LA FUGA DAGLI APPENNINI

193

APPENNINI – La popolazione dei piccoli centri che occupano la dorsale appenninica del nostro Paese tende a ridursi progressivamente. Un vistoso calo demografico che va a vantaggio dei centri urbani medio-grandi. A fare un quadro della situazione è Donato Di Sanzo, ricercatore dell’Istituto di studi sul Mediterraneo del Cnr.

L’Italia è caratterizzata da grandi centri ma anche da piccoli comuni, come vengono considerati per legge quelli con meno di 5.000 abitanti. Località sparse lungo tutto lo Stivale, da nord a sud, e che costituiscono l’insediamento urbano prevalente della dorsale appenninica. Ed è proprio in questi luoghi che si registra un vistoso calo demografico, determinato da ragioni diverse che in molti casi convivono: invecchiamento della popolazione, diminuzione delle nascite, emigrazione spesso causata da una significativa riduzione dei servizi, che è al tempo stesso motivo e conseguenza di tale spopolamento. Ma non si tratta di un fenomeno che nasce ora.

“Il progressivo abbandono dei comuni dell’ “osso” – come aveva definito le aree interne dell’Italia il meridionalista Manlio Rossi Doria, distinguendole dai territori più dinamici, la cosiddetta “polpa” – ha un’origine rintracciabile in trend di lungo periodo”, chiarisce Donato Di Sanzo dell’Istituto di studi sul Mediterraneo (Ismed) del Consiglio nazionale delle ricerche. “I dati Istat sui movimenti di popolazione, elaborati, tra gli altri, da Openpolis nel febbraio del 2023, descrivono una tendenza generale allo spopolamento delle zone periferiche in favore dei centri urbani medio-grandi, diventati progressivamente poli di attrazione per famiglie e servizi”.

A conferma della continuità nel tempo di questo fenomeno ci sono le cifre, come evidenzia il ricercatore: “Dal 1951 a oggi, la popolazione dei comuni-polo è aumentata del 30,6% (da 15,8 a 20,6 milioni di abitanti); i residenti nei comuni-cintura, localizzati negli hinterland delle più grandi città, è cresciuta del 48,9% (da 16 a circa 24 milioni); di contro, comuni periferici e ultraperiferici hanno registrato un crollo del 26,4% (da 6,7 a 5,4 milioni di abitanti). In termini più generali, lo spopolamento delle aree interne è inquadrabile nella diminuzione del 19% dei residenti di tali centri dal secondo dopoguerra ai giorni nostri”.

Comune di Camarda

Comune di Camarda, frazione dell’Aquila

La fotografia fornita dall’Istat evidenzia poi intensità di abbandono differenti nelle varie zone periferiche, e quelli appenninici tra i territori più colpiti. “Più nello specifico, è il tratto appenninico meridionale a registrare un maggiore impoverimento demografico, che si è innestato su questioni socio-economiche che storicamente riguardano il Mezzogiorno e che hanno configurato la questione meridionale, come l’emigrazione verso il centro-nord e all’estero o la debolezza strutturale del sistema produttivo, infrastrutturale e dei servizi”, spiega il ricercatore. “Le stime relative al 1951-2019 raccontano che le aree interne dell’Appennino meridionale hanno perso 1,2 milioni di abitanti, con una decrescita media annua del 2,5%, a fronte di un decremento del 1,6% registrato nei contesti periferici del resto del Paese”.

Un processo che appare inarrestabile e che rischia di mettere in discussione il futuro di numerose comunità, legato com’è a impoverimento sociale, economico e culturale. “Lo spopolamento è correlato alla drastica riduzione dei servizi e a un impoverimento non solo quantitativo, ma sempre più qualitativo. Basti pensare all’invecchiamento della popolazione nelle aree interne, al profondo svuotamento di capitale sociale e alla riduzione della popolazione attiva: l’indice di vecchiaia delle aree periferiche supera nettamente quello dei centri urbani medio-grandi (192,2 contro 178,8), mentre in alcuni comuni dell’Appennino centrale e meridionale sono riscontrabili tassi di popolazione ultrasessantacinquenne pari alla media di 223 anziani ogni 100 persone in età da lavoro”, precisa Di Sanzo. “Cifre del genere sono frutto di emigrazione e abbandono delle aree interne, i cui principali protagonisti sono giovani (in molti casi altamente istruiti e specializzati) e famiglie alle prese, nei propri territori di origine, con elevati tassi di disoccupazione, difficoltà nell’accedere ai servizi essenziali e stili di vita e di consumo tipici dei centri urbani medio-grandi”.

La situazione non sembra destinata a migliorare, anzi le prospettive indicano possibili peggioramenti. “Proprio l’impoverimento qualitativo delle aree abbandonate rischia, ancor  più della ‘scomparsa’ numerica di residenti, di rendere più difficoltosa un’inversione di tendenza. Le proiezioni al 2050 prevedono, ad esempio, la ‘morte demografica’ di interi comuni e borghi dell’Appennino centrale e meridionale”, conclude l’esperto. “Rispetto a ciò, solo da alcuni anni sono in attuazione progettualità che provano a riattrarre capitale sociale attraverso politiche di promozione territoriale e l’infrastrutturazione di servizi all’avanguardia. I cui esiti, tuttavia, sono ancora da verificare”.




Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *