelli Gianfreda, guarita istantaneamente da mortale anemia, conseguente a gravissima emorragia interna; il secondo è avvenuto nella persona della signora Antonia Micelli Miglietta, residente a Lecce, risanata da sinusite mascellare purulenta riacutizzata ed aggravata dalla presenza di una massa di concrezioni occludenti la fossa nasale destra.”.




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