Storie : quella Sicilia che proprio non ci piace

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La Sicilia per molti, troppi, è sempre stata sinonimo di mafia. Ancora oggi parlando della Sicilia molti ricordano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro gesta così rumorose ma così scomode che sono costate la vita ad entrambi e soprattutto l’abbandono di chi non doveva lasciarli soli. Ma la Sicilia è anche una splendida isola, una pagina della storia, un salvacondotto per i migranti, un territorio tutto da scoprire. Al Nord di questa isola vi sono i Nebrodi, famosi per la bellezza delle natura, per la fauna che li contraddistingue ma anche per un’attentato che ha fatto parlare il mondo e dal quale sono nati inquietanti interrogativi e nuove inchieste. La mafia ha le mani sulla carne o meglio il controllo dei territori per i pascoli, riscoprire l’abigeato o la macellazione clandestina o meglio la mafia ha da sempre interesse sugli allevamenti, l’agricoltura e i finanziamenti europei. Ma cerchiamo di andare con ordine avvalendoci della ricostruzione degli inquirenti degli ultimi mesi.
L’attentato del 18 maggio al presidente del Parco dei Nebrodi ha riportato alla luce la mafia dei pascoli, che all’inizio degli anni ‘90 sembrava sconfitta. Abigeato, truffe all’Ue, macellazione clandestina, carni infette che causano casi di brucellosi umana: così la mafia si è impadronita di un business da 16 miliardi all’anno.
La tensione è tornata alle stelle nel Messinese e non solo. Si teme che la mafia non solo non sia sparita da queste montagne ma, anzi, sia pronta a imbracciare le lupare per aprire il fuoco contro chi la combatte. Senza fare differenze fra «eroi borghesi» che fanno il loro dovere istituzionale sino in fondo (magari per 855 euro al mese come il presidente del Parco dei Nebrodi) o uomini in divisa. Insomma, la notte del 18 maggio si sono aperte ferite mai cauterizzate. Per Guido Lo Forte, procuratore capo di Messina, l’agguato «si inquadra in un contesto dove la “terza mafia” della provincia di Messina sta tentando di rialzare la testa». Sui Nebrodi esiste «una delle organizzazioni criminali tra le più antiche e pericolose — ha spiegato il magistrato parlando della mafia dei pascoli —. Dopo che i clan di Barcellona Pozzo di Gotto e di Messina sono stati colpiti in maniera forte dalle operazioni antimafia, i “Batanesi” e i “Tortoriciani” stanno cercando di recuperare terreno e spazi».

Così i capi di Cosa Nostra per ottenere milioni di euro con cui finanziare armi e rifornirsi di droga ora si «sporcano» le mani più con l’inchiostro utilizzato per compilare le carte bollate che con il sangue di chi non abbassa la testa. Così, hanno iniziato a «mungere» contributi regionali, statali ed europei invece delle mammelle delle mucche. Un «malaffare» che, per gli inquirenti, sarebbe diventato un vero e proprio «sistema» all’interno del Parco dei Nebrodi, il polmone verde più grande della Sicilia (tocca l’icona blu) con i suoi 86 mila ettari che abbraccia 24 Comuni e tre province (Catania, Enna e Messina). Un meccanismo che si è inceppato, nel 2013, con l’insediamento al Parco del nuovo presidente Antoci. Secondo gli inquirenti, lui rischia la vita proprio perché ha scoperchiato e rotto questo flusso di denaro «sporco» poiché ha ideato e fatto sottoscrivere un protocollo di legalità. Oggi le aziende che vogliono affittare i terreni del Parco devono obbligatoriamente fornire il certificato antimafia ottenuto dalla prefettura. Non possono più autocertificarsi neanche per bandi con importi inferiori a 150 mila euro. Così in poco tempo 23 aziende su 25 si vedono rifiutare la partecipazione alle gare e poi partono le prime revoche dei terreni per centinaia e centinaia di ettari. Aree su cui i clan ottenevano contributi attraverso i quali i ricavi, in percentuale, erano molto più alti di quelli dello spaccio di droga o delle estorsioni. Con rischi penali esponenzialmente più bassi.
Determinanti negli affari anche i contributi per la zootecnia: un vitello può valere 202 euro, una pecora vale 46 euro. «Solo in Sicilia fra il 2007 e il 2013 — prosegue il presidente che per il suo incarico riceve 855 euro al mese — i fondi stanziati da Bruxelles per lo sviluppo agricolo ammontano a circa 5 miliardi di euro». L’Unione Europea ipotizza che in Italia oltre 300 milioni di euro sarebbero stati oggetto di frode. Soldi che nella maggior parte dei casi sono finiti alla mafia e che i tecnocrati difficilmente potranno rivedere nei bilanci. Milioni di euro che in questi anni sono piovuti anche nelle campagne di Tortorici e Cesarò.

Contro questi loschi affari non è stato solo Antoci a voler ripristinare la legalità. Nel 2014, al commissariato di Polizia di Sant’Agata di Militello, con competenza in quasi tutti i comuni dell’area protetta, si insedia il vicequestore aggiunto Daniele Manganaro. Il commissario arriva da un altro grande centro rurale siciliano dove ha maturato esperienza sulla mafia dei pascoli e intuisce subito che anche nei Comuni del Parco c’è qualcosa di strano negli allevamenti. Si presentano troppi imprenditori agricoli che denunciano lo smarrimento di bestiame. Partono subito le indagini e, in pochi mesi, scopre che gli abigeati sono certamente tornati a essere un affare importante per la mafia ma teme che molti siano simulati. Il dirigente crea una squadra di investigatori con competenze diverse inserendo anche esperti chimici. Mettono sotto sigilli 20 macelli clandestini, denunciano decine di allevatori per maltrattamenti sugli animali. Scoprono che Cosa nostra ha messo gli occhi sul traffico di farmaci illegali proveniente dall’Est europeo. I poliziotti sequestrano infatti numerosi flaconi di un farmaco venduto clandestinamente, per poche decine di euro, da utilizzare al posto di un altro prodotto — legale in Italia — ma che costa quasi 10 volte tanto.
Il farmaco viene usato contro i parassiti degli animali e deve essere somministrato prima dell’arrivo dell’estate, con una sospensione di 180 giorni. Il problema è che il farmaco dell’Est è simile solo nel nome a quello costoso e per giunta, se viene mal utilizzato sugli animali, si sospetta che possa diventare cancerogeno una volta che quelle carni (o latte di capra) arrivano sulle nostre tavole. Gli inquirenti alzano il velo su un altro problema inquietante. Sui Nebrodi, riscontrano numerosi focolai di brucellosi e tubercolosi (il 55% degli allevamenti positivi di tutta la Sicilia si sono registrati in quest’area) e in meno di un anno sequestrano 450 capi di bestiame. Malgrado ciò, nella provincia di Messina vengono certificati 45 casi ufficiali di brucellosi umana. Una malattia particolarmente invalidante. Proprio per questo la task force, coordinata dal vicequestore Manganaro, intensifica i controlli. Operazioni che gli valgono il nomignolo di «squadra dei vegetariani». Per loro arrivano le prime minacce ma non sognano nemmeno di fermarsi e continuano a mettere a segno blitz sugli allevamenti irregolari e fanno aprire le porte del carcere ai ladri di bestiame e sigilli alle aziende.

Per la mafia dei pascoli, però, un animale malato non è un problema. Anzi, paradossalmente vale più di uno in salute perché nel primo caso ottiene contributi economici per la macellazione certificata ma poi li seziona sottobanco e li rivende a prezzi stracciati. Buttando sul lastrico gli imprenditori onesti che non possono applicare quei prezzi. Il problema arriva sul tavolo anche della procura della Repubblica di Patti, nel Messinese, che apre inchieste e invia avvisi di garanzia a due veterinari. Allarmi che fanno tuonare, il governatore Rosario Crocetta. «Abbiamo il sospetto di omessi controlli — spiega il presidente della Regione Sicilia — e va creato un sistema di rotazione che dovrà interessare tutto il personale». Così, il governatore ha istituito una commissione ispettiva, coordinata dal noto ricercatore Vincenzo Di Marco Lo Presti e composta da tre medici veterinari. Controlli e fari di legalità a tutto vantaggio delle centinaia di allevatori onesti dei Nebrodi, che con il sudore della fronte provano a mandare avanti le loro aziende. Lavoratori che troppo, spesso, si vedono sottrarre fondi e terreni preziosi dalla mafia. Magari, rischiando la vita ogni giorno perché portano i loro animali sui sentieri del Parco che i boss vogliono accaparrarsi.
Il problema dei pascoli nelle aree protette però non è un fenomeno siciliano. In Calabria ha subito intimidazioni anche il presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino. Altre minacce, in passato, erano arrivate ai presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio. In generale il comparto agricolo è oramai uno degli affari più lucrosi della malavita in tutta Italia.

L’hanno ribattezzata agromafia e, nel 2015, ha «fatturato» 16 miliardi di euro grazie a estorsioni, riciclaggio, truffe agli enti pubblici e sofisticazioni alimentari.
Una situazione delicata soprattutto per la salute poiché, ancora una volta, il dio denaro vale più della vita umana.




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