Atletica Leggera – Alex non si arrende

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Atletica Leggera – La difesa di Alex Schwazer guarda al futuro e l’intricato caso del marciatore italiano potrebbe approdare nelle sale della Corte internazionale dei diritti dell’uomo.

 

Il campione olimpico della 50 km di marcia a Pechino 2008 ieri si è visto respingere dal Tribunale federale della Confederazione elvetica la procedura d’urgenza per arrivare, prima alla sospensione e poi all’eventuale revoca della squalifica di otto anni inflitta dal Tas di Losanna nell’agosto 2016.

 

“Se sarà necessario ci rivolgeremo alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo”, ha precisato lo staff legale di Schwazer oggi in Tribunale per l’udienza di coordinamento dei nuovi prelievi disposti dal gip Pelino. Sarà di particolare interesse la documentazione che fornirà l’agenzia mondiale antidoping (Wada).

 

Molte cose della storia di Alex Schwazer, oro olimpico 2008 nella marcia, trovato positivo all’antidoping nel 2012 e poi nel 2016, non tornano. Come non tornano molte cose dello sport professionistico mondiale, macchiato da intrighi internazionali, complotti e misteriose manipolazioni dietro cui si muove un giro d’affari miliardario e l’esclusione della Russia dalle olimpiadi di queste ore è un esempio lampante di tutto questo (presto faremo l’analisi anche di questa storia di anti-sport).

 

Lo dicono le analisi del Ris dei carabinieri incaricati dal tribunale di Bolzano di accertare i contenuti delle provette di urina di Schwarzer custodite dalla Wada, l’agenzia mondiale antidoping, che con le sue analisi ha strappato le medaglie, la carriera e i sogni dell’atleta di Vipiteno.

I test effettuati dal comandante del Ris, il colonnello Giampietro Lago, su un centinaio di campioni prelevati a carabinieri, pazienti degli ospedali di Parma e atleti con le stesse caratteristiche di Alex Schwazer smentiscono che nelle urine ci possa essere una concentrazione di dna pari a quella trovata nelle provette consegnate al Ris, con molte resistenze, dai responsabili della Wada di Colonia.

 

Alex Schwazer sorprese il mondo con le sue vittorie e i suoi record. Finché alla vigilia delle Olimpiadi di Londra del 2012, fu trovato positivo all’antidoping; confessò piangendo in mondovisione e scontò l’esclusione dalle gare per quattro anni. Poi però il ragazzo è cambiato, si è rimesso in pista, ha vinto i mondiali a squadre e, allenato da Sandro Donati, paladino dell’antidoping, ha ottenuto la qualificazione ai Giochi di Rio 2016 e si preparava ad un grande ritorno.

 

Poi però la novità che non ti aspetti: un nuovo test a sorpresa, controverso per le modalità e per i primi risultati negativi, stabilì che Alex Schwazer aveva assunto testosterone, cioè si era dopato. La conseguente squalifica di otto anni cancellò il suo nome dallo sport.

 

L’atleta dichiarò: “I primi risultati delle analisi confermano la manipolazione. E sono sicuro che ci siano buone possibilità di arrivare ai responsabili. Tornare indietro è impossibile ma, tempi alla mano, mi sarebbero bastati due allenamenti tirati per vincere a Rio le prove da 20 e 50 chilometri. L’unica cosa che mi porto dietro sono le esperienze che ho fatto come vittima di questo complotto, per cui ho capito com’è fatto il mondo. Ma la mia storia non è finita”.

 

Deciso a proseguire è anche il suo avvocato, Gerhard Brandstaetter: “È chiaro che c’è stata una truffa ai danni di Alex. Chi è stato? Spetta alla giustizia accertarlo. Noi abbiamo scoperto che non c’è stata continuità nella catena di custodia dei campioni, e a Colonia, nei laboratori della Wada, abbiamo riscontrato mancanze formali e abbiamo dovuto combattere perché ci consegnassero le provette, una non era neanche sigillata. Non c’è ancora la prova ma ci sono fortissimi indizi che quell’urina sia stata manipolata”.

 

Cosa dice il genetista del caso di Yara

A fianco di Alex Schwazer c’è Giorgio Portera, il genetista che come consulente della famiglia di Yara Gabirasio ottenne, contro il parere della stessa procura di Bergamo, le ulteriori analisi che portarono all’individuazione di Massimo Bossetti. “La concentrazione di dna nelle urine di Alex” dice Portera “è molto più alta, fino a quindici volte, di quello che ci si aspetterebbe. Come scienziati siamo chiamati a dare una spiegazione”. Ma cosa significano i risultati del Ris? “Che quello di Alex è un caso molto strano. A questo punto le domande vanno girate a chi ha custodito quei campioni. D’altra parte i laboratori della Wada a Colonia non mi hanno fatto un’ottima impressione”.

A rigor di logica, scartando l’ipotesi che Alex Schwazer sia un alieno, restano in campo due possibilità: una contaminazione o una manipolazione volontaria. “In tutti i campioni abbiamo trovato solo il dna di Schwazer, quindi una contaminazione casuale è da escludere”.

Il problema è capire il perché di tutto questo.

Nostre conoscenze dirette appaiono certissime dell’innocenza dell’atleta azzurro ed il caso continua a far parlare di se grazie alla “resistenza” di Alex che evidenzia di non voler arrendersi davanti a quella che l’atleta ritiene una palese ingiustizia.

 

Come non domandarsi alcune cose: per quale folle motivo  assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi, perché prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi,  perché mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.

C’è anche chi sostiene che alcuni avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.

Ma  soprattutto Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane, ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.

ì, si era dopato. Perché dopo aver vinto a Pechino era caduto in depressione, era insicuro e aveva paura di non essere più il migliore, perché vedeva gli altri, russi e cinesi, farlo e pensava che non avrebbe mai potuto tenere il loro passo. Disse tutto questo, puntò il dito contro la Iaaf e il suo sistema dei controlli, in una sua personalissima versione di “muoia Sansone con tutti i filistei”.

Tre anni dopo, a squalifica terminata, Alex tornò a marciare. Lo fece con una operazione pulizia su cui nessuno poteva nutrire dubbi. Schwazer marciava e si faceva prelevare sangue e urine praticamente tutti i giorni. Sempre pulito.

Poi a dicembre andò a testimoniare contro i medici della Federazione internazionale e lo stesso giorno la stessa Federazione ordinò un test antidoping su di lui da eseguire a casa sua a Capodanno. Le provette fecero un lungo viaggio, anonima ma con sopra scritto il nome del luogo in cui era avvenuto il controllo, “Racines”, comune dell’Alto Adige da 4474 abitanti e un solo atleta di altissimo livello. Viaggiarono fino a Stoccarda, dove rimasero un giorno per poi essere inviate al laboratorio di Colonia, dove fu riscontrata la positività.

Per Schwazer e Donati è un complotto. La Iaaf voleva farli fuori entrambi perché li riteneva troppo pericolosi ed era terrorizzata dalle dichiarazioni del marciatore (come poi fu confermato dalle email divulgate dagli hacker russi di Fancy Bear) e avrebbe manipolato le urine aggiungendo una grossa quantità di testosterone. La storia di quelle provette è piena di incongruenze, persino la reticenza e le resistenze della Iaaf a collaborare con la giustizia italiana sono sospette. Il tribunale ha ordinato nuovi test su 50 atleti volontari.

La giustizia penale italiana è troppo lenta e Tokyo 2020 è dietro l’angolo. Però Schwazer è tornato a marciare, con Sandro Donati, e i primi risultati sono incoraggianti. A 35 anni ne avrebbe ancora per competere ai massimi livelli e magari lottare per quello che a Londra si è tolto da solo e che a Rio non ha potuto dimostrare.

 




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