Cinema – Film – Hubert Charuel ed il suo Petit Paysan

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Petit Paysan – Giovane allevatore di vacche da latte, Pierre è legato anima e corpo alla sua terra. L’amore per i suoi animali rappresenta il pendolo della vita di Pierre, scandita dal rapporto conflittuale con la sorella, veterinaria incaricata al controllo sanitario della regione. Ma il futuro dell’azienda familiare è messo in pericolo quando un’epidemia vaccina si diffonde in Francia, finendo per colpire una delle sue vacche. Pierre sarà trascinato in un vortice di colpe e speranze, spingendosi sino ai limiti estremi della legalità pur di salvare i suoi amati animali. A metà fra il dramma rurale ed il thriller sociale, Petit paysan è il film d’esordio di Hurbert Charuel presentato a La Semaine de la Critique del Festival di Cannes, pluripremiato al Festival du film francophone d’Angoulême e insignito del Premio Foglia d’Oro al Festival France Odeon di Firenze. Tutto questo e molto altro è nelle sale italiane grazie al film francese ‘Petit Paysan’- un eroe singolare di Hubert Charuel con Swann Arlaud e Sara Giraudeau.

Hubert Charuel sul film si dimostra soddisfatto e dichiara con schiettezza e simpatia.
“I miei genitori hanno una fattoria, come i loro genitori prima di loro. La loro fattoria si trova a Droyes, fra Reims e Nancy, a venti chilometri dal paese più vicino, Saint-Dizier. Sono sopravvissuti alla crisi casearia grazie al duro lavoro, a piccoli investimenti e prestiti.Ci vuole molta intelligenza e duro lavoro per sopravvivere”.
Hai mai pensato di prendere in mano la fattoria?
“Nel 2008 io e mia madre abbiamo avuto un incidente d’auto. Sono stato con lei per sei mesi. Durante quei sei mesi di disciplina ultrarigorosa, ero al meglio della forma fisica e mentale! Sono stato bene, me la sono cavata con le vacche, tanto che l’ispettore lattierocaseario ha detto ai miei genitori: “È un vero guardiano!”
La stessa «routine inebriante» che Pierre vive nel film?
Assolutamente. Alla fine ho capito che mi sentivo bene perché sapevo che sarebbe finita. Sono figlio unico. Mia madre é andata in pensione poche settimane fa. Quindi sono l’unico figlio che non prenderà le redini della fattoria dei suoi genitori. Petit Paysan parla della grande pressione che si vive in un’azienda agricola: si lavora sette giorni alla settimana, bisogna mungere le vacche due volte al giorno, tutto l’anno, tutta la tua vita. Il film tratta anche dei rapporti con i genitori che sono sempre fra i piedi, sul peso di quel patrimonio. I gesti sono sovra-ritualizzati. Si va a mungere come se si andasse a pregare, di mattina e alla sera. Essere un produttore di latte è una vocazione”.
Com’è nata l’idea del film?
“La crisi della mucca pazza ha lasciato un’impressione indelebile in me. Ho un ricordo vivido di un servizio in tv sulla malattia. Nessuno capiva cosa stesse accadendo. Hanno ucciso tutti gli animali… E mia madre disse: “Se succede alla nostra fattoria, mi uccido”. Come Pierre, i fattori chiamano spesso il loro veterinario, hanno bisogno di essere rassicurati. E la mucca pazza era una malattia inusuale che i veterinari non sapevano gestire. Non sapevano come veniva contratta. Tutti stavano impazzendo. Era pura paranoia. Alla Fémis film school avevamo un compito di sceneggiatura, sotto la guida della sceneggiatrice americana Malia Scotch Marmo che mi disse: “hai qualcosa, devi solamente scriverla”. Dopo aver finito la scuola ho incontrato Stéphanie Bermann e Alexis Dulguerian della Domino Films che erano interessati alla sinossi. Dopo due anni e mezzo di scrittura è venuta fuori la sceneggiatura”
Diresti che Pierre sei tu?
“Il personaggio reagisce e parla in modo diverso, ma ovviamente Pierre conduce la vita che avrei vissuto io se non avessi deciso di fare film. La sua connessione intima con gli animali e il rapporto con i genitori sono quelli che ho io. Il film è stato girato nella fattoria dei miei. Pierre possiede trenta vacche, proprio come i miei genitori. Mia madre ha davvero molto a cuore le sue vacche: se una di loro si ammala o richiede trattamenti speciali e costosi, lei non si tira indietro. Pierre le somiglia… ma è sempre una fattoria, la produzione di latte è migliore se tratti bene il bestiame. È una cosa ambivalente: vuoi davvero bene ai tuoi animali e allo stesso tempo li sfrutti”.
Che risultato volevi ottenere con la prima scena?
“Onirica e allo stesso tempo impressionante. Pierre sogna che I suoi animali sono in casa. Imposta immediatamente il tono tutto in una volta: una scena stramba, singolare. Mostra che il film non sarà solo realistico, ma che si svolgerà anche attraverso la mente del protagonista. La scena mostra quanto Pierre sia davvero ossessionato: le sue vacche prendono tutto lo spazio, tutta la sua vita, giorno e notte. Racchiude il film stesso: la storia di qualcuno che si barrica in casa insieme ai propri animali. Si sente bene solo quando è con le sue vacche, tollera le persone, ma non è ciò che lo tiene in vita. Sarà il viaggio dell’intero film: Pierre dovrà imparare a farcela da solo, senza le sue vacche”.
Cosa ci dici del vicino che è così orgoglioso del proprio robot?
“Da un lato c’è la fattoria di Raymond, che è la riflessione di Pierre, solo cinquant’anni più grande. E dall’altro c’è una fattoria con un robot dove il benessere delle vacche è quasi automatico. Conosco una fattoria così, dove c’è solo una stazione radio 7 giorni su 7, 24 ore al giorno perché gli animali sono attratti dal suono. La radio è vicina al robot che le nutre e le munge. Gli animali saranno più felici, avranno maggiore autonomia ma l’obiettivo è sempre la produzione. Ben presto non ci saranno più fattorie gestite da uomini. Le vacche di Pierre hanno un nome, ben presto avranno solo dei numeri. Anche se il film sconfina nella fantasia, è stato pensato per rendere conto di questa evoluzione. Gli spettatori potranno pensare che Pierre venga contagiato dalla malattia, ma i sintomi sono piuttosto psicosomatici. I fattori vivono sotto stress. Ne conosco alcuni che prendono anti depressivi, altri che soffrono di psoriasi.
Come hai trasformato un film realistico in un thriller psicologico?
“Attraverso la scrittura, le riprese ed il montaggio! Ci è venuta questa idea di passare dal naturalismo a una vena più thriller e di giocare con i codici del genere. La storia si sviluppa seguendo una falsa pista: per salvare le sue vacche, Pierre deve avere una vita sociale, vedere gli amici, addirittura uscire a cena con la panettiera. Durante le riprese abbiamo cambiato le inquadrature e la luce: il film comincia con un’atmosfera calda e solare per poi bagnarsi in una luce più industriale e artificiale. Le scene degli “omicidi” sono emblematiche, per la loro lunghezza, per il montaggio ed il ritmo. La prima volta, Pierre fa su e giù dentro casa chiedendosi che arma usare… Ha bisogno di tempo. Prima del secondo omicidio, l’inquadratura rimane completamente vuota mentre il personaggio esce per agguantare il fucile. Quando Pierre ritorna in campo, è completamente cambiato, è diventato un assassino. La musica composta da Myd, del Club Cheval collective, consente questo passaggio dal realismo al genere. Pierre è spesso solo e la musica è anche un modo per entrare nella sua mente”.
È complicato girare un film con delle vacche?
“Certo, soprattutto se ce ne sono trenta! Una vacca è come un bambino di cinque anni, tranne che pesa 900 chili e non va a scuola. Ci vogliono dieci minuti per mungere una vacca, quindi non potevamo tenerne una legata per venti minuti con quel caldo, non era bene per lei. Gli attori sono più tolleranti, ma loro sanno bene perché sono lì, mentre gli animali non lo hanno chiesto. Il rispetto per gli animali era di primaria importanza per me. C’erano cose che semplicemente non potevamo fare. Oltretutto, quando un animale è stressato puoi vederlo sullo schermo. Volevo raccontare la storia di un fattore che vive in armonia con i suoi animali”.

Raffaele Dicembrino




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