È morta Wanda Półtawska “sorella” di Papa Wojtyla

236

Wanda Półtawska – «Karol Wojtyła è stato — e resta — per me un padre, un fratello e un amico straordinariamente insieme nella stessa persona, ma soprattutto è stato — e resta — una grazia inventata dallo Spirito Santo, una ventata di speranza cristiana tra le tenebre del mondo, e non solo per me». Wanda Półtawska — morta alle 23.30 di ieri, martedì 24 ottobre, e davvero ancora nell’orbita spirituale della memoria liturgica di san Giovanni Paolo ii celebrata domenica — scelse queste parole per dire “sì”, con uno slancio non infiacchito dall’età, alla richiesta de «L’Osservatore Romano» di scrivere una testimonianza nel numero speciale (18 maggio 2020) dedicato ai cento anni dalla nascita del suo «padre, fratello, amico» che la chiamava affettuosamente dusia e cioè sorellina.

Wanda Półtawska — Wojtasik il cognome da nubile — avrebbe compiuto 102 anni (classe 1921, un anno più giovane di Wojtyła) il 2 novembre: per quel “gioco” di coincidenze (che poi coincidenze non sono) giorno della “prima messa” di don Karol nella cripta di san Leonardo al Wawel di Cracovia (era il 1946).

Donna con stile e carattere di roccia, con modi diretti e parole essenziali di fronte a qualsiasi interlocutore. Donna libera, soprattutto. Con una storia personale che la rende oggi quasi una “icona” della travagliata storia del Novecento per la sua Polonia e la stessa Europa. Un travaglio che le cronache di questi giorni confermano tragicamente attuale.

Originaria di Lublino, Wanda ha vissuto esperienze fondanti nei circoli della gioventù cattolica, negli scout, anche nello sport, e ha studiato nel Collegio delle suore orsoline. Per poi rimboccarsi le maniche — un gesto energico che le era proprio, quasi come fosse un “segnale di battaglia” — nella resistenza polacca all’invasione nazista in Polonia avvenuta il 1° settembre 1939.

Arrestata il 17 febbraio 1941 — appena diciannovenne — è stata prima vittima di maltrattamenti nel lugubre carcere della sua Lublino e poi, dal 21 novembre dello stesso anno, ha visto il suo nome trasformato nel numero 7709 nel famigerato lager di Ravensbrück, particolarmente noto per gli inumani esperimenti sulle prigioniere (delle quarantamila donne polacche lì rinchiuse ne sono sopravvissute ottomila).

Wanda-7709 è stata ridotta a cavia. Per la precisione (usando l’ignobile terminologia nazista) a “Kaninchen” — e cioè “coniglio” — per la “clinica della morte” diretta dal “dottor” Kael Gebhard, medico personale di Heinrich Himmler, capo della Gestapo. Per studiare farmaci per i soldati al fronte, alle donne venivano provocate fratture e amputazioni. Ed erano sottoposte a ogni sorta di “sperimentazioni”, quasi sempre mortali.

Vivere «l’inferno», la disumanità — ha poi ripetuto Wanda per tutta la vita dopo essere sopravvissuta «per grazia di Dio e con un motivo, evidentemente» al lager (venne liberata tra aprile e maggio 1945 dall’Armata rossa) — è stato «l’incendio» che l’ha convinta a laurearsi in medicina e in psicologia con specializzazione in psichiatria, studiando anche filosofia. Al cuore di tutto, per lei, c’era la questione della persona umana, della sua dignità. «Chi è l’uomo?» la domanda unica, di fondo, che da donna cristiana si è posta durante e dopo Ravensbrück.




Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *