Cinema – Film – La Douleur drammatica pellicola di Emmanuel Finkiel

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La douleur è un film drammatico francese di Emmanuel Finkiel, con Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Grégoire Leprince-Ringuet.

La Douleur è il diario di un’attesa, il racconto lacerante di un’assenza, il viaggio interiore di una donna che attraversa la violenza della Storia e dei sentimenti. Candidato per la Francia ai prossimi Academy Awards, e osannato dalla stampa francese, sarà in sala dal 17 gennaio distribuito da Valmyn e Wanted. Nella Francia del 1944 occupata dai nazisti, Marguerite, una giovane scrittrice di talento, è un attivo membro della Resistenza insieme a suo marito, Robert Antelme. Quando Robert viene deportato dalla Gestapo, Marguerite intraprende una lotta disperata per salvarlo. Instaura una pericolosa relazione con Rabier, uno dei collaboratori locali del Governo di Vichy, e rischia la vita pur di liberare Robert, facendo imprevedibili incontri in tutta Parigi, come in una sorta di gioco al gatto e al topo. Lui vuole veramente aiutarla? O sta solo cercando di cavarle informazioni sul movimento clandestino antinazista? La fine della guerra e il ritorno dei deportati dai campi di concentramento segnano per lei un periodo straziante e danno inizio a una lunga attesa, nel caos generato dalla liberazione di Parigi. Scritto nel 1944 ma poi pubblicato nel 1985, “La douleur” (in Italia pubblicato da Feltrinelli col titolo Il dolore) è un romanzo autobiografico. Marguerite Duras descrive il periodo difficile che trascorse nell’attesa del ritorno del suo amato marito Robert Antelme, membro della Resistenza francese. «Questa donna che attende il ritorno del marito dai campi di concentramento – dichiara il regista Finkiel – faceva eco alla figura di mio padre, una persona che aspettava sempre. Anche quando ebbe la certezza che la vita dei suoi genitori e di suo fratello era finita ad Auschwitz […] Lessi il libro per la prima volta a 20 anni. Ritornando a questa storia trent’anni più tardi per farne un adattamento cinematografico, ho provato la stessa indicibile commozione che provai alla prima lettura. Lo scopo di questo film è quello di rivivere quell’emozione lungo tutto il dispiegarsi degli eventi…»
Il regista aggiunga altre considerazioni sulla pellicola. Lessi per la prima volta “La Douleur” a 20 anni. Ritornando a questa storia 30 anni più tardi per farne un adattamento cinematografico, ho provato la stessa indicibile commozione che provai alla prima lettura. Lo scopo di questo film è quello di rivivere quell’emozione lungo tutto il dispiegarsi degli eventi.
Il punto di partenza è stato inevitabilmente la mia esperienza personale, anzi, quella di mio padre, che vide i propri genitori e suo fratello più piccolo, arrestati nel 1942, non tornare mai più. Per tantissimi anni, in modo del tutto irrazionale, li abbiamo aspettati. Un’attesa, la nostra, priva del minimo barlume di speranza. Aspettavamo per il solo gusto di aspettare: attesa e assenza erano i fulcri dell’avvenire. E da bambino non capivo perché sempre a luglio accendevamo una luce notturna in un angolo dell’appartamento. Per molti anni nessuno mi spiegò mai il perché, lasciando che la mia fantasia e la mia immaginazione vagassero libere. Il racconto di Marguerite Duras fornisce una descrizione unica sul tema dell’attesa. La prima volta che lo lessi, vi riconobbi subito dinamiche a me familiari, finalmente messe per iscritto. In quel periodo non avrei mai azzardato l’adattamento cinematografico di un libro che finì direttamente nella lista dei miei libri sacri. Ciononostante, sono consapevole che la lettura de “La Douleur” fu alla base della scrittura del mio primo film, “Voyages”, anche questo incentrato sull’assenza e l’interminabile attesa di un ritorno, sulla fantasia che potrebbe esserci un ritorno, sull’impossibilità di vivere in un presente in cui ogni luogo, ogni città, ogni strada è popolata da fantasmi. Eppure, oggi eccomi qui ad affrontare proprio quel testo sacro. Le emozioni provate ora non sono diverse da quelle che mi tormentavano durante tutti quegli anni passati. Il libro si chiude con una straziante presa di coscienza: che una donna sopravvissuta solo nell’attesa del ritorno del proprio marito, scopre di non desiderarlo più una volta che lui arriva a casa. Per tutto il tempo della sua assenza, lo aveva tenuto in vita con fedele devozione, ma il suo amore era durato soltanto per il periodo della sua assenza. Inevitabilmente, i ricordi di tutto ciò che avevo visto e sentito all’interno della mia famiglia per anni vennero a galla. Fu questo, ora lo so, che mi commosse fino alle lacrime tutti quegli anni addietro: la crudele presa di coscienza che Robert moriva due volte, in un campo di concentramento e di nuovo tornando a casa da una moglie che non lo amava più.
Ho deciso di raccontare una storia ambientata tra il 1944 e il 1945. La mia eroina non è la Marguerite Duras cinquantenne, che rilegge taccuini dimenticati, ma una giovane donna di 32 anni che cammina per le vie di Parigi, per poi rinchiudersi nel suo appartamento in attesa di un marito che potrebbe tornare, o non tornare mai più. Mi sono concentrato su due dei racconti tratti dalla raccolta intitolata “La Douleur”, quello che dà il titolo alla raccolta, ambientato nell’agosto del 1944 dopo la Liberazione di Parigi, e quello intitolato “Rabier”, ambientato subito prima della liberazione, durante le ultime settimane dell’occupazione tedesca. La protagonista passa dall’essere una ribelle combattente in una città occupata dai nazisti all’essere la personificazione della disperazione nelle poche settimane di festeggiamenti che seguono la Liberazione. Fino a che, alla fine, si rinchiude in un appartamento dove ispeziona i meandri remoti della sua stessa pazzia. La narrazione è divisa in due parti, si dipana lungo due archi temporali, che si intersecano costantemente, fino a incastrarsi con gli altri archi temporali mutevoli e immaginari che tormentano gli ultimi momenti di attesa di Marguerite in quell’appartamento.
Parigi è un personaggio centrale ne “La Douleur” di Duras, rappresenta il collaborazionismo con i nazisti, la lotta e la paura. Con le sue folle allegre e chiassose e la sua falsa apparenza di vittoria primaverile, Parigi finisce poi col divenire una paradossale scenografia del dolore. È una città che pugnala chi è in attesa del ritorno dei propri fantasmi ai luoghi del cuore. Le sue vittime sono le persone per cui la guerra non può finire e non finirà mai. L’alba primaverile non porta calore alle persone come Marguerite, persone che si aggrappano alle ombre, mentre gli altri ballano in strada impegnati a non ricordare, e che gridano proprio contro quell’atto del dimenticare. Parigi è una città a sé. Parigi rappresenta il tempo della guerra e la libertà in marcia. Parigi rappresenta gli altri con la loro chiassosità, gli altri e le loro lacrime, le loro risa, la loro codardia, la loro paura e la loro gioia.
Che cosa è esattamente il douleur ne “La Douleur”? Un essere non uno, ma due. Cosa significa esattamente douleur ? Tormento, dolore, sofferenza. Forse tristezza. Il douleur ne “La Douleur” a cosa è collegato esattamente? All’attesa e alla paura che Robert possa essere morto, massacrato? Che possa essere stato trattato come gli ebrei durante il genocidio? Il dolore rappresenta il desiderio di subire la stessa cosa subita da qualcun altro? O il senso di colpa, forse, per essere ancora in vita? O un sentimento ancor più complesso e difficile da confessare? Sì, è un mix di tanti sentimenti contraddittori e inquietanti: “un tremendo disordine delle facoltà mentali”. Naturalmente, ancor prima dell’arresto di Robert, Marguerite e Dionys intrattenevano una relazione. Quando Robert ritorna, Marguerite non lo ama più. Anzi, magari non lo amava più già da svariati mesi. Così poi quasi si arrende ad amare qualcuno che non c’è, e alla fantasia di un uomo che tornerà a casa. Ciò che importa è la sua assenza e la sofferenza come sostituto del vero amore. Forse è questo il senso peccaminoso della parola douleur: un gioco condotto a uso e consumo pubblico e privato, una bugia che Marguerite racconta a se stessa, una forma di malafede identificata soltanto molti anni più tardi, durante una rilettura, quando il sotterfugio, finalmente, viene compreso. Forse. In alcune scene ho usato un doppio, dando a Marguerite la possibilità di agire e di osservarsi mentre agisce. L’altra Marguerite diviene la spettatrice delle azioni della prima. Non è lei la persona che, molti anni più tardi, riscoprirà quegli avvenimenti in un taccuino ritrovato. Non è lei la scrittrice. Lei è una seconda Marguerite che appartiene al periodo degli avvenimenti, fredda di fronte al suo stesso eccessivo atto isterico. E forse, dopo tutto, “La Douleur” non è altro che assenza di douleur, sofferenza per l’assenza del dolore e sofferenza del non soffrire abbastanza. O forse stiamo andando oltre? È una lettura contorta? Non siamo noi tutti, sempre, attraversati da sentimenti paradossali? Che rivelano la qualità densa e insondabile della natura umana? L’una cosa che conta, direi, è che il termine douleur è un concetto complesso, difficile. Complessità che deve rimanere intatta nel cuore del nostro progetto. Più che mai, l’dea è quella di raccontare la verità. Primo Levi e Robert Antelme dissero la verità. Parlarono di complessità e colpa in relazione ai campi della morte. Una complessità presente anche nelle persone che aspettavano che qualcuno facesse ritorno a casa, in quelle persone che dovevano vivere nell’attesa.
Da membro della Resistenza francese, Robert sarebbe stato spedito in un campo di concentramento e poi sarebbe ritornato con la prima o la seconda ondata di trasporti verso casa. Ma lui ritorna a casa per un’altra via, allora sconosciuta alla maggioranza delle persone. A Robert accadde la stessa cose che successe agli ebrei. Quindi, vista in questo modo, l’attesa del ritorno di Robert a casa rappresenta la scoperta della Soluzione finale. Duras conclude la sua narrazione con queste parole: “Robert non morì in un campo di concentramento”. Allora, non esisteva l’espressione “campo di morte”. Né tantomeno l’espressione “campo di sterminio”. Non si parlava di morte da asfissia per gas. La linea politica di De Gaulle fu quella di evitare di fare pubblicità a quello che era successo e quindi di calare un velo sul destino degli ebrei. Gettare quel velo era un ordine quotidiano: significava dimenticare. Dimenticare Robert, nascondere il vero 8 motivo della sua scomparsa. Ed è proprio questa scelta politica del non riconoscere ciò che era accaduto (che alimenterà le future fantasie negazioniste) che è la causa di oblio, dolore, tristezza, tormento: douleur. Il tempo viene vissuto solo come durata o, più precisamente, come percezione del suo stesso trascorrere. Marguerite vaga nel suo appartamento e per le vie di Parigi sentendo il peso di ogni secondo. Il tempo dell’immaginazione combina presente e passato, memoria e fantasia e a volte cambia il condizionale in un congiuntivo: potrebbe tornare a casa; se dovesse tornare a casa. Il tempo è un assassino. La forma che assume il tempo nel mondo esterno e che viene vissuta come imposizione sul mondo interiore. I mesi passano. I campi vengono liberati. A Parigi arriva la primavera. Eppure Robert non è a casa. Più il tempo passa, più la certezza della sua morte sembra ineludibile. E non è tutto. Arriverà un tempo in cui non si avrà tempo per chi è stato nei campi, non si avrà tempo per la realtà del genocidio, né per il ricordo. Perché tagliare il ritorno a casa di Robert e l’ultimo quarto del racconto originale? Per due motivi. Il primo è molto semplice ed era inevitabile. Non esiste possibilità di rappresentare un sopravvissuto ai campi di concentramento senza mentire. Il secondo ha a che fare con i finali. Marguerite sa di non amare più suo marito. Per questo il nostro racconto deve terminare quando Robert sta per entrare nell’appartamento, nel preciso istante in cui è arrivato a casa ma non ha ancora fatto la sua comparsa: si finisce per amare chi è andato via; chi ritorna sarà maledetto in eterno. È una storia d’amore!




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