Storia – Il processo di Norimberga e le sue anomalie

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Norimberga.  A Norimberga il processo agli alti gerarchi nazisti ebbe inizio il 20 novembre 1945, ma già l’udienza di apertura si era svolta il 18 ottobre precedente a Berlino. Dal 20 novembre 1945 al 31 agosto 1946 (ben 218 giorni!) il procedimento fu proseguito a Norimberga. La Corte era presieduta dal giudice britannico lord Geoffrey Lawrence. I capi nazisti, i “vinti”, erano sul banco degli accusati nelle vesti di imputati; i “vincitori” (USA, Francia, Gran Bretagna ed URSS) erano invece nelle vesti di giudici e della pubblica accusa.

L’idea di processare i criminali nazisti venne già ufficializzata nell’ottobre del 1943, quando i ministri degli Esteri di Gran Bretagna, USA e URSS si incontrarono a Mosca; qui venne emanata una dichiarazione importante, la quale prevedeva, tra l’altro, che i criminali di guerra tedeschi fossero puniti per una “decisione comune” degli Alleati. Questa decisione comune fu discussa a Londra, a partire dal giugno 1945. L’accordo firmato l’8 agosto (Accordo di Londra) istituiva il Tribunale Militare Internazionale che doveva processare i principali criminali del nazismo.

L’accusa iniziò il suo lungo lavoro che si protrasse fino al marzo dell’anno seguente; durante questo periodo venne ricostruita, in tutti i suoi più terribili particolari, la storia del nazismo. Ciò che tutti conosciamo venne rivelato per la prima volta a Norimberga, attraverso la costruzione dell’accusa con prove documentarie e testimonianze. Furono ascoltati circa 350 testimoni, esaminate circa 200.000 dichiarazioni giurate, 100.000 documenti e, soprattutto, proiettati i filmati dei lager nazisti dopo la liberazione dei campi.

Una prova che fu molto discussa in seguito, fu il documento PS-386, il “protocollo di Hossbach”. Costui era un aiutante di Hitler che stilò un rapporto di un preteso discorso del 5 novembre 1937, nel quale il Fuhrer rivolgeva ai suoi gerarchi più importanti le sue pretese di un Lebensraum, la famosa teoria dello “spazio vitale” mutuata dal geografo tedesco Ratzel e adattata alle mire espansionistiche del nazismo. Ciò rappresentava la prova della politica aggressiva adottata da Hitler e messa in pratica dai suoi gerarchi. Ma, come ha scritto Carlos W. Porter nel suo “Not guilty at Nuremberg” (1996), il documento era soltanto una fotocopia, manipolata più volte, dell’originale manoscritto di Hossbach, mai approvato da Hitler, e perlopiù scritto a memoria 5 giorni dopo la riunione. Si trattò dunque di una prova insufficiente che però fu lo stesso considerata attendibile. Si venne poi a conoscenza dello stratagemma per giustificare l’invasione della Polonia da parte dell’esercito tedesco, invasione che costò lo scoppio del secondo conflitto mondiale: alcuni criminali condannati a morte erano stati uccisi con un’iniezione e poi vestiti con uniformi dell’esercito polacco per essere abbandonati in una stazione radio tedesca. Questo tranello sarebbe stato la prova dell’aggressione polacca.

Prova inconfutabile degli orrori della dominazione nazista in Europa fu il diario di Hans Frank, un documento di ben 12.000 pagine nelle quali si parlava di campi di concentramento, di antisemitismo, di sterminio ecc. Fu lo stesso Frank a consegnare il suo diario agli americani. Poi c’erano gli ordini di Himmler per la cosiddetta “soluzione finale”, cioè lo sterminio della razza ebraica ed anche delle altre razze considerate “inferiori”, che il Reichsfuhrer-SS aveva impartito nell’estate del 1941 all’allora comandante di Auschwitz Rudolph Hoess (vedere sotto circa la sua deposizione). Himmler ebbe la diretta responsabilità della deportazione e dello sterminio, attuati attraverso l’ufficio centrale di sicurezza del Reich diretto dal generale Reinhard Heydrich (sostituito da Kaltenbrunner alla sua morte, nel giugno del ’42, per mano di patrioti cechi ) e in particolare grazie al lavoro del colonnello Eichmann, responsabile della caccia agli ebrei.

Già nel luglio del 1941 Goring preparò una direttiva in cui incaricava Heydrich di risolvere la questione ebraica nella sfera di influenza tedesca in Europa. In poche parole, significava pulizia etnica. Il 20 gennaio 1942 Heydrich si incontrò con altri 14 alti funzionari dei ministeri tedeschi (tra cui Eichmann, che preparò la riunione, e Muller) in una residenza tranquilla, lungo un lago a Wannsee (vicino Berlino). La riunione era segretissima e il suo scopo era quello di dare una soluzione al problema ebraico. E la soluzione fu: sterminare undici milioni di persone in tutta Europa. Del cosiddetto “Protocollo di Wannsee”, è sopravvissuta una sola trascrizione che fu scoperta da agenti segreti americani nascosta al ministero degli Esteri tedesco, nel 1947. La maggior parte delle deportazioni ebbe luogo tra l’estate e l’autunno del 1942, ma già a partire dal 1941 gli ebrei tedeschi venivano deportati nei ghetti in Polonia e nelle città sovietiche occupate. Successivamente vennero deportati nei campi di concentramento, così come stabilito alla conferenza del Wannsee; alcuni erano già esistenti prima della guerra, altri vennero appositamente costruiti, soprattutto in Polonia, per assolvere alla funzione di sterminio. Vi confluirono gli ebrei provenienti dai ghetti vicini, come il famoso ghetto di Varsavia, ma anche da tutti i paesi europei occupati dai nazisti nel loro “spazio vitale”.

I bambini, gli anziani e tutti gli inabili al lavoro venivano direttamente uccisi nelle camere a gas; gli altri invece erano costretti a lavorare nei campi e, una volta divenuti inadatti alla produzione per le terribili situazioni in cui si trovavano, venivano eliminati anch’essi.
Ma la testimonianza più sconvolgente dello sterminio degli ebrei fu quella resa da Rudolph Hoess, che dal 1940 al 1943 era stato comandante di Auschwitz-Birkenau, il più grande e tristemente famoso lager nazista, situato in Polonia nell’Alta Slesia. Hoess era stato chiamato dalla difesa a testimoniare il 15 aprile 1946, allo scopo di scagionare Kaltenbrunner dall’accusa di complicità nel genocidio. La sua confessione è stata raccolta nel documento 3868-PS e presentata al processo durante la sua deposizione. Egli valutò almeno 2.500.000 di vittime uccise nelle camere a gas, uomini, donne e bambini i quali corpi vennero fatti sparire attraverso i forni crematori.

Un altro mezzo milione soccomberono a fame e malattia, il che fa un totale di circa 3.000.000 di morti, cifra che rappresentava circa il 70 o 80 percento di tutte le persone che vennero spedite ad Auschwitz come prigionieri. Di questi, 20.000 furono prigionieri russi di guerra, circa 100.000 ebrei tedeschi e poi il resto fu costituito soprattutto da ebrei provenienti dall’Olanda, Francia, Belgio, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Grecia ed altri paesi. Hoess raccontò della sua visita a Treblinka per scoprire come venivano eseguiti i loro stermini. Il comandante del campo gli disse che ne aveva liquidati 80.000 provenienti dal ghetto di Varsavia usando del monossido di carbonio, ed Hoess affermò che i suoi metodi non gli sembrarono molto efficienti. Così quando preparò lo sterminio ad Auschwitz, usò il Zyklon B., che era un acido prussico cristallizzato che, da una piccola apertura, veniva fatto cadere in grandi camere a gas camuffate da docce, capaci di contenere fino a 2.000 persone. I prigionieri morivano nel giro di pochi minuti, dopo di che, passata circa un’ora, si aprivano le porte e venivano rimossi i corpi per eliminarli nei forni crematori. Perfino l’oro dei denti dei cadaveri veniva rimosso per essere poi fuso con anelli, bracciali. Hoess riferì anche dei maltrattamenti e delle sevizie che subivano gli internati, i quali anche se non venivano inviati nelle camere a gas, andavano incontro alla morte per fame, per epidemie o anche a causa degli esperimenti medici “dal vivo” del famigerato dottor Joseph Mengele.

Il 30 settembre si arrivò al giudizio ed il giorno dopo, 1 ottobre 1946, ci fu la sentenza. Furono pronunciate undici condanne a morte: Bormann (in contumacia), Frank, Frick, Goring, Jodl, Kaltenbrunner, Keitel, Ribbentrop, Rosenberg, Sauckel e Seyss-Inquart. Hess, Funk e Raeder furono condannati all’ergastolo, Speer e Schirac a vent’anni di reclusione, Neurath quindici e Donitz dieci. Papen, Fritzsche e Schacht furono assolti. La data delle esecuzioni era prevista per il 16 ottobre; il giorno prima Goring si suicidò con una capsula di cianuro di potassio. La provenienza della capsula, così come il suo nascondiglio, rimane un mistero. I cadaveri degli alti gerarchi nazisti, compreso quello di Goring, furono cremati e le ceneri vennero sparse in un fiume imprecisato della Germania.

Come ha scritto lo studioso John Man (“Norimberga” in Storia del mondo contemporaneo, V vol.), il processo fu criticato da molti giuristi in quanto le prove erano state scelte in modo da avvalorare la tesi della colpevolezza, mentre i documenti che avrebbero condannato gli Alleati furono negati alla difesa o non furono presi in considerazione. Ad esempio, i tedeschi furono accusati dell’aggressione alla Polonia nel quadro del complotto nazi-sovietico i cui patti segreti, che vennero alla luce a Norimberga, riguardavano la spartizione della Polonia tra i due paesi (e quindi anche l’Unione Sovietica era complice!). Ma nessun russo fu mai processato, così come nessun italiano e nessun Alleato.

Si può quindi dire che il processo di Norimberga, il primo compiuto da un Tribunale Internazionale nella storia dell’umanità, non fu molto valido dal punto di vista giuridico. Ma una cosa è certa: i crimini commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale sono stati talmente enormi ed atroci da non poter rimanere impuniti ma possiamo discutere sul tipo di punizioni inflitte.

Su questo famoso processo si è versato un fiume d’inchiostro.
“Secondo me – scrive Indro Montanelli (Corriere d. S. del 21-04-2001)- era un processo sbagliato. Non perché gli imputati non meritassero la qualifica e il trattamento di criminali, quali poi ebbero. Ma perché, pronunciata da un tribunale di nemici vincitori, la condanna non poteva non apparire al popolo tedesco che una vendetta che li costringeva alla solidarietà morale coi condannati”.

Per capire quale offesa per la giustizia e la civiltà sia stato Norimberga è sufficiente leggere la relazione di Seidler, pag 56-57 del libro-relazione The road to Nuremberg, di Bradley F. Smith (ed Deutsch, Londra 1981) (che riportiamo anche in altre pagine: “Obbedire o non combattere”):
“Fu possibile il processo per il marchingegno col quale la Gran Bretagna e gli Stati Uniti modificarono temporaneamente le loro leggi di guerra laddove queste consentivano ai militari accusati di reati di guerra di difendersi adducendo la giustificazione di aver dovuto obbedire a un ordine di un Capo Supremo. Quella temporanea modifica fu apportata, ammisero i responsabili del War Department “per evitare che i criminali di guerra tedeschi potessero difendersi appellandosi alle leggi esistenti in Inghilterra e in America”.”


Il giorno successivo a quello della sentenza così scriveva la Chicago Tribune: ” La triste verità è che nessuno dei vincitori è innocente dei crimini che sono stati attribuiti agli sconfitti”.

William L. Hart, giudice alla Corte suprema dell’Ohio: “Sia la Costituzione del tribunale di Norimberga che i processi che ne seguirono furono un condensato di frode e illegalità. Degli atti commessi da un militare in guerra deve rispondere il suo stato e non lui individualmente” (Chicago Tribune del 2 ottobre 1946) (C’era stata la sentenza, ma non ancora l’impiccagione).

“A Norimberga ci siamo piegati al desiderio di vendetta e abbiamo creato un precedente che consentirà ai vincitori di guerre future di vendicarsi anche loro nello stesso modo sugli sconfitti” (Ulisses Grant, generale americano).

“E’ deplorevole che dei vincitori introducono una legge retroattiva per condannare gli sconfitti” (Fagernas, comandante in capo delle forze Finlandesi).

“Il tribunale di Norimberga non può essere considerato un tribunale in quanto nato da considerazioni politiche. In quei processi la giustizia venne accantonata e si offese la tradizione giudiziaria britannica e americana.” (Hugh Champion de Crespigny, comandante del XXI gruppo delle Royal Air Force  britannica, 1943-1944)

“I processi di Norimberga contro ufficiali di una nazione sconfitta che avevano ubbidito a degli ordini offendono la giustizia” (Orvil A. Anderson, vice comandante della VII forza aerea americana, 1944-1946).

“I processi di Norimberga consentirono ai vincitori di punire gli sconfitti per aver fatto il loro dovere di soldati. Pur non avendo particolare simpatia per quegli imputati, riconosco che avevano il dovere di ubbidire agli ordini” (Michael Francis Doyle, giudice del tribunale internazionale dell’Aja.)

Ma chi meglio di un Presidente degli Stati Uniti, come John Kennedy che così si espresse in un suo libro (Profiles un courahe, di John Kennedy, Ed Harper & Row, New York, 1956)
“La costituzione degli Stati Uniti, che non consente l’introduzione di leggi retroattive, non è una raccolta di parole soggette a libera interpretazione: é il fondamento della nostra giustizia. E’ cosa disgustosa che a Norimberga si sia venuto meno ai nostri principi costituzionali per punire un avversario sconfitto. Queste conclusioni sono condivise, ritengo, ma molti americani di oggi. E furono condivise, sia pure riservatamente, da molti americani del 1946. Un processo tenuto dai vincitori a carico dei vinti non può essere imparziale perchè in esso prevale il bisogno di vendetta. E dove c’è vendetta non c’è giustizia. Nei processi di Norimberga noi accettammo la mentalità sovietica che antepone la politica alla giustizia, mentalità che nulla ha in comune con la tradizione anglosassone. Gettammo discredito sull’idea di giustizia, macchiammo la nostra costituzione e ci allontanammo da una tradizione che aveva attirato sulla nostra nazione il rispetto di tutto il mondo”. E’ da ricordare che se prendiamo alla lettera il primo e il secondo capo d’accusa fatto ai tedeschi, l’aggressione alla Polonia fu fatta dai nazisti insieme ai russi.

Un punto che ha sempre suscitato controversie è quello inerente la possibilità o meno di disubbidire agli ordini da parte dei militari.

Il sistema militare si basa principalmente sulla disciplina, e a sua volta la disciplina si basa sull’obbligo assoluto di obbedienza. I più alti gradi militari di tutte le nazioni hanno riconosciuto questo principio. Un esempio arriva dal maresciallo inglese lord Bernard Montgomery che, grazie alle sue esperienze nella seconda guerra mondiale, il 26 giugno 1946 a Porstmouth, in occasione di un discorso pubblico, si espresse in modo particolarmente chiaro:

“Quale forza al servizio della nazione, l’esercito è al di sopra della politica e ciò deve rimanere cosa immutabile. La sua devozione è per lo stato e il soldato non ha facoltà di modificare tale devozione a causa delle sue vedute politiche. L’esercito non va inteso come assieme di individui ma come arma combattente, formata nella disciplina e guidata dai comandanti. Come l’essenza della democrazia è la libertà, così l’essenza dell’esercito è la disciplina. Al riguardo nulla conta l’intelligenza del soldato. L’esercito abbandonerebbe la nazione al suo destino se non fosse abituato a obbedire immediatamente agli ordini. Il difficile problema di ottenere un’obbedienza assoluta agli ordini, in un regime democratico, può essere risolto inculcando tre principi basilari: 1. La nazione è un qualcosa per cui vale la pena di combattere; 2. L’esercito è l’arma necessaria per la nazione; 3. E’ obbligo del soldato obbedire senza fare domande a qualsiasi ordine gli venga imposto dall’esercito, ovvero dalla nazione”.

Ma allora, quando può il soldato rifiutarsi di obbedire? In guerra spesso è difficile valutare se un ordine è legittimo ovvero illegittimo. Se un soldato è obbligato a dare esecuzione solo a ordini legittimi, allora è anche obbligato a valutare ogni ordine in base alla sua legittimità prima di darvi esecuzione, cosa che renderebbe impossibile l’immediata esecuzione dell’ordine e svuoterebbe il principio militare di ordine e obbedienza.
La conseguenza sarebbe la paralisi dell’organizzazione militare.

Il destinatario dell’ordine non può neppure fare dipendere l’esecuzione dell’ordine stesso da eventuali condizioni, ad esempio le difficoltà che si presentassero o i pericoli che l’esecuzione dell’ordine comporterebbe.
(ci mancherebbe che ogni soldato in guerra si mettesse a valutare il proprio rischio. Ndr).

Nella seconda guerra mondiale i limiti erano stabiliti:
1. Dalle leggi nazionali;
2. Dalle norme di diritto internazionale (convenzione dell’Aia del 1907 sulle leggi e sugli usi di guerra e convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei feriti e dei prigionieri);
3. Dal diritto consuetudinario delle nazioni.

Da ciò dovevano farsi derivare le modalità di comportamento di coloro che davano gli ordini e di coloro che gli ordini dovevano eseguire.
Quando, nella seconda guerra mondiale, un superiore ordinava a un subordinato di fucilare degli ostaggi, l’ordine poteva essere legittimo o illegittimo, a seconda se questi erano o meno dei civili che si erano resi responsabili di atti di sabotaggio (in altra sede parleremo delle rappresaglie).

Facciamo un esempio: quando un comandante di un sottomarino, dopo l’affondamento di una nave nemica, ordina al suo sottotenente di distruggere il relitto al quale si sono aggrappati alcuni naufraghi sopravvissuti, l’ordine inumano può essere considerato come istigazione all’omicidio, ma d’altra parte -risponderebbe il comandante- se la presenza del relitto evidenzia al nemico la presenza in zona del mio sottomarino, la distruzione totale di quel relitto può rappresentare un’azione, per quanto durissima e inumana, necessaria e pertanto legittima. Io nell’agire così salvaguardo la mia missione e anche la vita dei miei uomini.
(questo fatto accadde nella realtà – vedi “La tragedia della Laconia”. Furono in questo caso gli anglo-americani a bombardare un sottomarino tedesco che stava prestando aiuto ai naufraghi inglesi e italiani).

In questi casi è solo il superiore a decidere e valutare se il proprio ordine è legittimo o meno. Del resto al subalterno manca la conoscenza degli elementi essenziali per valutare il caso. Egli non può fare altro che partire dal presupposto che l’ordine del superiore è legittimo e pertanto è obbligato all’obbedienza. Deve ubbidire anche quando il superiore che impartisce l’ordine – sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista di fatto- è sbagliato, dal momento che il subalterno di norma non conosce le esatte circostanze dei fatti. Il subalterno può eseguire anche ordini illegittimi quando non è in grado di ravvisare immediatamente la illegittimità dell’ordine.
Spesso i componenti di un plotone di esecuzione, non sanno minimamente il perchè devono uccidere dei propri simili. Loro devono solo sparare dietro un ordine, non possono impietosirsi davanti a chicchessia.

L’obbedienza nel diritto penale militare tedesco.
Per impedire che un soldato potesse rifiutarsi di eseguire un ordine per vigliaccheria o paura, il codice militare tedesco, al paragrafo 49, equiparava tale violazione a una violazione di colpa: “La violazione di un obbligo di servizio per timore di un danno personale dovrà essere punita analogamente alla violazione di un obbligo di servizio per colpa”. Ma questa norma si riferiva unicamente agli ordini impartiti, per questioni di servizio, dai superiori diretti; non riguardava gli ordini del governo del Reich o del Comando Supremo.
Per tali ordini superiori infatti la situazione era ben diversa: Nel Terzo Reich non esisteva possibilità alcuna di giudicare o di fare giudicare leggi e decreti, ordinamenti giuridici o ordini. Con un comandante supremo (nel caso specifico Hitler) non era prevista alcuna istanza a riguardo. Ogni funzionario e ogni militare era obbligato a ubbidire, e così pure i giudici. Erano vincolati agli ordini che venivano loro impartiti, così come i procuratori di stato erano obbligati ad applicare le leggi in vigore. Chiunque si rifiutava poteva essere licenziato o punito severamente.
(Cadorna alla Prima guerra mondiale non volle nemmeno lui un tribunale che giudicasse la diserzione, ma a suo giudizio faceva eseguire subito le sentenze di morte con la fucilazione alla schiena dei codardi; e quando non li individuava, impartiva perfino ordini per una decimazione alla cieca dentro un reparto, colpendo perfino quelli che codardi non erano mai stati).

In Germania l’ordine di obbedienza valeva in modo particolare per gli ordini che provenivano dal Fuhrer. E detti ordini erano inviolabili sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista di fatto.
“Lo stato totale deve essere lo stato della totale presa di coscienza. Esso rappresenta la totale presa di coscienza di ogni singola nazione. Questa presa di coscienza annulla il carattere privato della singola esistenza.” (Ernst Forsthoffa).

Uno dei difensori durante il processo di Norimberga, il professor Jahrreis, spiegò: “Quando Hitler dava un ordine le autorità tedesche non avevano alcuna possibilità di rifiutarsi di obbedire, poichè in ogni stato dev’esservi un’istanza oltre la quale non si possa tornare indietro”. Del resto la corte di giustizia di Norimberga accolse questa opinione che “secondo la giurisprudenza germanica Hitler rappresentava non solo il legislatore supremo ma anche il giudice supremo”.
Senza la rimozione di Hitler (con un colpo di Stato o l’assassinio dello stesso) non si poteva ottenere la caduta di quello che era ritenuto un diritto immorale.

Ma abbiamo parlato solo della Germania e di Hitler. Ma vediamo anche
negli altri Stati che parteciparono alla guerra quali erano i principi.

In nessun stato democratico che abbia partecipato alla guerra, il principio della non responsabilità dei subalterni per le esecuzioni di ordini militari illegittimi, appare così chiaramente stabilito come nel diritto penale militare americano e britannico (ma questo prima del 31 ott. 1944 !!!!)

Il paragrafo 43 del “British Manual of Military Law” affermava: “Appartenenti alle forze combattenti che commettono violazioni alle norme riconosciute nella condotta della guerra, e che abbiano al riguardo ottenuto un ordine dai loro superiori, non sono considerati criminali di guerra e pertanto non possono essere condannati dal nemico nelle cui mani essi abbiano a cadere”.

Il Paragrafo 347 della Americana ” Rules of Land Warfare”, stabiliva: “Gli appartenenti alle forze combattenti non possono essere puniti per reati che abbiano commesso su ordine superiore o con il consenso di chi ha impartito l’ordine. Solo i comandanti che abbiano disposto tali atti, ovvero sotto la cui autorità tali atti siano stati commessi dalla loro truppa, potranno essere puniti dalle forze belligeranti nelle cui mani essi abbiano a cadere”.

Ma c’è da dire che entrambi le due rigide formulazioni corrispondevano alle norme in vigore nei paesi anglosassoni nel vigente diritto internazionale dell’epoca. Nel suo manuale “International Law”, al paragrafo 253, Lassa Francis Oppenheim stabiliva che: “Violazioni alle regole della condotta di guerra sono considerate reati solo se vengono commesse senza un ordine. Appartenenti alle forze combattenti che commettono delle violazioni su ordine dei loro comandi non possono essere considerati criminali di guerra e non possono essere condannati dalle forse nemiche. Le forze nemiche per contro possono attuare rappresaglie”.

Ma allora a Norimberga come si procedette?
Negli atti preparatori del processo, le due sopra precisate norme del diritto penale americano e britannico vennero modificate alla fine del 1944, al fine di non ostacolare la formulazione dell’art. 8 dello Statuto di Londra (statuto della corte internazionale di giustizia militare) dell’8 agosto 1945 (il processo si aprì il 20 novembre del precedente anno)

Così fu stabilito: “Il fatto che un imputato abbia agito su ordine del suo governo o di un superiore non può essere preso in considerazione come causa di esclusione dalla pena, ma può essere causa attenuante per la pena, se ciò appare comunque equo al tribunale”.

Quest’ultima formulazione venne ripresa dalla legge di controllo n.10 del 20 dicembre sempre del 1945 sulla punizione di persone che si siano rese responsabili di crimini di guerra, di crimini contro la pace o contro l’umanità, nell’ambito dell’Art. II (4b): “La circostanza che taluno abbia agito su ordine del suo governo o del suo superiore non è esimente dalla responsabilità per il reato. Essa comunque può essere considerata come causa per la riduzione della pena”. (vedi la pagina dedicata al processo)

Questa inversione di tendenza nella (nuova) definizione di obbedienza nei manuali britannici e americani, indubbiamente è stata motivata dall’intento di impedire ai difensori dei militari tedeschi accusati di crimini di guerra di fare riferimento alla legge dei due paesi ed aggrapparsi ad essa. E’ stata insomma una misura di natura politica, così come è stato anche ammesso dal professor Sheldon Glueck che fu proprio lui il promotore della modifica.
Così Glueck ebbe (poi) a specificare: “L’applicazione del principio della assoluta responsabilità, così come era previsto dalle norme americane e britanniche, avrebbe reso praticamente impossibile giudicare molti criminali di guerra tedeschi. Si rese perciò necessaria una nuova normativa più realistica che valesse per l’azione penale da condursi sia davanti ai tribunali nazionali sia davanti al tribunale penale internazionale. Per questo motivo le norme americane e britanniche vennero modificate“.

PERÓ: poi…… al termine del processo contro i criminali tedeschi di guerra, la modifica al “British Manual of Military Law” venne….. annullata. La nuova edizione dell’anno 1948 cancellò semplicemente la modifica introdotta nel 1944 e…. reintegrò il vecchio testo della legge”.

(la conferma di quanto detto sopra sulle modifiche della legge di guerra degli Stati Uniti (FM 27-10) nei punti in cui essa consente ai militari di difendersi in tribunale con la giustificazione di aver dovuto obbedire a un ordine superiore, si trovano nella pagine 57-58 del libro The road to Nuremberg, di Bradley F. Smith (ed. Deutsch, Londra 1981) che contengono integralmente le proposte di abrogazione fatte il 4 ottobre 1944, dal capo di divisione di guerra dell’ufficio del Iudge Advocate General, colonnello Archibald King), proposte che furono approvate il successivo 31 ottobre 1944, quando le precedenti leggi di guerra furono modificate. E questa modifica nel 1948 fu poi annullata).

Il processo di Norimberga si svolse comunque con questi principi nati solo in quella occasione. Gli altri processi che seguirono, su moltissimi ufficiali che in seguito a precisi ordini ricevuti avevano fatto fucilare degli ostaggi, si conclusero con delle assoluzioni. Come i subalterni di Kappler che i giudici a fine 1948 li dichiararono non punibili. E lo stesso Kappler fu condannato solo per i cinque in più e non per l’eccidio.

Inoltre ricordiamo come si espresse nel 1954, Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate in Europa e poi presidente degli Stati Uniti; un giudizio che assume particolare rilevanza:
“L’obbedienza agli ordini in guerra, da parte degli ufficiali, deve essere assoluta e non condizionata da scrupoli morali. L’esistenza stessa di un esercito dipende dalla pronta esecuzione degli ordini. Nemmeno per un secondo io avrei tollerato un atto di disubbidienza o di insubordinazione” (New York Times del 13 maggio 1954).

Il processo di Norimberga lasciò comunque una brutta eredità storica; ha creato una strana situazione nella quale ogni militare é tenuto a valutare rapidamente, sulla base di un proprio personalissimo codice morale, se un ordine appena ricevuto vada eseguito o respinto.
Se lo respinge può essere giustiziato dai suoi superiori; mentre se lo esegue ciecamente ma poi lui sfortunatamente cade in mano al nemico vincitore, finisce come al processo di Norimberga: impiccato comunque.

A proposito di questo processo, Benedetto Croce, in un discorso al Parlamento nel 1947, fece questa affermazione “Un tribunale costituito dai vincitori e non basato su norme preesistenti può solo definirsi strumento di vendetta e non di giustizia”.

André Chenier, ghigliottinato a Parigi durante il Terrore disse: “Tinta del sangue dei vinti ogni spada è innocente”.




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